Ali in Frantumi

La sera del 15 Ottobre 1987 la ricordo bene. Avevo undici anni e stavo guardando un film della Disney, nella vecchia cucina con mio papà. Il piccolo Travis, che gestisce la fattoria mentre suo padre è in viaggio, era appena stato salvato dall’attacco di un lupo grazie all’intervento del coraggioso Zanna Gialla, un Labrador Retriever. Il cane però viene ferito dal lupo e a sua volta contrae la rabbia. “Giallo” quindi impazzisce per la colpa della malattia ed al piccolo Travis non resta altra scelta che abbatterlo sparandogli con il fucile del padre. Il momento era già abbastanza drammatico di suo, ma il film viene bruscamente interrotto da un comunicato speciale: “E’ precipitato un aereo alla Conca di Crezzo”. Ben presto anche lungo la provinciale che attraversa Asso risuonano, quasi interminabili, le sirene di polizia, ambulanze e vigili del fuoco. Anche mio padre esce nella notte ed insieme ad altri soci della sezione CAI si offre per dare una mano. Il giorno dopo noi bambini non andiamo a scuola, e così per tutta la settimana successiva. La palestra infatti è stata infatti occupata dell’organizzazione dei soccorsi e, ben presto, diventa la grande sala mortuaria in cui vengono ricomposti i resti dei passeggeri dell’ATR-42, il modello di velivolo, che si è schiantato. In paese non si fa altro che parlare dell’aereo, dei grandi fari che continuano ad illuminare la montagna dalle sponde del lago, di come l’aeroplano sia andato in frantumi e di come sia quasi impossibile ricomporre i corpi. Ciapìn, nel suo libro “Nell’Ombra della Luna”, racconta quella notte a capo del Soccorso Alpino. Di come il giorno successivo sia Domenico “Chinda”, della squadra “Valmadrera Uno”, a comunicare l’individuazione del terribile punto di impatto. Tutti parlano sempre della Conca di Crezzo, in realtà l’aeroplano si è schiantato sul Castel di Leves, quasi alla sommità del canale della Val Ferrera. Un canale in cui scorre l’omonimo fiume che, dopo aver disceso precipitevolmente tutta la montagna, attraversa nel mezzo l’abitato di Onno prima di giungere nel lago. Il velivolo quella notte, fredda e piovosa, era da poco decollato da Milano e viaggiava a cinquemila metri di quota quando gli si sono “gelate” le ali. Diventato ingovernabile è precipitato per 50 secondi, senza freno o controllo, colpendo la montagna a 700 metri di altitudine. Lo schianto ha frantumato ogni cosa, trasformando un aereo di linea, lungo più di venti metri, in briciole sulla montagna. Tutti i 37 occupanti persero la vita. “Sono le 9 del mattino del 16 Ottobre 1987. I tragici messaggi che arrivano dall’area d’impatto confermano il disastro che si ipotizzava: non ci sono, entro un raggio di un’ottantina di metri, resti umani che si possano definire tali. Le parti ritrovate non sono più grandi di una mano o di un braccio. Un quadro che fa comprendere quale tragedia i monti lecchesi abbiano dovuto vivere.”

