Novantasei ore

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Sono passate novantasei ore, quattro lunghi giorni di battaglia, due trasfusioni, ossigeno, flebo, cannule, preghiere e “bestemmie”: tutto per la Piccola Bruna che, finalmente, sembra inizi a tirare fuori la testa dalla fossa in cui sembrava essere già stata calata.

Con la piccola è un susseguirsi snervante di schiarite e tracolli che rendono difficile ogni previsione, insicura ogni speranza: la sera, tra la gioia di tutti, la piccola addentava una coscia di pollo e la mattina era di nuovo troppo debole per qualsiasi cosa.

L’unica costante cosa rimane sempre il suo caratteraccio: una rabbia figlia della vita disordinata e caotica in cui è stata trascinata prima di essere abbandonata. La giovane madre, poco più che maggiorenne, è infatti una ” Shegue”, una di quei ragazzi di strada che si riuniscono in bande vivendo alla giornata nelle periferia sub-urbana di Kinshasa.

La piccola Bruna, abituata a vagabondare con la madre, mangia ora solo quello che vede passare di bocca agli altri ed è quasi impossibile darle un pasto intero tanto è abituata a mangiare poco ed in modo incostante. Ad aggravare quest’atteggiamento c’è la malattia e l’enorme quantità di stress che sembra avere accumulato dopo l’abbandono: è colma di rabbia ed avida dell’affetto che le è stato negato.

Bruna ed io siamo un po’ stanchi ma abbiamo guadagnato quattro giorni ed anche Padre Hugo è molto confidente nonostante le incertezze. Per il padre la medicina è davvero una forma d’arte che egli esercita con una capacità straordinaria nonostante gli strumenti, a volte rudimentali, di cui dispone: “I computer sono una buona cosa ma qui non li abbiamo e nessuno li saprebbero usare. Un medico deve imparare ad usare bene gli occhi e sopratutto il naso, vedere i sintomi e sentire gli odori. Serve fare esperienza ed essere sempre nel dubbio. Pensare, pensare, pensare.”

Effettuare una trasfuzione ad una bimba che ha meno di un anno ed è tanto debole richiede grande competenza e rappresenta un grande rischio: sbagliando le quantità o le modalità di somministrazione del sangue si rischia infatti di scompensare il sistema circolatorio e di creare un collasso cardiaco: il cuore rischia letteralmente di non riuscire a pompare la nuova quantà di sangue in circolo e quindi di fermarsi inesorabilmente. Solo con il tempo Padre Hugo è riuscito a formare i suoi medici congolesi in queste pratiche tanto delicate e, a conferma degli ottimi risultati raggiunti, è in costruzione un nuovo padiglione dove poter ampliare e strutturare il centro trasfusionale.

In questa domenica minacciosa di pioggia finalmente godiamo di un attimo di pace: siamo riusciti, cosa rara, a pranzare tutti insieme e a starcene seduti per chiacchierare con un po’ di caffè in mano.

Adam e Patrizia, contrariamente alla piccola Bruna, sembrano essersi ormai quasi rimessi ed hanno riacquisito abbastanza peso e salute da poter presto tornare con gli altri bimbi della neonatologia.

Quella che inizia ora è la nostra ultima settimana di “ferma” alla pediatria e se avrò un po’ di tempo proverò a raccontarvi di Kinta, il piccolo villaggio che abbiamo visitato Mercoledì nell’interno del paese. C’è tanto di cui vorrei rendervi partecipi ma purtroppo, vista la situazione, faccio fatica a rubare tempo al riposo per scrivere come si deve tutti i giorni: dovrete forse aspettare il mio ritorno tra la quiete della nostra valle, che mi dicono ora innevata, per sapere molto di quello che accade qui.

Grazie per il supporto!

Davide Valsecchi

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