Dalla parte delle Pareti

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Ivan GueriniIvan Guerini è un tipo strano, e probabilmente anche io devo esserlo perchè, nonostante le differenze, andiamo davvero d’accordo. Lui è quasi una leggenda dell’arrampicata, io poco più che un casinista: eppure, anche quando non arrampichiamo, sembriamo legati da pensieri comuni, vincolati da linee invisibili. Non la pensiamo sempre allo spesso modo, ma quasi mai siamo in dissonanza.

Giorni fa mi ha dato da leggere le fotocopie un suo vecchio articolo, pubblicato più o meno nel 1991, che ha per titolo “Dalla Parte delle Pareti”. In questo scritto ci sono due frasi che mi hanno davvero colpito. La prima “Eliminano dello spazio per riempirlo con la paura di rimanere indietro.” e la seconda “Trasformano l’arrampicata libera in mezzo alla natura in una libera prigionia delle loro realizzazioni.”

Mi hanno colpito perchè la mia generazione, una generazione alpinistica inequivocabilmente di sconfitti, è fisicamente e culturalmente stritolata da un terribile circolo vizioso. Soffocata da una cultura che porta ad arrampicare con la costante paura di cadere e con il conseguente e pressante bisogno di essere protetti. Una cultura distorta che incita a bruciare le tappe, a spingersi irragionevolmente oltre i propri limiti nascondendosi dietro la tecnica e l’illusione della sicurezza. Una cultura opprimente, invadente e prepotente che premia ignoranza e mediocrità, che mente a se stessa pur di rendersi accettabile ed adeguata alle proprie ambizioni. Una cultura che priva la mia generazione, e forse anche quelle che seguiranno, della libertà, della gioia e della serenità di arrampicare “liberi”.

Forse nello scritto di Ivan, profetico come spesso anche lui lo è stato, è racchiusa l’origine di questo male. Per questo, armato di santa pazienza, ho voluto trascriverlo a mano rendendolo nuovamente pubblico, sia alle persone che mi sono care quanto a tutti coloro che, come me, sono in cerca di risposte.

• Dalla parte delle Pareti – Ivan Guerini (1991)

Inconsueto per i tempi. E’ la prima impressione che un articolo di questo genere può suscitare. Quella di uno scritto tipico di una mentalità ormai superata, lontana cioè dal modo di pensare e agire che ora va per la maggiore. Ma bisogna che ci capiamo: essere fuori dalla mentalità attuale non vuol dire aver perso il contatto con la realtà, può invece significare guardare l’attualità dal di fuori.

La maggioranza di chi arrampica ora, spesso, non si accorge di quanto succede al di là del suo modo di fare, perchè è in costante adorazione di ciò che fa. Pensa di essere al centro del mondo, ma è semplicemente al centro dell’attenzione (che non è la stessa cosa…).

Qualche esempio? Se ne potrebbero fare molti, ma preferisco parlare di un gruppo di pareti che mi stanno particolarmente  a cuore; anche perchè questa volta ho deciso di sbilanciarmi in prima persona, altrimenti l’argomento sarebbe un discorso teorico.

Le pareti di cui parlo sorgono presso il Lago di Lecco, qualche chilometro dopo la città. Si tratta di un piccolo universo roccioso dove una certa mentalità, sbragata nel modo di fare, si è completamente disinteressata di tutto ciò che su quelle pareti è avvenuto o avviene, magari con meno frequenza di un tempo. Ebbene questo modo di fare non si è fermato ad una semplice prevaricazione del passato: ha pure tolto di mezzo quella natura che su quelle rocce viveva prima che arrivassero le vie a spit. E ha sovvertito l’equilibrio che invece era stato rispettato dalle vie precedenti.

Forse qualcuno si chiederà perchè mi sono deciso a parlarne solo ora. C’è un motivo preciso. Oggi, se tu non racconti ciò che fai, pubblicando immediatamente, pare che tu non faccia niente. E se poi decidi di startene in silenzio per qualche anno pare che tu non arrampichi più! Ma se uno non pubblica, magari una ragione c’è! Eppure c’è un momento per pubblicare e ce n’è un altro in cui è necessario avere il coraggio di non pubblicare. Perchè arriverebbe assai poco a destinazione.

Cancellare le testimonianze.

Con la scusa di praticare dell’arrampicata sportiva, e non dell’arrampicata tradizionale, qualcuno pensa di poter fare sulla roccia tutto quello che gli pare. Ad esempio, togliere i pochi chiodi normali e sostituirli con gli spit. Il motivo? Perché non sono sicuri, non si sa chi li ha messi, come mai sono lì… Se invece i chiodi vengono lasciati in posto, allora si sale, si attraversa, si tagliano con molte vie “nuove” i pochi metri di parete, isolando il valore di quei pochi chiodi normali. Al punto che i vecchi “ferri” paiono ormai solo dei pedoni circondati da un traffico caotico e luccicante. In questo modo, prima si confondono i tracciati, poi vengono dimenticate le vie originali dalla parete. Infine, sopra quelli che già esistevano vengono aperti altri itinerari!