Il vento è forte, ma senza questa brezza da nord il tempo non si sarebbe sistemato dopo le piogge di ieri. Avventurarsi sotto pareti rocciose, rigogliose di piante ed erba, dopo una forte pioggia e con gran vento non è mai una buona idea. La terra è ancora umida, la roccia bagnata, il collante che normalmente li lega è fragile e le piante, agitandosi per il vento, possono fare la loro parte nel “muovere” ciò è sempre stato immobile. In pratica – nonostante qualcuno possa ritenerlo impossibile – il vento fa cadere i sassi …ma non si sa mai quanto grandi! Tuttavia con una giornata tanto serena non potevo sottrarmi ed avevo una gran voglia di fare qualche fotografia alle Grigne innevate ed alle tante pareti che mi incuriosiscono. La mia vecchia Fujifilm, una FinePix S2950 del 2011, inizia però a perdere colpi: lo zoom si inceppa ed è terribilmente lenta nella messa a fuoco. Un capriolo, in posa quasi scocciato dalla mia mancanza di professionalità, prova a farsi immortalare ma la macchinetta fallisce lo scatto. Anche una famigliola di cinghiali vorrebbe una foto mentre attraversa un canale erboso: papà cinghiale, mamma cinghiale, tre porcellini. Riesco a fotografare giusto il culo del papà prima che, pigramente, si infilino tutti nel bosco. Le Grigne invece restano immobili e qualche foto buona al Sasso Cavallo mi riesce. Sono a spasso sul Castel di Leves, tra la val Ferrera e la val Montone, appena sopra la parete della “Crutascia”. Avrei dovuto consultare il catasto speleo per cercare qualche grotta interessante ma me ne sono dimenticato. Poco importa, sono a spasso in una giornata di sole. Certo, il Castel di Leves non è esattamente il posto migliore per andare a spasso a cuor leggero. Ho trenta metri di corda e qualche fettuccia nello zaino, ma decido comunque di fare il bravo e mi metto a cercare nuovamente il sentiero. Quello degli umani, perchè di quelli animali ce n’è più di quanti ne servano! Caprioli, cinghiali e mufloni hanno costruito, ognuno per sè, la propria strada nel labirinto della montagna. I mufloni restano i più affidabili e, camminando in gruppo, hanno le “strade” più marcate. Così ne seguo una, confidando di incrociare presto il sentiero “Sette” per poi uscire sui prati sotto “La Madonnina”. Il bosco è pieno di quei fiori bianchi che spuntano come funghi a metà dell’inverno. La mia scarsa competenza in botanica suggerisce che siano ellebori o, volgarmente, “Rosa di Natale”.  Nella luce del sole sono macchie candide che brillano nel sottobosco. Poi però mi fermo un istante, quasi smarrito, perchè non tutto quello che è bianco è un fiore. Tra le foglie ed i ricci di castagne affiorano piccoli frammenti bianchi, schegge a cui è aggrappato una specie di cartone a cellette di alveare, come quello delle api. Guardo ancora e trovo frammenti di fibra di vetro, frammenti bianchi di lamiera. Sono nel bosco da ore, da solo, in mezzo agli animali ed al silenzio. All’improvviso tutto si fa ancora più silenzioso e forse la situazione mi sfugge di mano. Senza un vero motivo inizio a raggruppare questi piccoli frammenti. Ne vedo uno più grande a poca distanza, mi avvicino e senza parlare inizio a raccogliere un altro mucchietto. Più in basso ancora. Supero un muretto roccioso aggrappandomi ad una pianta. Raccolgo altri pezzi, costruisco un altro piccolo cumulo. Non sto cercando di rimettere insieme i pezzi, solo di riunirli, non lasciarli sparsi e soli per il bosco. Poi il buon senso mi chiama all’ordine e mi ritraggo dal pendio che precipita nel canale del Ferrera. La croce che indica il punto d’impatto è lontana, molto più in alto e sulla sinistra.  Sono lontano, sul margine esterno. Imbattermi in tutti quei pezzi, così, appoggiati tra le foglie dopo oltre 30 anni, mi confonde. Non ero pronto. Li raduno tutti insieme su un sasso di granito, anch’esso estraneo ed alieno ma di epoche ancora più lontane. Faccio una foto, studio i vari oggetti. Tra tutti è uno a colpirmi maggiormente. Non è una lamiera o un frammento di fusoliera. No, è un pezzo di finta pelle: sembra un brandello della maniglia di una valigia. Mi colpisce perchè non è un pezzo dell’aeroplano, ma qualcosa che apparteneva a qualcuno. Con i pezzi raccolti provo a costruire un ometto, o qualcosa di simile. Qualcosa che sia un ricordo, una testimonianza composta. Poi mi viene in mente che anni fa, al grande monumento dedicato all’incidente, avevano lasciato – probabilmente  come commemorazione – un grosso frammento dell’aereo. L’altro giorno però, quando ero passato da quelle parti dopo dieci anni d’assenza, non c’era più. C’era un nuovo altare, delle targhe ed un cancello, certo, ma non il frammento. La strada è vicina ed il luogo incustodito: credo qualcuno l’abbia portato via. Rubato forse come cimelio di non si sa bene cosa. Così, infastidito dall’idea che anche questi pezzi possano diventare ciò che non dovrebbero essere, scavo una piccola buca e li seppellisco sotto le foglie.  Poi mi siedo, in silenzio, al sole. Mi sento come un personaggio grottesco di un film di serie B, uno di quelli in cui la storia inizia quando il protagonista profana un cimitero indiano maledetto. Resto seduto, guardo le Grigne mentre sprofondo ingiustificatamente sereno in una strana solitudine che quasi mi intorpidisce. Sento il bisogno di parlare con qualcuno. Prendo il cellulare e provo a mandare un messaggio vocale con whatsapp. Le parole però quasi non escono, sembrano intimorite, restie ad incrinare quel silenzio. Rimanere qui, rimanere qui per sempre. Quasi spaventato mi tiro in piedi mentre il cuore batte all’impazzata ed il fiato è corto. Risalgo ma sono goffo e disorientato. “Concentrati! Devi ancora ritrovare il sentiero! Concentrati!”. Poi in lontananza vedo un bollo sbiadito su una pianta. Raggiungo il sentiero ed il marcio canale d’uscita del numero sette. Mi siedo sull’erba. Ingollo l’intera borraccia di the che mi ha preparato mia moglie al mattino ed infilo in bocca, quasi a forza, noci ed uvette. Strana esperienza. Sto diventando vecchio, ho quasi perso il controllo delle mie sensazioni. Ma forse era inevitabile. Forse è davvero troppo. Mi viene in mente una frase di Mario Rigoni Stern: “La preghiera è stare in silenzio nel bosco”. Andiamo a casa, ho voglia di parlare con qualcuno. 

Davide “Birillo” Valsecchi