Soldà al Baffelàn

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E’ venerdì sera ed ormai sono le dieci passate. Sul tavolo un caraffa di “CoppaAurora”, sulle ginocchia la nana che sorride, alle mie spalle, oltre le finestre della sala da Pranzo del Rifugio SEV, la Parete Fasana e poco distante la grande Onda del Corno Orientale e la via che porta il nome di mio nonno. Davanti a me, attraverso il buio ed una piccola folla, scorrono le immagini e le parole luminose di Ettore Castiglioni che, con il Gruppo del Berio, aiuta Einaudi e gli altri profughi a fuggire attraverso le Alpi verso la Svizzera. Ettore Castiglioni, compagno di cordata con Detassis sul Brenta, di Bonacossa in Patagonia, dello “Zio Vitale” sulla nord Badile. Per un istante mi perdo: forse sono le parole di Ettore, forse il sorriso della nanerottola che con due mani succhia felice un pezzo di pane, forse il travolgente intruglio alcolico rosastro dei Corni… per un istante l’alpinismo, qualsiasi cosa sia, mi sembra qualcosa di più importante, qualcosa che si spinge oltre il grado o le cime o le pareti delle montagne. Qualcosa la cui forza autentica trasforma gli uomini: una catarsi che li rende al mondo con uno sguardo ed una volontà capace di cambiare anche la storia. Prendere posizione nonostante la gravità, nonostante le avversità, tenere la posizione senza perdere equilibrio ed umanità. Reggere ed avanzare. Questo forse è un alpinista.

Leonardo è un ragazzo di Montecchio Maggiore, nel vicentino: è uno che arrampica forte e parla chiaro, decisamente chiaro. Per qualche strano motivo ci siamo scritti qualche rapido messaggio in passato e da allora mi capita di curiosare tra le fotografie delle sue salite tra le montagne ad oriente. Recentemente ha pubblicato una fotografia accompagnata da una severa critica nei riguardi di nuove vie sportive che, “col mitragliatore a spit”, tagliano vecchie linee perdute di Gino Soldà, a cui si rivolge con evidente affetto. “Esporsi senza protezioni”, tanto sulla roccia quanto nella vita, sembra una curiosa caratteristica naturale degli appartenenti alle tribù “NoSpit”. Da fuori non ce ne si rende conto, ma osteggiare l’avanzata del trapano significa spesso circondarsi di inamicizie e pericoli, isolarsi. Forse è anche questo che spinge a cercare conforto nelle parole dei fantasmi del passato, coloro che spesso ci accompagnano nel silenzio dell’incertezza.    

Le parole di Leonardo mi hanno spinto a cercare in un vecchio libro. Un libro che, attraverso Ivan Guerini,  mi è stato regalato da Giovanni Rossi. Un libro del 1981, all’epoca venduto al nostalgico prezzo di 12.000 Lire: “Alpinismo perchè – Confidenze e opinioni di alpinisti a Marino Stenico”. Un libro davvero particolare: oltre 80 alpinisti hanno risposto a questa domanda, di ognuno di loro è riportata la risposta, una foto ed un autografo.

Credo che a Leonardo, se già non possiede questo libro, faranno certamente piacere le parole di Gino Soldà:

