Ragno di Piombo

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NOTA 28/10/2018 – L’accesso al Buco del Piombo (BDP) è completamente interdetto: un’ordinanza Comunale da tempo vieta l’uso della scala che è la principale via d’accesso, ora tuttavia anche la Proprietà, attraverso il “Museo Buco del Piombo” ed i quotidiani, si è pubblicamente espressa proibendo qualsiasi tipo di ingresso ed attività.(La Provincia 27/10/2017)

“Non possiamo chiodare una via a spit! Oddio… potremmo e sarebbe pure divertente, ma non si fa! Non si può e non si deve!”. Tempo fa ho conosciuto Simone Pedeferri, ad una serata con Ivan Guerini, e l’avevo trovato un ragazzo simpatico e disponibile. Anche Luca Schiera, che invece non conosco, mi è sembrato un tipo apposto. Curiosamente giusto qualche giorno fa avevo fatto i miei complimenti al Presidente dei Ragni di Lecco per l’Accademy, una loro iniziativa dedicata ai giovani. Quindi no, il nostro esperimento, la nostra “ravanata” alla Divina Commedia al Buco del Piombo, doveva essere animata dal massimo rispetto e dalla più completa correttezza: okay alle staffe ma niente martelli all’imbrago, nessun segno alla roccia.

Così, superata una pioggia battente, ci siamo ritrovati con il naso all’insù sotto la grande volta: “Sì, ma qual’è la via dei Ragni? Qui si è riempito di piastrine!”. La prima difficoltà, oltre a non cadere all’indietro guardando in alto, era proprio trovare la linea giusta in mezzo ai tanti infissi apparsi sulla parete. Ci siamo seduti su una panchina, cercando immersi nell’atmosfera magica di quell’immensa grotta al cui interno sorgeva un antico castello.

Simone e Luca, membri dei Ragni, hanno aperto uno o due anni fa una via di sei lunghezze che supera la grande volta e riemerge sulla parete frontale per risalire fino ai prati sommitali. Per i non addetti le cose sono andate più o meno così: hanno dapprima risalito piantando i fix con il trapano, poi hanno attrezzato con i rinvii le protezioni, hanno studiato e provato ogni passaggio per lungo tempo ed alla fine, quando ormai padroneggiavano ogni movimento, l’hanno risalita tutta in libera, ossia senza mai attaccarsi a qualcosa di artificiale. Lo scopo non era “salire” ma valorizzare il “gesto assoluto” annullando, o contenendo al massimo, il rischio. Questo credo sia il concetto alla base di ciò che oggi viene chiamata “libera”.

Chi mi conosce lo sa, non è questo l’approccio che preferisco. Per comprendere la mia visione basta pensare a “Birillo’s Crack” e a come Josef, giusto lo scorso inverno, abbia affrontato quella fessura in modo assolutamente diverso. Non conosceva la parete, nessuno l’aveva mai affrontata prima, doveva superare le difficoltà e l’ignoto, proteggendosi man mano che saliva solo con chiodi, friend e nut. Abbiamo attaccato al mattino (con un freddo terribile) e nel giro di un paio d’ore eravamo tutti in cima al torrione. Qualcosa di assolutamente estemporaneo e brutalmente sincero: “se non ne hai, vieni a basso”. Qualcosa che ho visto fare con naturalezza solo a Josef ed Ivan e che è assolutamente fuori dalla mia portata su difficoltà simili.

Mattia in questi mesi si è dato molto da fare con il gruppo speleo, insieme a Carletto è uno degli uomini di punta per le risalite nelle recenti esplorazioni al Buco della Nicolina. Io e lui, dopo tanto tempo divisi, avevamo voglia di arrampicare insieme: il piano iniziale era una via sul San Martino, ma la pioggia era crollata sui nostri piani. Così, quasi per scherzo, è nata la malsana idea. “Birillo, proviamo il primo tiro della via dei Ragni al BDP?” “Va bene, basta non farsi male …e non fare la figura dei pirla” “Ma va, è tutta a spit!” In effetti, girando con Ivan, è raro che mi ritrovi appeso a delle piastrine.

Dirlo però non è come farlo: guardare verso l’alto fa una certa impressione. Il fiume, nel fondo della grotta, era in piena e soffiava una gran aria fredda. Ho infilato la giacca a vento, il piumino, il gilet felpato ed i guanti senza dita: “Tocca a te socio!”. Mattia attacca le staffe all’imbrago “E’ dai Corni che non usiamo più le staffe” Poi si ferma un istante e sorride ai ricordi “Quella volta non c’erano fix ma solo vecchi chiodi ad espansione anni ’60” Mi fa l’occhiolino ed inizio a dargli corda.

