Claudio Bartoli

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Sul numero 8 del bimestre gennaio-febbraio (1969) della Vostra rivista è stato pubblicato l’articolo del nostro Socio Claudio Bartoli, dal titolo: «Ciarforon, Montagna amica». Ora purtroppo il giovane Bartoli è tragicamente perito la vigilia di Pasqua, travolto da una slavina nei pressi del Rifugio «Ai Caduti dell’Adamello». Vi trasmettiamo lo stesso un suo articolo lasciando a voi il giudicare se sia il caso di riprodurlo su Rassegna Alpina. Aldo Varisco, Segretario C.A.l. Brescia

* Abbiamo qui sul tavolo la lettera con cui Claudio Bartoli offre la sua collaborazione a Rassegna Alpina, con quella dell’amico fotografo Manuel Fasani, per «far conoscere ai giovani, in un periodo in cui non si parla che di sesto grado, anche gli itinerari classici con difficoltà medie, in particolare vie, e versanti oggi poco frequentati, dove la montagna è bella e incontaminata». Questo ci scriveva Claudio Bartoli, giovanissima promessa dell’alpinismo che aveva in primo luogo captato il vero spirito della montagna. Con la quale aveva instaurato un personalissimo rapporto, che traspare schietto dalle righe del suo articolo pubblicato sul precedente numero della rivista, quale inizio della sua collaborazione: «Ciarforon, montagna amica». Ora che la montagna gli è stata così crudelmente nemica, non ci rimane che il suo ricordo ed il suo esempio da proporre agli altri giovani che verranno dopo di Lui. Il suo ultimo articolo «Thurwieser, spigolo Est» verrà pubblicato sul prossimo numero e un altro giovane collaboratore di Rassegna Alpina, Alessandro Gogna, darà l’ultimo saluto al compagno caduto nel perseguimento dell’ideale.