Ciò che ricordo, già dai primi contatti con la montagna, è la gioia. Questa sensazione è sempre stata la protagonista indiscussa nei miei contatti con la montagna. Naturalmente questo stato d’animo ha avuto forme e tensioni diverse. Ricordo che la prima volta che ho avuto occasione di vedere la roccia da vicino (le Piccole Dolomiti) è stato nella primavera del 1919, quando avevo 12 anni, prima non si poteva andare in montagna, perché era zona militare in periodo di guerra. Sono andato con i miei compagni di scuola. Avvicinarmi alle montagne e alle rocce, mi sembrava di assistere alla rappresentazione di uno spettacolo molto piacevole, che mi dava una grande gioia. Non riuscivo assolutamente a capire le distanze che mi dividevano alle cime delle montagne e dalle varie pareti. Sfuggendo all’attenzione del maestro e sopravanzando i miei compagni, io correvo a tutto fiato verso i costoni che mi separavano dalla cima più alta della montagna, credendo di poterla raggiungere in brevissimo tempo, invece raggiunto il crinale del costone, vedevo che dalla cima mi separava prima un profondo vallone, poi altri costoni e altri valloni, ciò mi eccitava, avrei voluto superarli tutti di corsa per arrivare proprio a contatto con la Cima, senza paraventi davanti, come se la Cima fosse una misteriosa Dea; ma non potevo allontanarmi troppo, non ero libero di sognare, dovevo fare ritorno tra i miei compagni di scuola. La mia passione per la montagna che era nata piuttosto focosa ed esigente, non mi permetteva di rimanere in quel gruppo a contemplarla da lontano. Vicino al Passo c’erano le pareti, sulle quali durante la guerra da pochi mesi terminata, avevano issato gli alpini scalette in legno, scalette con corde di ferro, corde passamano per le cenge, utili a raggiungere postazioni di mitragliatrici sulle pareti. Tutto ciò destava in noi scolari molta curiosità e alcuni, sempre di nascosto, ci siamo buttati verso questa insolita avventura, perché la consideravamo un gioco attraente. Io mi lanciavo su per le scalette sempre di corsa anche se erano malandate dal tempo. I miei compagni mi seguivano per un po’; ma poi mi lasciavano andare, perché pensavano che fosse troppo pericoloso, invece io continuavo, salivo sempre più in alto, questo gioco mi piaceva molto, il vuoto mi eccitava e mi dava tanta gioia, probabilmente rispetto ai miei compagni io non avevo più coraggio, ma più incoscienza. Anche i miei primi approcci con vere pareti, a 16 anni, ma non può essere una ragione sufficiente, per affrontare tutto ciò che la montagna riserva a chi vuole misurarsi con lei fino ai limiti estremi. Io penso che questo desiderio di lottare con la montagna affondi le radici nei tempi, quando l’uomo viveva con la natura, aveva bisogno della natura e aveva necessità di dominarla per poter sopravvivere. Nell’uomo non si è mai spento l’amore per la lotta, per il rischio. Difatti un rocciatore sale volentieri sulla vetta della montagna per la via facile, ma preferisce salire per la via difficile per provare l’emozione del rischio e per l’aspirazione innata di salire sempre più in alto e sempre sul più difficile. La meccanizzazione per salire la roccia, io l’ho seguita da quando andavo in parete prima con le scarpe chiodate, poi con le pantofole dalle suole di sacco e con la corda della “liscia” (del bucato) senza chiodi, poi con i chiodi per sicurezza, (mai per appoggio. Ci si slegava e si passava dentro la corda). Più tardi io mi son fatto dei pezzi di ferro a forma di coda di porco, che dovevano servire da moschettoni, ma salendo certe volte la corda restava dentro, e certe volte veniva fuori, la sicurezza era quindi sempre incerta. Seguirono scarpette di manchon (pedule) veri moschettoni, ammesso l’appoggio sui chiodi, in qualche raro caso quando le difficoltà erano forti e in seguito, per superare difficoltà maggiori, si è cominciato ad usare le due corde. L’uso delle due corde è stato forse il passo più decisivo verso la meccanizzazione delle attrezzature per arrampicare. Avere una sola corda per salire uno strapiombo, e averne due, la differenza è enorme, perché con due corde, su una si resta appesi trattenuti dal compagno e l’altra libera si inserisce comodamente nel chiodo superiore, mentre con una sola corda durante l’azione di mettere la corda sul chiodo superiore, il peso del corpo bisogna sostenerlo sullo strapiombo con una sola mano, il che normalmente è piuttosto difficile. In seguito per gli strapiombi sono nate le staffe; le corde di canapa da 11 mm. sono state sostituite da quelle di nylon o perlon, perché le corde di canapa quando erano bagnate, passavano con molta difficoltà e richiedevano sforzi per passare attraverso i moschettoni in salita e rendevano la discesa problematica, perché non era possibile farle scorrere attraverso l’anello, quando si era fatta una corda doppia, mentre le corde di fibre artificiali scorrono in qualsiasi condizione di tempo e assicurano il