BDP: via Molteni e Valsecchi

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molteni_valsecchiMario Molteni e Giuseppe Valsecchi. Quando Mattia mi ha chiamato per dirmi quale fosse il piano per Venerdì ero quasi in letargo e contemplavo l’idea di abbandonarmi al caldo abbraccio dell’influenza: poi ho sentito quei due nomi e mi sono come svegliato di botto.

Nel 1937 Molteni e Valsecchi erano gli uomini di punta dell’alpinismo comasco, ambedue soci del Club Alpino Operaio  (CAO) e del CAI avevano alle spalle grandi imprese sulle Alpi e sognavano la conquista della parete nord-est del Pizzo Badile.

Il Luglio di quell’anno trovarono al rifugio Sciora un’altra cordata che puntava all’impresa: Riccardo Cassin, Gino Esposito e Vittorio Ratti. Lecchesi e Comaschi alla base del Badile.

Il grande Cassin nel suo diario descrive con queste parole il loro incontro:” …stiamo per lasciare il rifugio quando giungono due amici di Como, appassionati frequentatori della Grigna, conoscitori delle montagne della Val Masino. Sono Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi. Ci salutiamo con entusiasmo, nonostante stavolta siamo due squadre in concorrenza”. Credo che il grande Cassin stimasse davvero come amici i due comaschi.

Il destino stava però per scrivere una delle pagine più epiche dell’alpinismo e le due cordate, affrontando tre lunghi e terribili giorni in parete, furono destinate a diventare una sola. Dopo una battaglia assoluta i cinque raggiunsero la cima del Badile ma a causa della tempesta e della fatica Molteni e Valsecchi morirono di stenti durante la dura discesa nella tormenta.

“Vuoto le ultime gocce di cognac sulla labbra di Molteni, cerco di sostenerlo, che ormai non ha la forza di progredire. Lo abbraccio quasi per infondergli vita, ma invano: senza un lamento s’accascia al suolo per non rialzarsi più” Queste le intense parole di Cassin per gli ultimi istanti di Molteni.

No, non potevo fuggire alla chiamata: era un dovere rendere omaggio a questi due eroi spesso dimenticati.

Attacchiamo tardi per le giornate invernali: Mattia era in servizio la mattina e quando passa a prendermi indossava ancora la divisa della Croce Rossa. Alle due e mezza siamo sotto la grande parete del Buco del Piombo: una scritta rossa senza tempo indica l’attacco della via al fianco del Diedro Scarabelli.

La gigantesca volta del grotta del Buco del Piombo ci sovrasta. Una meraviglia spesso inaccessibile a causa dei crolli che la muraglia di sinistra riversa sulle scale d’accesso. Dentro quella grotta gli spagnoli costruirono una fortificazione che divenne poi il rifugio di briganti e banditi: è una zona selvaggia, forse per questo che ci piace tanto!

Il primo tiro è godibile. Mattia si sgranchisce e lo supera senza difficoltà prendendo confidenza con la roccia fredda ormai in ombra. Il tempo è buono, la parete è asciutta ma a raffiche soffia un vento gelido e tagliente che agita le piante circostanti come panni stesi.

Il secondo tiro invece è davvero particolare. Dalla sosta si vedono una fila di spit che risalgono a destra: forse una variante che aggira un passaggio ostico o una via che porta fino ad un tetto da cui pende un cordino. Noi ci teniamo invece a sinistra, in un vago piccolo diedro che è il primo intenso passaggio di un tiro che rimarrà costante e pieno per tutta la sua lunghezza. Il secondo tiro è il cuore della via, è un tiro lungo ed impegnativo e forse per questo che troviamo una maglia rapida abbandonata in uno spit prima di un passaggio lungo e da proteggere: qualcuno in quel punto deve aver deciso che era ora di fermarsi e scendere.

Il terzo tiro attacca in un diedro verticale invaso dalla terra e dai rovi, poi la via sembra spianare in un lungo tratto godibile ma comunque delicato. Poco prima della terza sosta si incontrano delle catene fisse a protezione di un piccolo traverso sulla terra.

L’ultimo tiro attraversa un bel diedro abbastanza appoggiato dove la roccia diviene ricca di clessidre e fessure davvero belle. Solo il tratto finale sull’uscita si fa scomodo per via della terra franosa e delle piante che traballano. L’unica soluzione come sosta è un gruppetto di piante più che dignitose a cui ancorarsi.

Mattia nell’ultimo tiro mi recupera con un’insolita fretta e guardando verso l’alto intuisco il perché: oltre la parete il vento si è fatto selvaggio e violento. Pompo sulle gambe e cerco di mettere un po’ di velocità nella mia progressione. “Hey, com’è? Tira arietta lassù?!”“Dai che mi bufa via! Spicciati!”

In cima ci stringiamo la mano e nonostante il vento ci  godiamo il panorama della valle: il sole sta tramontando e le prime luci dell’Erbese cominciano ad accendersi.

Raccogliamo le corde e ci abbassiamo fino all’uscita della Scarabelli per attrezzare le doppie. Lo spettacolo è incredibile: la parete strapiomba per oltre centotrenta metri fiancheggiando l’immensa gola della grotta. Un posto davvero incredibile!!

Il primo tiro in doppia è quasi interamente nel vuoto. Mentre scendo completamente appeso alle corde per sessanta metri comincio a girare su me stesso godendomi il panorama a 360 gradi man mano che lascio scorrere il discensore: è in momenti come quelli che ricordi a te stesso quanto sia “sacro” il rispetto dovuto alle corde!

Una calata sola però ovviamente non basta e quando attrezziamo la seconda ormai siamo già completamente al buio. Spesso capita che chi arrampica sia sorpreso dall’oscurità  ed altrettanto spesso, soprattutto in inverno, tocca ai soccorsi intervenire per i malcapitati. Da Novembre ad Aprile è “obbligatorio” avere sempre una torcia in tasca, le giornate sono troppo corte per sottovalutare le tenebre.

Noi tiriamo fuori dalla giacca le due torce frontali, ci aiutiamo l’un l’altro a fissarle correttamente sul casco, e torniamo a “lavorare” sulle nostre manovre: per due speleo calarsi al buio è la normalità.

Altri cinquanta metri in verticale e poi, per sicurezza, spezziamo il tiro attrezzando una terza calata per gli ultimi quindici metri. Questo ci impegna un po’ di temo ma evitiamo che le corde, che in molti punti toccavano la roccia, possano bloccarsi mentre le recuperiamo.

A terra infiliamo in spalla gli zaini e ci incamminiamo verso casa acuor leggero. La via Molteni Valsecchi al Buco del Piombo: un omaggio dovuto, una magnifica salita.

Davide “Birillo” Valsecchi

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