«Thurwieser, spigolo Est»
Questa non è la relazione di una «prima» su qualche spaventosa muraglia dolomitica o di qualche spedizione in terre lontane: è semplicemente il tragicomico racconto di una bella ascensione su una bellissima montagna. Protagonisti dell’ascensione sono tre individui che rispondono, oltre che a urlacci e maledizioni, anche ai nomi di Fausto il Nibelungo, così soprannominato per la sua sconcertante somiglianza con un figlio della razza ariana, cosa che ha provocato incidenti diplomatici con guidatori nazionalisti, e che è il bimbo della compagnia (18 anni); Manuel, cultore del prezioso dialetto bresciano e fotografo e il sottoscritto: i vecchi (19). Già da molto tempo avevamo nel nostro programma di ascensioni la salita della Punta Thurwieser, m. 3645, situata nello splendido gruppo dell’Ortles, salita (per lo spigolo Est) giudicata dai sacri testi alpinistici piuttosto difficile. Sicché un bel giorno, esattamente il 21 luglio, Manuel ed io, saltati, come si suol dire, nelle brache, salpiamo alla volta di Pontedilegno dove, immerso in ozi capuani ci attende Fausto. La sua mamma, con l’abituale gentilezza, ci rimpinza di casoncelli e Manuel furtivamente ne incarta uno con l’intento di portarselo in cima alla Thurwieser come viatico. Annebbiati e barcollanti saliamo sulla corrierina che ci porta fino a S. Caterina Valfurfa. Quivi entra in funzione l’«autostop» o «ditone» come icasticamente lo definiamo. Con tale mezzo eccoci a Bormio, dove iniziamo le ricerche della promessa Jeep che ci dovrebbe portare in fondo alla Val Zebrù. Per le vie di Bormio siamo ammirati come rarità zoologiche dal villeggianti inguainati in rutilanti calzoni e magliette, mentre nell’aria si spandono le dolci note di un villereccio… giradischi. Molto confortante. Finalmente, dopo lunghe e affannose ricerche di un Bar Roma, effettuate principalmente da Manuel, che essendo privo della «erre» confonde le idee ai pacifici indigeni, troviamo finalmente il guidatore della jeep che è anche guida e gestore del rifugio V Alpini che si chiama Pierino Confortola, che ci è stato di grande aiuto, persona gioviale e cortesissima. Con la macchina saliamo la suggestiva e selvaggia Val Zebrù (17 km. circa) e poi a piedi fino al piccolo e accogliente rifugio, ivi troviamo la quattrenne figlia del gestore, la quale insindacabilmente stabilisce che salirà domani con noi la Thurwieser. Il gestore ci indica l’itinerario di salita, che si nasconde dietro nuvolaglie grigie. Ma il mattino seguente ci porta la sorpresa di un cielo superbamente stellato. Ci prepariamo esultanti alla partenza. Per la subdola Vedretta dello Zebrù giungiamo al Passo dell’Ortles dopo circa due ore. Ci assale un poderoso vento che ci induce a salire rapidamente su per la cresta dei Coni di Ghiaccio scelti ieri sera come itinerario di avvicinamento alla nostra cima. La cresta si presenta difficile per la molta neve e il vetrato. Proseguiamo abbastanza svelti, ma Fausto e immerso in un sonno profondo dal quale non lo strappano nemmeno le nostre orrende maledizioni. Sorge il sole proprio quando siamo in un momento critico: un passaggio difficile. scoraggiamento serpeggiante, e Fausto che dorme. Il momento difficile è però superato, e presto ci troviamo, dopo la salita di un ripidissima canalino ghiacciato, sulla vetta dei Coni di Ghiaccio. Foto di Manuel, espertissimo in diaframmi e tempi di posa, e adesso un po’ di cioccolato. Dal mio sacco escono chiodi, martelli, un pezzo di fetentissimo gorgonzola che fa svegliare momentaneamente Fausto; calze e pedalini, ma cioccolata niente. Pazienza. In breve siamo al colletto nevoso tra Coni di Ghiaccio e Thurwieser. Di qui si slancia in alto il bellissimo ed elegante spigolo Est della nostra cima. Si tratta di una affilata lama di neve e ghiaccio, alta circa 200 metri con l’inclinazione media di 50°, e un’impennata finale sui 60°. Pausa di meditazione. Preparato il materiale, partenza. L’inizio è abbastanza agevole, la neve è durata. Sicuri ci alziamo filata dietro filata per 150 metri a cavallo tra due baratri, e Manuel borbotta qualcosa sulla parte dalla quale sarebbe più salutare cadere. Gli ultimi 50 metri sono di ghiaccio vivo. Con fatica riusciamo a piantare nella grigiastra superficie vetrosa un chiodo piuttosto malsicuro dopo 20 metri «violenti». Finalmente riusciamo ad afferrare una esile corda fissa per la quale ci inerpichiamo leggeri leggeri (c’è chi non può; leggi Manuel) per evitare ripercussioni sull’ignoto aggancio della corda. Arrivati all‘aggancio, peraltro solidissimo, ci restano 80 metri di roccette quasi verticali e della consistenza di un biscottino da tè, tutte sporche di neve fresca e poi la esile, ertissima cima della Thurwieser. Il tempo è sempre favoloso, la fortuna è con noi. La sconteremo amaramente questa fortuna alle Jorasses, al Badile, alla Tour Fionde… Dopo una breve sosta via in discesa. Alla fine della corda fissa prepariamo una «doppia» il cui allestimento in mezzo a un ingarbugliamento di chiodi, cor- dame e gambe aggrovigliate, in circa mezzo metro quadrato di terrazzino, è stato così rapido e funzionale da meritare le lodi del nostro capo istruttore signor Tullio Corbellini che adesso stiamo immaginando sperduto nelle desolate lande groenlandesi. Arriviamo festanti al colletto, poi per un ripido canalone, scivoliamo con tragiche conseguenze per il fondo dei nostri calzoni fino sulla vedretta dello Zebrù, e di qui al rifugio, dopo numerose discussioni con alcuni crepacci. Sono le quattordici. Il gestore si congratula con noi, primi salitori annuali (!!!) della Thurwieser. Ci aspetta un pomeriggio di ozio. Ma ahimè, la quattrenne figlia del gestore è assai risentita con noi perchè non l’abbiamo portata sulla Thurwieser. Ecco dunque che trascorriamo tre ore in dilettevoli giochetti di società al termine dei quali Fausto si trova legato per il collo con un cordino, mentre la piccola gioca al boia. Salviamo il compagno e dopo un lungo ed intenso pasto, ci trasferiamo nelle ospitali cuccette. Durante la notte avvengono strani fenomeni: la pila di Fausto illumina il famoso pezzo di gorgonzola che attraversa con mezzi propri la camera e sparisce sotto la porta per non farsi rivedere mai più. Al mattino siamo brutalmente svegliati alle ore 8 per scendere a S. Caterina in jeep. Il tempo brutto provoca l’egoistica contentezza di Manuel (chè bròt, ma nòtri ‘an fà nulla) (è brutto ma a noi non importa, n.d.r.). In breve siamo sul marciapiede della strada del fondo valle. Sono le nove, fino alle undici nessuno ci rimorchierà. La sofferenza è grande. Per sopportarla, inganniamo il tempo e l’attesa macinando un numero incredibile di belle banane (credo di averne mangiate sei…) acquistate presso un furgoncino di frutta. Per due ore siamo oggetto di cortese attenzione da parte di mamme e bimbi in villeggiatura (vedi Pierino? Anche tu se fai il cattivo diventerai cosi…). Finalmente alcune anime buone, di cui una guidava a 70 all’ora sulla strada del Gavia provocando sommovimenti nelle budella di Manuel particolarmente sensibile alla guida veloce, giungiamo a Pontedilegno. Pausa gastronomica e poi, lasciato Fausto, in autostop torniamo a Brescia.