ritorno a casa, e ciò è molto confortante. Anche le amache danno tranquillità nell’affrontare delle salite per le quali si prevedono dei bivacchi, perché non è necessario trovare un sia pur piccolo ripiano per evitare di passare la notte in piedi o su lacci di corda, dato che anche in pieno strapiombo è sufficiente trovare da piantare un paio di chiodi per l’amaca, però che tengano, mettersi dentro e se non fa troppo freddo, addormentarsi e riposare quasi come in un letto. Io dalla arrampicata libera, solitaria, senza corda (che sarebbe stata utile per un eventuale ritorno), seguendo la corrente, sono arrivato alla salita in artificiale, con mezzi tecnici sufficienti per superare pareti molto difficili, l’uso delle due corde, chiodi un po’ variati, due staffe fatte di tre ‘‘asole’’ fatte con cordini annodati, pedule con la suola di manchon, fino al 1937, poi dopo la guerra, la tecnica si è ancora evoluta: corde di nylon, chiodi di svariate misure, cunei, staffe con gradini rigidi e lunghe talvolta alcuni metri, scarpe con chiodi di gomma, e per i bivacchi amache, duvet con piumino d’oca, cordino per issare dalla base viveri e indumenti. Anch’io ho voluto provare questi ultimi ritrovati e assieme a Lothar Brandler e Wulf Schàfler di Monaco sono andato a ripetere la via degli Scoiattoli, sulla parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo, la via dei tetti. E una grande salita, occorre forza, abilità, abitudine al vuoto, resistenza. Avevo 53 anni. All’uscita del grande tetto, ero un po’ stanco e, nel punto più faticoso, per superarlo, ho approfittato di ciò che offrivano i mezzi moderni, un seggiolino. Al momento di lasciare il Rifugio Locatelli per andare all’attacco Pepi, il gestore del Rifugio osservando i miei capelli che biancheggiavano, pensò di venirmi in aiuto e mi disse: «Cino (come pronunciano loro) prendi questa tavoletta, ti servirà, l’ha adoperata René Desmaison quando ha fatto la sua via sulla Ovest». Io senza molta convinzione la presi e poi mi accorsi che Pepi aveva veramente ragione, mi è servita per rimanere fermo seduto all’attacco dello strapiombo anche ore, finche il capocordata Schàfler superava il suo tratto di corda e si metteva in sicurezza, e poi per timore di sprecare troppe energie all’uscita del tetto che è il tratto più faticoso, approfittando della tavoletta, aggeggio semplice ma molto efficace, ho superato questa grossa difficoltà, seduto sul seggiolino. Ora io sono dell’avviso che quando i mezzi ci sono, vengono usati, prima per estrema necessità e poi per abitudine. Pensando che dal semplice chiodo per sicurezza e non per appoggio, si è arrivati gradatamente ad un così alto grado di artificialità, da passare su pareti strapiombanti e molto lunghe, con un certo conforto e un certo limite di sicurezza, penso che non si dovrebbe oltrepassare questo limite, già troppo avanzato e non abbandonarsi alla tentazione di fare dei fori artificiali sulla roccia, pur di non tornare indietro o pur di procurarsi maggiore sicurezza. Le attrezzature per fare i buchi verrebbero sempre più perfezionate e a mio parere sarebbero la fine dell’alpinismo. Come ripeto, con i mezzi artificiali siamo già troppo avanti; ma c’è ancora possibilità di misurarsi con la montagna, soprattutto quando si parte da una base sicura; ma per superare le difficoltà ci si innalza su chiodi malsicuri, si prova pian piano ad appoggiare il peso sul chiodo per vedere se resiste, poi si carica tutto il peso sperando che il chiodo non si levi, altri chiodi malsicuri, finché con un sospiro di sollievo non si arrivi a piantare un buon chiodo sicuro. Altre volte invece il chiodo si leva di scatto, un voletto più o meno lungo, e se tutto va bene, un brusco arresto a penzoloni nel vuoto, oppure una botta sulle rocce sottostanti. Quando tutto è andato bene, si ritenta di nuovo e se non si può proprio passare, allora si rinuncia. A questo punto, se invece di rischiare o ritornare, ci mettiamo a fare dei buchi artificiali, nei primi tempi saranno guadagnati e sudati e forse anche malsicuri, come talvolta è già successo, ma in seguito col perfezionarsi di questa tecnica, sarebbe come portarsi dietro un ascensore. Io trovo che il maggior fascino è dato dall’arrampicata libera, effettuata su tratti verticali o leggermente strapiombanti, esposti, con piccoli appigli, che per superarli occorra buona forma, abilità, equilibrio, coraggio. Questo modo di salire più d’ogni altro dà l’emozione, la sensazione, la gioia di arrampicare. Ricordo che dopo due bivacchi in parete sulla Nord della Cima Ovest di Lavaredo, il terzo giorno, nella parte alta della salita, abbiamo trovato una bella parete verticale con buoni appigli e mi è uscita spontanea un’esclamazione: finalmente si arrampica! Questo sfogo uscito genuino dall’intimo dell’animo, dà la misura della differenza tra l’arrampicata artificiale e l’arrampicata libera.

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