«Kundalini può dare la liberazione agli yogi, ma anche incatenare gli ignoranti.» Io ed il mio socio avevamo bisogno di relax, arrampicare ai Corni per quasi un anno è stato soprattutto uno sforzo mentale, una continua lotta con lo stress che affrontare quelle vie rappresenta.
Ogni volta che “chiudo” una via ai Corni ripeto a me stesso: “Adesso basta, questa è l’ultima. Non puoi spingerti oltre”. Sono davvero orgoglioso di quanto fatto ma confesso che l’esperienza è stata prosciugante ed in questi giorni mi sentivo svuotato, privo di slancio.Quando Mattia mi ha proposto di andare in Val di Mello ho accettato con il solito entusiasmo ma senza troppa convinzione: «Andiamo a rilassarci sul granito!»
La val di Mello è un posto magnifico ma credo che negli anni ’70, quando Ivan Guerini e Mario Villa, muovevano i loro primi passi nella valle, fosse qualcosa di realmente eccezionale! La nonna di Guerini aveva una baita lassù, questo ha permesso all’allegra congrega di amici e scalatori un accesso scanzonato ad un territorio incontaminato di rara bellezza, dove hanno potuto sperimentare un alpinismo che ancora non esisteva.
Oggi la Val di Mello è conosciuta in tutto il mondo, lo spirito “profetico e goliardicamente pioneristico” che contraddistingueva le origini si è evoluto diventando, inevitabilmente, un circo per invasati di magnesite che nei Week end diventa più affollato della piazza di un paese in festa.
La Dimora degli Dei, l’Alba del Nirvana, Luna Crescente, il Risveglio di Kundalini. Oggi questi nomi sarebbero ridicoli ed adatti solo a qualche rastapanda inbastito che cerca di darsi un tono. Tuttavia, riscoprendo la storia di queste vie, non si può che apprezzare quei giovani e la loro stupenda avventura in questa valle leggendaria. (Davvero strepitoso!)
Quando Guerini e Villa tracciarono “Il risveglio di Kundalini” ci misero due giorni: si fermarono a bivaccare in uno spiazzo erboso a metà parete perché “volevano durasse, volevano godersela!”. Vivevano un momento storico eccezionale in un’ambiente straordinario ed incontaminato: stavano scrivendo regole nuove che oggi, paradossalmente, sono diventate vecchie come quelle che hanno infranto e come lo saranno quelle che ancor devono essere scritte.
Quando attacchiamo sbagliamo strada. Una coppia di inglesi stava risalendo la variante e così noi ci siamo improvvisati una variante delle variante risalendo fino al tetto spiovente che prende il nome di “ala del pipistrello”. Era un tempo infinito che non arrampicavo sul granito e la situazione mi sembrava davvero complicata. La prima lama di roccia a cui mi sono aggrappato ballava e la placca su cui cercavo di fare aderenza era coperta di aghi di pino: facevo fatica, mi sentivo nudo e vulnerabile su quella roccia compatta.
Poi la sensibilità cambia, i piedi si sono fatti più sicuri sulle ruvidità della roccia e, lentamente, mi sono avventurato in gesti ed in movimenti che sul calcare sarebbero impensabili. Inizi a provarci gusto e l’arrampicata, dura e di forza, si trasforma in leggera. Non servono più solidi appigli, bastano comodi appoggi: le mani si aprono sulla roccia e tutto diventa una semplice ed elegante questione di equilibrio.
Inseguiamo la “serpe fuggente”, un infinita fessura che risale verticale: lavorando con le mani ad incastro tutto sembra un gioco, un gioco divertente. La protezioni sono lunghissime, le soste a chiodi, ma non c’è l’ansia e la tensione del calcare: i piedi reggono, la roccia è compatta e non cadono sassi.
Il tiro successivo, “Angolo amaranto”, è uno stretto camino privo di protezioni che risale fino ad un grande albero. Noi, zaini in spalla, ci buttiamo all’interno e risaliamo strisciando con l’atteggiamento da speleo che ci contraddistingue. Il passaggio si dimostra impegnativo ma, con il senno di poi, solo perché abbiamo sbagliato l’approccio. Ripensandoci e leggendo le relazioni forse era sufficiente voltarsi, infilarsi di spalle afferrando il bordo del camino ed alzandosi piano piano lavorando in opposizione sulla placca. Tuttavia ritrovarsi incastrati di torace scalciando nel vuoto era qualcosa che meritava di essere provato!