CLAUDIO BARTOLI

Ricordo di Claudio Bartoli – Alessandro Gogna
Una sera di fine gennaio sono andato al CAI di Brescia per tenere una proiezione di diapositive. Non immaginavo di incontrare due ragazzi simpaticissimi, con cui fosse quasi obbligatorio stringere amicizia. Una coppia terribile, Claudio Bartoli e Manuel Fasani. Il letterato ed il fotografo, si erano divisi bene il compito, nelle «public relations». Ed ora sono costretto a scrivere queste poche righe, che vogliono essere l’ultimo saluto ad un amico troppo poco conosciuto, ma che in breve tempo si è rivelato come una delle poche promesse giovani dell’alpinismo e della letteratura alpinistica. Non so da quanto tempo andasse In montagna. Volutamente non mi sono interessato della meccanica del tragico incidente. Non conosco quali salite abbia compiuto. Di lui ricordo una grande simpatia e spontaneità immediata, un’intelligenza viva, una volontà sorprendente. Forse anche a Lui sono riuscito subito simpatico, ed è per me il più bel ricordo. Forse in me vedeva un fratello maggiore (non di tanto), con ancora le sue stesse idee, lo stesso entusiasmo. Forse io vedevo in lui ciò che ero pochi anni fa: gli autostop disperati, le marce notturne, la fame, Il portafogli vuoto, le prime conquiste a lungo sognate… «Siamo tre ragazzi, da soli, ci siamo studiati la via sulle carte, sulla guida, tutto da noi; siamo partiti e siamo qui senza il maestro che ci guida. Un po’ di paura, naturalmente». Mi sembra di leggere il mio diario. Dopo la serata, non volevamo più andare a dormire. Parlare, ridere, scherzare. Progetti. Quel suo umorismo particolare, uguale a voce e per iscritto. Poi la notizia sul giornale, qualche mese dopo, improvviso, brutale. Ci tenevo a che diventasse un ottimo alpinista (non lo era forse già?), che scrivesse, che muovesse le acque in questa palude giovanile, in cui nessuno scrive e tutti fanno il « sesto ». E così, quando ho capito che non poteva più vivere si è spezzato qualcosa anche dentro di me.

