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Gary Hemming

Gary Hemming

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«Quelli forti arrampicano per vincere, quelli scarsi per sopravvivere. Tienilo a mente: se incontri uno scarso incontri uno che non ha mai perso» (Birillo) Io e Mattia eravamo di corsa, avevamo poco tempo da concedere alle incertezze. Così abbiamo deciso di andare comunque al Pizzo Boga ma di ripetere in velocità una classica: la “Gary Hemming”. Nonostante le intenzioni alla fine abbiamo fatto solo varianti, ma la “GH” l’abbiamo curiosata per bene. 

Perchè uno se lo chiede da dove provenga questo nome “straniero” per una linea sul pizzo: chissà quanti hanno ripetuto quella via senza saperlo. Perchè “Gary Hemming” è un nome pesante, di quelli americani, di quelli che emergono dalla Yosemite e che sembrano rimbalzarti addosso all’improvviso in una catena di eventi a cascata.

Già, perchè qualche giorno fa ho comprato “Cumbre”, un film che sognavo di rivedere fin da bambino, un documentario sulla salita in solitaria di Marco Pedrini al Cerro Torre, lo stesso Cerro Torre salito da Daniele “Ciapin” Chiappa, quello della “Chiappa” in Antimedale. Il Pedrini che “…era solito scendere in doppia usando un sistema particolare per fare prima e risparmiare materiale, con una sola corda il cui capo veniva passato nell’ancoraggio e arrotolato un po’ di volte attorno all’altro ramo di corda: una volta messo sotto carico con il peso la corda non si srotola e tiene, appena arrivi in sosta lo scarichi e puoi recuperare facilmente la corda… (nodo inferno)”. Una tecnica tremendamente pericolosa e che forse gli fu fatale proprio durante la discesa della prima solitaria al Dru, lungo la Diretta Americana. Una via straordinaria, forse oggi irripetibile dopo i crolli degli anni ‘90. Racconto a Mattia la storia, i dettagli di quella strana tecnica di discesa, e solo allora mi rendo conto che la Diretta Americana è una via aperta nel 1962 da Royal Robbins, quello dell’Half Dome e del Capitan, insieme proprio a Gary Hemming!!!

Ed in quel momento vorresti davvero saperlo il perchè, il perchè una via sul Pizzo Boga, il pizzo che quelli “forti” di oggi disdegnano, porta un nome simile!! (Le guide “fighe”, quelle che hanno in mano i milanesi all’attacco delle vie, relegano il tutto ad una piccola nota: ”…sul Pizzo Boga sono presenti altre vie di più tiri di interesse modesto, ma un tempo ripetute. Fra esse ricordiamo almeno la Via Gary Hemming aperta da Claudio Cima e compagni negli anni ‘70”)

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Dannazione, un’alpinismo senza passato è un alpinismo senza futuro: “Nell’estate del 1966, il salvataggio di due alpinisti tedeschi sulla parete Ovest del Dru, nel massiccio del Monte Bianco, occupa le prime pagine dei giornali e porta alla ribalta uno dei soccorritori, Gary Hemming, un alpinista californiano salitore di vie innovative come la Diretta degli Americani al Dru e la parete Sud del Fou. Gary era venuto in Europa per seguire un suo sogno di libertà e di avventura e ha portato sulle Alpi le tecniche e la filosofia di arrampicata d’oltreoceano. Ha l’aspetto di un hippy e il carisma del ribelle: quanto basta a farne un eroe negli anni della contestazione. Ma Gary, che ama arrampicare segretamente, senza lasciare tracce, è turbato da una fama che non ha cercato. Sparisce, e di lui non si sa più nulla fino alla notizia della sua morte, avvenuta in America tre anni dopo, in circostanze misteriose.”

Già …e chi sarebbe poi questo Claudio Cima? Già, perchè oggi siamo abituati a farci le seghe cianciando del 7a tra uno spit ed il successivo, ma il perchè uno come Cima, un bellunese, uno forte sulle Dolomiti e sulle Pale di San Martino, sia venuto fino a Lecco ad aprire sul Pizzo Boga una via per dedicarla ad un americano non te lo dice nessuno.