Nel tiro successivo si attraversa il “Bosco dei Folletti” dove gli apritori bivaccarono prima di affrontare un diedro strapiombante che porta all’attacco del grande “Arco”. In quel passaggio sperimento qualcosa di mai tentato sul calcare, per passare mi ritrovo costretto ad alzare i piedi fino al torace, quasi paralleli alle mani, sollevandomi poi in un movimento dall’apparente equilibrio impossibile. Contrariamente ad ogni mia previsione le mani ed i piedi sono restate attaccate alla roccia!
Il grande arco è magnifico, un’esperienza che nella sua assoluta semplicità racchiude la sua incredibile bellezza. Con le mani al contrario aggrappate allo spigolo della fessura si avanza in un lunghissimo traverso lasciando che sia il peso stesso a permettere alle scarpette ed al granito di sottomettere le leggi della gravità. Prendo il ritmo, trasformo la respirazione in una cantilena che segna il tempo ed attraverso l’arco come se fosse la cosa più naturale da fare. “E’ divertente!”
A metà dell’arco facciamo sosta con dei cordini su di uno spuntone ed organizziamo una piccola doppia con cui ci abbassiamo di una decina di metri. Qui, seguendo una fessura, facciamo un traverso di quasi venti metri risalendo poi verso una pianta. Con le palme appoggiate semplicemente sulla roccia si attraversano i lunghi metri che separano i chiodi: “Impensabile, sul calcare una cosa simile sarebbe davvero impensabile!”
Dall’albero rimontiamo un muretto e tagliamo verso destra fino al successivo albero. Il granito si è ormai manifestato in tutta la sua meraviglia ed i piedi sembrano aver fatto amicizia con la ruvidità mentre in totale serenità il grado dei passaggi sembra avere perso di importanza.
Il penultimo tiro nasconde invece una piccola trappola perché il passaggio sullo spigolo, il più aereo ed esposto della via (ci saranno 200 metri di vuoto sotto il culo) tende a strozzare le corde rendendo difficoltoso il passaggio del primo di cordata. Cadiamo nel tranello e quando Mattia raggiunge la sosta sono costretto ad accorciare le corde e a girarmele in spalla prima di ripartire.
Quando Mattia parte per l’ultimo tiro ride e sogghigna: “Kundalini qui, Kundalini là…”. La sua faccia la diceva lunga sui suoi pensieri e bonariamente lo rimproveravo: “Taci che non è ancora finita! Fa il bravo!”. Quando usciamo, quando emergo dall’ultima placca, sono allegro, per nulla stanco e totalmente sereno: era tanto che non provavo una sesanzione simile!
Mattia rideva di gusto. “Bellissima, davvero strepitosa. Ma tutti quelli che mi raccontavano fosse dura forse non hanno davvero idea di cosa sia il calcare dei Corni!”. Per noi Kundalini era il risveglio dopo un lungo viaggio, dopo un avventura fatta di roccia cedevole e appigli sfuggenti. Era il risveglio in un paradiso fatto di spigoli vivi e sinceri, di incastri, di roccia salda su cui appoggiarsi con fiducia.
Nonostante il tempo perduto prima di superare gli inglesi eravamo stati molto veloci e la nostra salita era stata sicura ed efficace. Kundalini ed i “profeti” della val di Mello non ci hanno donato l’illuminazione ma avevano riempito quel vuoto che le tante incertezze dei Corni avevano creato. Non potevo che essergliene grato!
In un tempio dell’arrampicata moderna eravamo stati premiati per gli sforzi compiuti inseguendo le vestigia di un alpinismo antico, radicato in un oscura nicchia del secolo scorso. Avevo di nuovo voglia e con umiltà, ma anche con orgoglio, in cuor mio conservavo una rinnovata verità: “Chi arrampica ai Corni arrampica ovunque”. Credo che soddisfazione migliore non possa essere concessa a due eretici nella dimora degli Dei.
Davide “Birillo” Valsecchi
Il risveglio di Kundalini – Val di Mello
16/05/2014 – Mattia Ricci (Primo di Cordata) e Davide “Birillo” Valsecchi