«Ciarforon, montagna amica»
Infatti, vista dal sentiero che ripidissimo conduce da Pont in Valsavarenche, Val d’Aosta, al rifugio Vittorio Emanuele II, si mostra con le linee panciute della calotta nevosa, simile a una bella testa calva; vien voglia di passarci sopra una mano per sentirne la levigatezza. E una sensazione piacevole, amica. Ma seguitiamo sul sentiero e facendo attenzione a non tagliar la strada a qualche stambecco, si nota che la calotta comincia ad alzarsi e si vedono a poco a poco i fianchi del monte. Ecco che ci si rende conto delle dimensioni: per andare ad accarezzare quella bella e tonda superficie sarebbe necessario un braccio di cinquecento metri. Domina la scena la parete N, il versante più bello di tutta la montagna. Una parete superba. Un grasso rigonfiamento brulicante di seracchi in basso. Duecento metri al di sopra, la crepaccia terminale, di cui farò ben presto la conoscenza. Una fascia di rocce a destra, un muro di ghiaccio alto da 30 a 60 metri a sinistra, che fascia tutta la parte alta. Tra rocce e muro un passaggio buio e freddo. Ai piedi della parete il ghiacciaio di Moncorvé, bianca distesa variegata. Dietro a quello una lunga morena fino al rifugio. Poi il rifugio, alta costruzione rivestita di lamiera, scintillante. Dietro il rifugio, tre giovanotti con sacchi informi, lingue penzolanti, occhi rivolti al… monte. Ovviamente siamo noi due e un nostro amico che ha la funzione di portatore a causa della sua bontà d’animo che non gli permette di protestare. In rifugio disponiamo in bell’ordine trentadue scatolette sul tavolo (tonno, carne, lingua, frutta) e ci nutriamo copiosamente. Poi,riflessioni. Eccoci arrivati da Brescia in un sol balzo con l’auto di mio padre (sono lontani i tempi in cui ogni mia partenza per l’Alpe era preceduta da invocazioni e minacce!) sotto una parete poco conosciuta e piuttosto «sulle sue», in un gruppo di montagne selvaggio e mai visto prima. Adessi ci siamo. «E domani vedremo», filosofica e lapidaria sentenza, dopo la quale ce ne andiamo a letto. 19 settembre ore 6,30. Siamo seduti sull’orlo della morena e ci allacciamo i ramponi. Il ghiaccio è solcato dalle tracce degli Alpini della Scuola di Aosta, che si sono esercitati qui ieri. Dietro alle montagne dell’alta Val d’Aosta, qualche nuvola. Là in fondo, a Pont, si dorme della grossa. A quest’ora, in montagna, sembra di stare nel vetro. In un vetro biancazzurro, freddo. Un bel silenzio, «alto» se vogliamo l’immagine poetica. Rumori di fondo: i ramponi che stridono e il mio amico fotografo che si soffia il naso arrossato dal freddo. Sosta. Gli intrugli propinatici per colazione ribollono nelle oscure profondità. Riposo. Uno sguardo di insieme su quest’angolo di mondo: il ghiacciaio è racchiuso in una conca ampia, accogliente; col sole dev’essere una meraviglia. Adesso sembra di essere sulla luna. Un livido laghetto in basso nella morena. E sempre, il rombo di un jet che riempie il cielo e una striscia di vapore rosato dietro la macchia scintillante. Siamo sulla linea Milano-Ginevra. A quest’ora, la hostess (commenti salaci) passerà con il primo caffè, caffè vero. Chissà dove va. Il rumore fa compagnia. Partenza. Mancano circa 700 metri alla cima e 400 al crepaccio terminale. Iniziamo con una lunga diagonale (nella parte in ombra della fotografia, a sinistra). Conduce il fotografo. Nuove prospettive del Ciarforon e delle zone intorno; in alto la verticalità non si nota, tutto appare schiacciato. In basso le allegre bocche dei crepacci. In fondo alla scena, la cima del Bianco occhieggia tra le nuvole. Sei occhi supplichevoli la guardano. In breve siamo al crepaccio terminale, in cui cado. La cosa mi secca e la parte del mio corpo dalla vita in giù reclama la luce. La ottiene presto. Un’occhiata in su, un colpo ai calzoni che tendono a cadere, brandisco la piccozza e parto. Gloria per tutti! il pendio è molto ripido (50°),la neve tiene. Quaranta metri, un bel chiodo a vita nel ghiaccio, colpi di piccozza per scavare una piazzola di sosta e il rituale «Parti!». Quante volte ho ripetuto questi gesti meravigliosi! Ma cui è diverso. Siamo tre ragazzi, da soli, ci siamo studiati la via sulle carte, sulla guida, tutto da noi; siamo partiti e siamo qui senza il maestro che ci guida. Un po’ di paura, naturalmente. Sale il secondo. Sono felice di starmene attaccato al ghiaccio, li in mezzo, legato a un chiodo, insolentito dal basso perchè non recupero la corda al millimetro. Mangiamo una marmellata, uno sopra l’altro, ramponi e casco a contatto. Riparto. Sempre più ripido, ma non verticale nè difficilissimo. Richiede un po’ di cautela, ecco. E un minimo di tecnica. Il canalino. La faccenda è grama, sento il ghiaccio vivo sotto i ramponi. Ma ne usciamo bene. La valle si è inabissata, lo spettacolo è bello, come sono belle le facce ridenti e spettinate dei miei compagni, la mia piccozza che fa zampillare schegge di ghiaccio dal pendio. in basso la neve si colora di arancio e poi scintilla: è sorto il sole, ma qui non lo vediamo. incidentalmente fa un freddo cane. Ultime tirate di corda su ghiaccio ripido e neve polverosa. Chiodo, attenzione, calma e parolacce. E poi sbuchiamo in cima, col sole. Noi tre, in cima al Ciarforon, saliti dalla parete N, che proprio una passeggiata non è, tant’è vero che l’ha salita anche Bonatti, figurati, e poi l’ha detto anche Carlo, ma sì, quello del Badile, quello che ha fatto la Major… Noi tre, che ieri eravamo a quest’ora a preparare i bagagli, adesso siamo qui in cima. Uno sguardo in giro. La Grivola (l’anno prossimo, da Nord Ovest) domina ad Est. Poi la favolosa parete NO del Gran Paradiso che col Kilimangiaro è il sogno del nostro secondo di cordata. La pianura lontana, luci e ombre. Il Monte Bianco, le Grandes Jorasses (un mese fa eravamo là sopra); un luogo meraviglioso, la cima spaziosa del Ciarforon nel gruppo del Gran Paradiso. Seduti sulle corde noi tre soli, mangiamo. lo fumo la pipa con grande costernazione altrui. Sbrendoli di nebbia passano via. Il tempo è bello; qui sulla nostra testona calda e candida. Bel colpo, ragazzi! Il rifugio brilla col suo rivestimento di lamiera là in fondo. Sono le 10,30: Evviva! che tanto di tempo ce n’è.

CLAUDIO BARTOLI

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