No, tocca ad un signor nessuno come Birillo raccontare: il peso della storia affidato ad un concentrato ambulante di imprecisione ed ignoranza!! Già, perchè oggi quelli “inteligenti”, quelli che scrivono sulle riviste e sulle guide, ti raccontano le puttanate, riempiono le pagine di marchette e ruffianate, ma le cose che contano davvero non te le mostrano. Probabilmente neppure le sanno e non hanno nemmeno imbrazzo, perchè loro si “tengono su”, c’hanno il grado e scrivono solo di quelli “forti”, di quelli con lo sponsor… Anzi, ogni tanto si mettono pure in cattedra ed abbaiano: “…oggi il livello è molto più alto, i gradi che facevano in quegli anni sono superati…”. Balle!! La verità è che vi piace vincere facile, che siete troppo scarsi anche solo provare a sopravvivere.

Ps: Quando ho cominciato a quest’articolo il mio piano era scrivere qualcosa del tipo: “Io e Mattia abbiamo cazzeggiato al Pizzo Boga, ecco le foto. Enjoy. ” Tuttavia è bastato soffiare sulla polvere per scoprire che c’è un mondo infinito da riscoprire, una storia da rivivere. Ci prendono in giro, e  se questo fa arrabbiare me che non sono niente non oso immaginare quale tristezza e delusione possano provare i “vecchi”, quelli “forti” per davvero. 

Davide “Birillo” Valsecchi

Quando i geni del male imbracciano il trapano…

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Boga-Kan

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In Giapponese la parola Kan (館) si traduce con “sala” o anche “palazzo”, nelle arti marziali si usa per identificare il “Dojo”, il luogo dove ci si allena, e per estensione la “scuola” che vi si insegna. Ancora non ho scoperto “quando e come” il pizzo Boga abbia assunto questo nome, tuttavia scoprire che Mario “Boga” Dell’Oro sia nato a Civate (e solo dopo sia diventato lecchese) ha cambiato le mie carte in tavola: il Boga è uno dell’Isola! Forse è anche per questo che il Pizzo Boga mi appare più accogliente, più familiare. In Medale o in Antimedale, indipendentemente dalle difficoltà scelte, sono assalito da un’intensa ed opprimente inquietudine. Il Pizzo ha invece un fascino tutto da scoprire, ovunque guardi ci sono “possibilità”!

Mercoledì, alle due del pomeriggio, siamo sbarcati ai piedi del pizzo per la nostra seconda esplorazione pomeridiana. Nel parcheggio c’era una vecchia Twingo grigia targata “AsenPark” ma, purtroppo, non abbiamo trovato in giro altre cordate.

La natura si è già svegliata, forse siamo persino in ritardo: le piante sono nuovamente verdi, il caldo non è trascurabile e la primavera porta con se i primi starnuti allergici. Aggiriamo sulla destra la prima muraglia fino a giungere alla sua estremità orientale. Una scritta sulla roccia, “Le Gobbe di Andreotti”, segna il punto del nostro primo attacco. Mattia punta dritto per dritto ignorando verticalità e rovi. All’attacco era presente un canapo marcio in clessidra ma lungo il tiro (o quanto meno la nostra interpretazione) non c’erano altre protezioni fisse. Sui lati frecce blue sembravano indicare altre vie o varianti “libere”. La nostra linea ha però intersecato quella di una via a spit. Così, prima di seguire questa nuova via, abbiamo fatto sosta unendo un fix ed una pianta.

Il secondo tiro rimontava un piccolo strapiombo piuttosto intenso. La qualità della roccia è strepitosa ma ha i suoi svantaggi: nel passaggio chiave è bastata una piccola concrezione tagliente per strapparmi i pantaloni!!

Il Tino non li aveva di quella marca e per questo mi ero spinto in trasferta. Quando li avevo comprati ero stato chiaro con il commesso di un famoso negozio di Dolzago “Guarda che mi sembrano leggerini: io faccio cose piuttosto particolari, non vorrei mi si strappassero alla prima uscita…”. Con assoluta certezza mi aveva risposto “Figurati! Sono materiali all’avanguardia, elastici, fatti apposta per l’arrampicata: non riuscirai mai a strapparli!” Certo, certo: sicuro. Due giorni dopo i primi buchi li ho fatti sul Pizzo D’Eghen e la collezione sembra allungarsi sul Pizzo Boga (…e la zia rammenda!).  

