La bataille est perdue

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Corro su per la scalinata ed arrivo alla soglia della “sala ossigeno”. La stanza è piccola, sei metri per tre, colma di persone accalcate, alcune sedute per terra, altre distese sulle brande. Supero la piccola porta dipinta di rosa e cerco di farmi strada. E’ una visione surreale: la stagione delle piogge ritarda e la siccità ha messo sotto assedio la pediatria. Ovunque sono appese flebo mentre i tubicini dell’ossigeno corrono dalle grandi bombole sparse qua e là. Non c’è corrente elettrica e la stanza è cupa, buia in un’ opprimente penombra. Una giovane dai grandi seni allatta il suo piccolo mentre più avanti una donna canta una ninna nanna, più avanti ancora qualcuno piange mentre altri si lamentano.

L’ossigeno è prezioso e costoso, vengono portati in questa stanza solo coloro in gravi difficoltà. L’odore di malattia e di umanità reclusa impregna ogni cosa qui dentro. Fa caldo e sento l’aria mancare, le pareti appiccicano di paura e disperazione: è in questa stanza che il destino deciderà la sorte dei presenti.

Vedo Bruna, il piccolo è su di un lettino accanto ad altri come lui: immobile, sdraiato sulla schiena con l’erogatore dell’ossigeno nelle narici ed una flebo nel braccio. Bruna è in piedi, è pallida ed accaldata. Il viso tradisce i suoi pensieri e la sua stanchezza.

“Vieni con me!” Cerco di avvicinarmi nella calca ma lei sembra non darmi ascolto “Vieni con me, Bruna!” Le dico ancora con fermezza ma senza alzare la voce. Riesco ad arrivarle vicino, le prendo la mano e la porto con me. Sulla porta incrociamo Padre Hugo: “La porto fuori a prendere un po’ d’aria”. Lui annuisce e lentamente si fa strada: sarà lui ora a stare con il piccolo.

“Quella è la strafottuta anticamera del purgatorio! Laddentro non è più tua giurisdizione! Se esce lo riprendi ma finchè sta laddentro tu devi startene fuori! Non è posto per te quello!” Ma Bruna non sembra volerne sapere. Il piccolo ha avuto tre arresti respiratori, lei è riuscita a farlo riprendere ma ora è sotto ossigeno ed hanno intenzione di  fargli una trasfusione: un ultimo disperato tentativo per provare a ridargli forza ora che ha smesso di rispondere agli stimoli.

“Vieni, almeno bevi qualcosa che qui fa un caldo terribile!” Le prendo ancora la mano e la porto in cucina con me,  riempio due bicchieri con l’acqua bollita delle taniche ed aggiungo un po’ di zucchero di canna.“Io ho bisogno di tirare fiato. Fai una pausa con me? Giusto un momento.” Lei accetta e saliamo sul fianco della collina. C’è un piccolo spiazzo dove tira sempre vento, dove non si sente il caldo e gli odori dell’ospedale.

Davanti a noi c’è un’orizzonte di colline verdi ed il sole, tramontando, tinge di rosso il fiume nella valle di Maciuco: in questo paese c’è tanta bellezza ed altrettanta sofferenza. Restiamo un secondo cercando di godere di quell’attimo di pace ma, da lì a poco, arriva Padre Hugo e ciò che deve dirci glielo si legge in faccia: “Ho una triste notizia da darvi”. Gli occhi di Bruna si gonfiano di lacrime che a stento trattiene mentre Padre Hugo ci descrive quello che inevitabilmente è accaduto.

Bruna si lascia andare, si abbandona al pianto. Maledice me, il tramonto e se stessa per tutte le volte in cui mi ha dato retta. Avrebbe voluto essere lassù con lui negli ultimi momenti, esattamente ciò che io non volevo accadesse. Ha fatto e dato tanto per quel bambino ma è qui per aiutare non per ferirsi: non meritava quell’inutile terribile ricordo. Non c’è poesia nella morte, è un istante interminabile in cui tutto diventa immobile, sterile, disumano.

Le prendo ancora una volta la mano mentre tra le lacrime si sfoga nuovamente furiosa con me. Risaliamo le scale ed arriviamo alla neonatologia. Apro il cancelletto e sul piazzale trenta bimbetti ci corrono incontro aggrappandosi alle nostre magliette come se fossimo una giostra. Guardo Bruna, si asciuga gli occhi e sforza un sorriso, poi i bimbetti la trascinano via: è solo la vita ciò che richiede la nostra attenzione qui, nient’altro.

“Winner” è morto il 25 gennaio. Avrebbe compiuto undici mesi il 26. Il giorno prima di morire sembrava sentirsi meglio, rideva disteso all’aria aperta mentre il sole asciugava le sue piaghe e Bruna gli teneva compagnia leggendo ad alta voce un libro. Credevo ce l’avrebbe fatta ma la notte spezzò le nostre speranze.

Abbiamo perso la nostra battaglia, piccolo. Purtroppo quel giorno, come ogni giorno, non sei stato il solo che non abbiamo potuto trattenere qui con noi. Ti abbiamo seppellito in una piccola cassa rivestita di bianco, scrivendo con la vernice il tuo nome su una croce in cemento. Non possiamo più altro per te, se non portarti nei nostri ricordi.

Davide Valsecchi

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