Come era prevedibile la nostra arrampicata si riduce alla transizione tra uno fix ed il successivo, la difficoltà è data dalla distanza tra loro scelta dagli apritori. La volta, la lontananza ed il rumore del fiume coprono le nostre voci quando più avremmo bisogno di sentirci e coordinarci. Tuttavia questo balletto è qualcosa che io e Mattia abbiamo fatto spesso: ci intendiamo con i gesti delle mani seguendo il ritmo dei movimenti. Guardo in su e sorrido: “Tutti si lamentano di Birillo, ma quando si fanno queste cose è bello avere un socio di ottanta chili che tira come un arganello…”. Mattia si alza sulle staffe, si distende e si allunga, piazza la staffa successiva, prende fiato e si allunga di nuovo rinviando. Poi, dopo che ci siamo intesi, si punta sulle staffe con entrambi i piedi, penzola nel vuoto e risale mentre io recupero la corda quasi appendendomici. Un fix alla volta, lavorando duro quando il passaggio lungo richiede qualche numero in più.

Simone e Luca probabilmente qui volteggiano tra prese ed appigli, innegabile la loro grande capacità su passaggi tanto difficili. Tuttavia, con i fix ed il trapano, per passar su non servono i Ragni ma bastano i Tassi: qualcosa che fa riflettere in effetti.

Negli anni 70 la nuova generazione di arrampicatori “liberava” ciò che la precedente generazione aveva conquistato con le staffe: curioso quello che le nostre staffe stavano facendo ora. Il nostro era davvero solo un “gioco speleo” in un giorno di pioggia? Chissà, il colpo d’occhio era rapito dalla meraviglia del Buco del Piombo: Mattia, un puntino lassù in quella volta sconfinata, sembrava avanzare in una fotografia da rivista. “Quello non è Mattia, quello è Tom Ballard che fa la sua magia!!”

Dopo un’ora e tre quarti Mattia è finalmente in sosta. Io, a furia di stare con il naso all’insù, ho gli svarioni e finisco con i piedi nell’acqua del fiume agitandomi e salutandolo dal basso. Pensavo sarebbe stato impossibile, fuori dalla nostra portata, ed invece eccoci là, sebbene nel modo più becero e sconclusionato immaginabile.

“L’arrampicatore di oggi non vuole precludersi la via di ritirata, e si porta appresso il coraggio nel sacco. Le pareti non vengono più vinte in arrampicata, bensì umiliate con un lavoro manuale e metodico, una lunghezza di corda dopo l’altra, e quel che non si fa oggi si farà domani. Le vie di arrampicata libera sono pericolose, per ciò ci si tutela piantando chiodi. La volontà non fa più assegnamento sulle capacità, ma sugli attrezzi e sul lungo tempo disponibile. Non è più il coraggio ma la tecnica il fattore decisivo; l’ascensione può durare giorni e giorni, i chiodi si contano a centinaia. Il ripiegare diventa disonorevole perché ormai tutti sanno che con i chiodi ad espansione si viene a capo di tutto.” Le parole di Messner, scritte nel 1963, risuonano chiare nella mia mente: …bene, basta giocare, si è fatta l’ora di tornare a casa.

Mattia si cala, lavoriamo ancora insieme per recuperare i primi rinvii ed accendiamo l’acqua per il the. Seduti nuovamente sulla panchina, con il JetBoiler in mano, guardiamo un ultima volta verso l’alto. “Certo, hanno usato il trapano, ma sono davvero forti. Molto forti! I fix sono davvero molto distanti. Sarebbe stato bello guardali mentre salivano la prima volta, imparare come affrontavano le difficoltà proteggendo la prima salita. Quello sì mi che sarebbe piaciuto: in libera è fuori dalla nostra portata, ma in fondo non è neppure il mestiere nostro”.

Insacchiamo le nostre cose e ci immergiamo nuovamente sotto la pioggia. I Tassi in qualche modo trovano sempre il modo di arrangiarsi, sono una razza strana: ”Calza gli scarponi e parti. Se hai un compagno porta con te la corda ed un paio di chiodi per i punti di sosta. Ma nulla di più. Io sono già in cammino, preparato a tutto…”

Davide “Birillo” Valsecchi

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