Giunti sulla cima della prima collina, dove si trova il vecchio baitello in sasso, ci siamo spostati ancora a destra verso oriente. Una parvenza di sentiero ci aiuta a raggiungere ancora una volta lo spigolo esterno. Troviamo un’angolino che offre una placca compatta, un diedro ed un paio di tetti strapiombanti da esplorare. Nonostante gli starnuti (siamo entrambi allergici alla primavera!) decidiamo di esplorare un po’.

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Mattia risale fin sotto il tetto e prova ad “guardare” oltre lo strapiombio. Proviamo a piazzare un chiodo ma quello giusto manca alla collezione ed il fratellino più piccolo non acchiappa abbastanza. “Siamo venuti troppo sportivi oggi: questo ce lo teniamo per la prossima volta!” Mattia piega e traversa verso sinistra superando delle roccie ammucchiate e tenute insieme dal peso e dalle concrezioni. “Matty-boy, occhio che le corde attraversano sotto” Mattia divide le corde, passa e si infila nel diedro e lo rimonta: potrebbe risalire una crestina marciotta ma pianta un chiodino e si butta a sinistra su una placca solcata da grandi spaccature in cui si protegge a friend.

Quando dopo trenta metri di corda raggiunge una comoda pianta mi preparo a partire. La roccia del Boga alterna straordinari passaggi solidi a ravanate instabili da antologia. Sotto il tetto mi rendo conto di quello che ha combinato il mio socio: qualsiasi cosa tu tiri o spinga è tutta una scommessa. Sono costretto a fare un piccolo ma importante traverso con un unico pensiero: ”Se sta roba molla di colpo sonviene lanciarsi nel vuoto e sbattere sulla placca piuttosto che farsi mangire con tute le corde!” Il passaggio è curioso: ti costringe a rimontare roccia incerta mentre le corde, che attraversano il diedro, ti tirano verso roccia solidissima ma inarrivabile. La legge del contrappasso forse…

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“Dietro di me l’Apocalisse” A differenza di Mattia io sono autorizzato a mollar giù i “micro-onde” che ciondolano per la via. Sulla placca mi sono alzato su piccole prese, quanto bastava per “toccare” con la punta della scarpetta quella che, apparentemente da sotto, poteva essere scambiata per un’ottima presa. Un istante dopo, in un fracasso di schianti, al posto della presa c’era un ottimo terrazzino d’appoggio. “Ecco, qui vorrei proprio vederli  quelli che in palestra si lanciano come Tarzan sugli appigli di plastica!” (Mi raccomando, al Boga ogni cosa fuori linea richiede “tatto”)

Lungo tutto il tiro non abbiamo trovato nessun segno di salita e la quantità di roccia instabile non sembrava indicare alcun precedente passaggio. Tuttavia sulla pianta abbiamo trovato una vecchia ed ammuffita fettuccia con tanto di grillo per la calata: è stato bello ripetere una via senza nome, scoprire che qualcuno, nei tempi andati, aveva avuto la nostra stessa idea.

Visto che ormai erano le sei e mezza era tempo di suonare la ritirata. Mattia voleva andare verso l’alto, chiudere un tiro che appariva semplice e raggiungere una grossa cengia dove, secondo le indicazioni di Mattia, corre la Gary Hamming. Visto che conosco Mattia ho insistito per una ritirata diretta in doppia. Alla fine ci siamo accordati per una ravana slegati per “facili” roccette. Mattia è convinto ci fossero dei bolli rossi, io sono abbastanza sicuro fossero chiazze di muschio arancione. In ogni caso il risultato è stato lo stesso: prima dell’accenno di pioggia eravamo nuovamente alla macchina.

Se al Pizzo Boga volete curiosare fuori via fatelo durante la settimana: mollar giù sassi è quasi inevitabile, quindi conviene esser certi che non ci sia nessuno che pascoli attorno. Per il resto quel posto è uno spettacolo. Al prossima!

Davide “Birillo” Valsecchi 

Sul Pizzo Boga

Sul Pizzo Boga

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Le  guide riportano solamente la via “erredue monza” e descrivono in modo poco accattivante il Pizzo Boga, un imponente Bastione roccioso posto tra il Dente del Coltignone a Sinistra e la Val Calolden a destra. Stavo cercando qualche informazione storica ma ho trovato le solite cose ritrite, spesso svilenti: monotiri medio-facile, vie di discreto sviluppo e modesta difficoltà, roccia di qualità variabile e pericolo di caduta sassi decisamente elevato. Un tempo molto frequentato, oggi per principianti e corsi di roccia, bla bla bla… soliti discorsi da arrampicata sportiva: posso dirvi che la mia prima visita al Pizzo Boga, troppo spesso bistrattato, è stata decisamente positiva.

