Da Megna agli Appennini oltre la pianura

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Venerdì ci sarà la consueta fiaccolata di Natale alla croce di Megna e così, visto che mi sto preparando per il Congo, sono andato lassù a dare un occhiata e a macinare un po’ di passi.

La giornata era anomala  come quasi tutte quelle di questo strambo dicembre. Un sole freddo illuminava le montagne senza neve: solo le Grigne ed il Resegone, in lontananza, mostravano alla Vallassina che è inverno.

Era mezzo giorno quando mi sono incamminato: infilati in bocca un paio di biscotti ero in strada. Un ora e mezza e da Scarenna sono arrivato in cima alla Croce di Megna senza strafare: il panorama che mi circondava era avvolto da una strana magia. Davanti a me una buia pianura mentre la luce rimbalzava dietro plumbee nuvole e l’orizzonte, alle due del pomeriggio, sembrava infiammato da un prematuro tramonto. Alle mie spalle, sulle montagne innevate, regnavano invece l’azzurro del cielo e bianche nuvole candide.

Ad occhio nudo apparivano orizzonti inconsueti, costellati da montagne lontane. Il rosso e la luce facevano risplendere gli Appennini mentre, in contrasto, la pianura sembrava nera, scura, buia ed opprimente. Solo alcuni pinnacoli di fumo sembravano abbandonare quella tetra coltre sfidando gli spazi aperti sovrastanti.

Annotando i riferimenti, la Croce di Pizzallo ad Ovest e la cima di Scioscia ad Est, ho potuto verificare sulle carte che quelle montagne a sud erano parte dell’Appennino Ligure e dell’Appennino Tosco Emiliano ad oltre 350km. Alle spalle le montagne del Lario Occidentale, le Grigne, il Legnone ed il Resegone.

Il sentiero che porta alla cima di Megna è ben curato e segnato dal CAI Asso e così, in quello strano clima, ho deciso di seguire la tenue traccia nell’erba che scende lungo la cresta opposta e che degrada diretta verso Asso. Lo scenario, appena più sotto, era anche più straordinario. Lungo la costa, infatti, giacciono grandi sassi di granito trasportati in tempi remoti dal ghiacciaio ed abbandonati lì: eternamente indecisi su quale lato della montagna cadere.

Mentre la rocce attendevano dubbiose sul crinale due eserciti sembravano affrontrarsi in una battaglia senza tempo. Su un fianco della montagna avanzava il bosco indigeno popolato da faggi, querce e castagni mentre sul versante opposto pressava la pineta con le sue alte piante forestiere. Sul crinale le piante si scontravano per il predominio mentre il vento, che spazza violento quella cresta, mieteva vittime in entrambi gli eserciti lasciando morenti alberi abbattuti uno contro l’altro.

Come un druido attraversavo quel secolare campo di battaglia scavalcandone le vittime ed i cadaveri in frantumi. Mi sentivo tanto distante da quella tetra coltre che regnava nella pianura e, come l’ultimo testimone di una razza scomparsa, osservavo imparziale la battaglia degli alberi.

Accarezzavo la realtà sentendomene parte, ma la sensazione è durata purtroppo solo un attimo. Come spesso accade, quando si segue i tracciati fatti dalle capre e non dagli uomini, il sentiero si è arrestato sulle rocce e la “poesia” ha dovuto lasciare spazio alla “pratica” affrontando le scogliere ed i rovi fino alla comunità di Megna. Spesso seguire “sentiri selvaggi” ha i suoi contrappassi fatti di fatica e rischio.

Davide Valsecchi

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