Quel posto, dimenticato e costellato da vecchi chiodi abbandonati, può davvero vivere per una seconda giovinezza per chi, armato di friend, nat e mazzetta, vuole “sperimentarsi” nell’arrampicata libera anzichè in quella vincolata. Certo, troverete scritte con la vernice, chiodi ed improbabili piantoni, spit autoperforanti con placchette in alluminio, catene e cavi metallici: tuttavia tutti questi “infissi” hanno un sapore decisamente retrò che a tratti rende l’esplorazione “archeologicamente” interessante.

Per quanto sia definita una “palestra” ha delle caratteristiche intrinsiche piuttosto ragguardevoli: la qualità della roccia alterna pasaggi compattissimi a grossi blocchi coesi tra loro da concrezioni tutte da valutare. Quindi, finchè non fate l’occhio a ciò che va evitato, puntate “basso” con il grado se uscite delle linee battute. Tuttavia questo equilibrio tra gradi abbordabili in trad e qualità della roccia tutta da comprendere rendono quel posto una palestra in senso piacevolmente molto più ampio.

Mi hanno raccontato (ma non ho ancora avuto occasione di andare a vedere) che nella balza inferiore, dove la roccia è migliore, sono apparse scritte “no spit” in azzurro che indicano alcuni itinerari dove è possibile esercitarsi nell’arrampicata tradizionale. Concettualmente un contro senso ma, purtroppo, con l’invasione delle “riattrezzature” sono sempre meno i luoghi in cui è possibile imparare ed impratichirsi con l’arrampicata libera senza doversi confrontare con difficoltà e gradi sporporzionati per la propria esperienza. Purtroppo molti luoghi, come ad esempio l’Angelone, che offrivano tradizionalmente questa possibilità (e di cui mi hanno dato conferma gente come il Guero, Josef e molti altri) ora sono stati “santificati e sacrificati” all’arrampicata sportiva o vincolata, ossia l’arte di “salire vie protette da spit precedentemente piazzati”. Un approccio radicalmente diverso dall’arrampicata tradizionale o libera, intesa (in modo riduttivo e parziale) come l’arte di “salire vie protette da attrezzatura posizionata nelle strutture naturali offerte dalla roccia” (definizioni scopiazzate dal sito di Gogna).

Se nell’arrampicata sportiva “chiudere” un 6a significa sentirsi dare della schiappa da quelli che sgignazzano impiastrati di magnesite, nell’arrampicata tradizionale affrontare a vista un V+ “nudo e crudo” significa iniziare a viaggiare un po’ dove più ti pare. Se decidete di passare “dal virtuosismo all’avventura” fatelo però a piccoli passi, senza strafare: la soddisfazione è comunque garantita ed indipendente dalle difficoltà.

Appena ne avrò occasione andrò a controllare se queste voci sulle scritte in azzurro sono vere e se davvero il posto merita una visita accompagnati dalla vostra serie di “amici”. Purtroppo io e Mattia avevamo solo mezza giornata e per questo motivo la nostra è stata una toccata e fuga. Visto il poco tempo a disposizione abbiamo puntato direttamente alla parte alta attaccando la Mozzanica-Tagliabue. La via è un po’ a fittoni, un po’ a piantane, un po’ a catene, un po’ a chiodi: è un po’ di tutto, ma principalmente bella.

Nonostante le frecce arancioni omnipresenti abbiamo allegramente incappato in un paio di fuori via in buona misura gradevoli. La sosta del secondo tiro è stata emblematica nel comprendere quanto la via venga recentemente ripetuta: la catena, posto sotto un’alta e bella placca, ha raccolto la terra ed il fogliame caduto dall’alto tanto da diventare una specie di “vaso pensile” su cui è cresciuta, non certo quest’inverno, una simpatica pianticella. Così mimetizzata l’abbiamo trovata solo quando, rassegnati, abbiamo iniziato ad organizzarci una nostra sosta alternativa. La roccia della placca è strepitosa ma il passaggio finale, definito di quinto, richiede un paio di movimenti in aderenza tutt’altro che banali.

Alla fine non sono riuscito a trovare informazioni sulla storia del Pizzo Boga ma, attraverso il racconto di due alpinisti sicuramente emblematici, ho scoperto perchè Boga e Cassin smisero di arrampicare insieme. Un storia raccontata da Giorgio Spreafico attraverso un dialogo (forse immaginario) contenuto nel suo libro “Torre Egger: Solo Andata”. I nomi e la storia di questi due “ragazzi” sono indelebilmente impressi nelle montagne di Valmadrera. Sull’Isola Senza Nome c’è una loro foto, un immagine che mi ha sempre colpito e che fatico a comprendere pienamente: da queste parti è davvero difficile non incrociare la loro storia e persino un foresto del versante nord come me non può che sentirsi coinvolto. Riporto qui sotto il passaggio del libro in cui ci raccontano chi fosse Mario “Boga” Dell’oro da Civate.

Davide “Birillo” Valsecchi


Racconto tratto da “Torre Egger: Solo Andata” di  Giorgio Spreafico

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Paolo Crippa “Cipo” ed Eliana De Zordo durante una chiacchierata al Rifugio Coldai.
Cavò piuttosto da una piccola tasca del portafoglio di lui una vecchia foto in bianco e nero, con i bordi seghettati, e la guardò con sorpresa:
“E questo chi è?”
“E’ il Boga.”
“Il chi?”
“Il Boga: Mario dell’Oro, uno di Lecco. Uno che scalava e che andava come un missile.”
“Morto?”
“Morto. Saltato in aria nel casello delle polveri della Fiocchi, una fabbrica di munizioni”
“Gesù, che fine. E tu cosa c’entri, con lui?”
“Era un cugino di mia mamma.”
“Ah. Forte forte?”
“Ce n’erano pochi che gli stavano dietro ai suoi tempi, prima della guerra. E mica solo a Lecco.”
“Io dei vecchi lecchesi ho in mente soltanto Cassin.”
“Be’, allora ci sei. Il Boga è stato anche un socio di cordata di Cassin. Ma era un dio di suo, eh, un dio. E’ una storia lunga…”
“Rieccolo con le sue storie lunghe… Dài, che ormai sono curiosa.”
“Vabbè, quello che conta è che già loro venivano da queste parti. L’ultima salita insieme l’hanno fatta proprio qui in Civetta nel trenta e qualcosa, una prima ripetizione di non so più quale via. Cassin quella volta lì è volato e ha avuto la sfiga di cadere proprio nel momento in cui il Boga aveva mollato la corda, perché aveva freddo alle mani e se le stava sfregando. Uno volo della Madonna, roba che quasi il Riccardo ci resta. Oh, il Boga poi è riuscito a tenerlo, e per farcela, le mani se le è anche conciate da buttare via. Ma la frittata ormai era fatta, e forse poi loro due non si sono più fidati del tutto l’uno dall’altro. Sai com’è, succede.”
Eliana rivide Paolo seduto davanti a sé, lo rivide cominciare a rimettere le sue cose nello zaino e lasciare per ultima sul tavolo, con apparente noncuranza, la macchina fotografica. Quando la prese tra le mani, invece, all’improvviso Cipo gliela puntò, inquadrò e scattò.
“Senza flash? Verrà nera, non c’è abbastanza luce” disse lei distendendo le braccia sulla spalliera della panca. “Peccato, pellicola sciupata…”
“Senza flash. Tanto lo sai che per me vieni sempre bella…”
Cipo lasciò anche questa frase sospesa, sperando che Eli la concludesse in qualche modo. Ancora una volta lei non lo fece. Disse invece: “E com’è finita? La storia del Boga e di Cassin, dico”.
“E’ andata che pochi giorni dopo l’incidente loro facevano già la gara a chi apriva la salita più bella sempre qui, alla Torre Trieste. Con altri soci di cordata, e naturalmente tutti e due da primi. Risulato: un vione da una parte ed un vione dall’altra, uno sullo spigolo e uno in piena parete. Fenomeni, ecco cos’erano.”
“Fine della storia? Non era poi così lunga…”
“Fine della storia. Il Boga era il Boga, ecco, era della famiglia, era un grande e non ha avuto paura di andare per la sua strada. Un bell’esempio, no? E’ per quello che me lo porto dietro. C’è chi tiene poster di cantanti in camera e chi invece tiene foto di alpinisti nel portafoglio…”

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