Il risultato? Si elimina dello spazio (che naturalmente non sarebe scalabile) per riempirlo con la paura di rimanere indietro. Più o meno come se si andasse sulla Cima Grande di Lavaredo a togliere i chiodi di Comici, senza nemmeno chiedersi perché sono lì e si richiodasse la sua via chiamandola, che so, Pesche all’olio di Oliva. Magari salendo ad un metro di distanza dal percorso originale e intersecando quando conviene. Oppure se si spittasse la Cassin al Badile con la scusa che i chiodi sono vecchi e vanno sostituiti, e si ribattezzasse la via originale Gli idioti del 2000. Che bravura!

Cancellando le testimonianze del passato (tanto il passato remoto quanto gli avvenimenti più recenti, di ieri), si potranno finalmente cambiare anche i nomi delle vie che già erano state “battezzate”. E per “finalmente” intendo: “chi se ne frega se qualcuno le ha già fatte, adesso ci siamo qui noi”.

Il fatto che spesso si sia arrivati a spittare sopra e lungo vie già esistenti, non dimostra soltanto che la mentalità generale di chi arrampica secondo questi canoni non riesce a distinguere niente al di là di ciò che fa. Piuttosto, rende evidente come la specializzazione limiti il giro d’orizzonte. E non mi riferisco tanto alla capacità di “tirarsi su” sulla roccia, quanto piuttosto alla capacità di comprendere il valore complessivo della parete che si sta salendo.

In conflitto con il passato più recente

Ma non è tutto qui. Chi arriva a spittare dove qualcuno è già salito utilizzando chiodi normali, in fondo non ammette che nel passato più recente certe difficoltà sono state salire in arrampicata libera naturale. Sicuramente, sotto sotto è convinto che questo debba ancora avvenire… Vorrebbe che all’arrampicata libera naturale sulle alte difficoltà ci si arrivasse con l’arrampicata a spit, e che il merito di questa nuova evoluzione appartenesse solo allo spit.Invece, tale evoluzione è già avvenuta negli anni passati, e non è stato certo grazie allo spit.

Effettivamente, per chi ha una mentalità competitiva, sarà dura accettare il fatto che l’avanzamento delle difficoltà sulle pareti calcaree del Lago di Lecco non è avvenuto con quel tipo di arrampicata libera che si serve di mezzi di protezione innaturale.  Qui, infatti, l’evoluzione ha avuto luogo semplicemente grazie all’esplorazione di pareti sconosciute per mezzo di un arrampicata libera naturale, nel completo rispetto della natura rocciosa. In altre parole, la roccia inchiodabile è rimasta tale.

In effetti, sulle pareti di Predello, su quelle di Giazzima e sopratutto sulla lunga e scomoda Cornice dell’Avorio, sono state aperte numerose vie con passaggi dal VII+ al X-. Il tutto a partire dal 1979, ben prima che “la spit climbing” piombasse su quelle stesse pareti per andare a caccia di difficoltà. Da quel momento le pareti di cui parliamo sono state salite e frequentate, e per molto tempo nessuno ha cercato di “sistemarle” a misura d’uomo.

Da parte mia, da quando ho cominciato ad arrampicare, ho cercato di non intervenire mai sulla natura delle difficoltà esistenti in parete. Nè nei centri di fondovalle nè in montagna. Ho chiodato solo dove i chiodi entravano naturalmente, e sono salito solo dove ero in grado di farlo con i miei mezzi. Senza la presunzione di separare il grado della difficoltà dalla natura che lo forma. Perchè sentivo che un mio intervento in tal senso avrebbe alterato l’ordine naturale della parete. In altre parole, avrebbe inquinato il difficile.

E già che ci siamo, vorrei precisare che questa lunga premessa non costituisce una requisitoria contro gli spit. Mi interessa invece mettere in risalto come una certa mentalità diventa “a spit” anche nel modo di fare: maniacale, territoriale, aggressiva. Questo, almeno, a giudicare da quanto successo sulle pareti in questione.

E in definitiva il vero problema non è dato dal fatto che la “spit climbing” limiti i suoi praticanti ad un arrampicata incompleta rispetto ad una libera autentica. Il problema, ben più grave, è che lo spit separa l’uomo dalla natura della difficoltà. Nel senso che lascia la difficoltà, ma elimina le sue componenti naturali…

Sotto le pareti dell’Avorio

E che dire di quel sentierino che corre sotto le pareti dell’Avorio, costruito abbattendo piante, rimuovendo sassi e spuntoni per trasformarli in comodi gradini? Tanto più che per 12 anni la gente ci è sempre andata lo stesso, anche senza sentieriero, ma sopratutto lasciando le cose com’erano. Si tratta di un sentierino che, in un posto molto più piccolo di una “grande foresta”, ha in proporzione gli effetti di una grande arteria di traffico. Un sentiero fatto solo per arrivare comodi agli spit senza strapparsi i vestiti, quando il bello di quel posto era tornare a casa, la sera, con i segni di “forti” esperienze sulle mani; e quegli strappi sui vestiti erano i ricordi di giornate complete, vissute appieno..

Alle pareti di Pradello

E la sommità della torre del Garofano? Era costruita da un fiore calcareo, con schegge di petali e foglie di spuntoni… Oggi non è più com’era, in gran parte è stata distrutta. Petali e foglie sono stati buttati giù a forza da chi sa stare in mezzo alla natura solo piegandola alla sua ristrettezza di idee. Lassù ormai sono rimasti solo massi sconnessi e gettati nel vuoto da chi è assetato di posti nuovi. Non per riconoscerne il valore, ma piuttosto per renderli luoghi da divulgare in modo da sentirsi qualcuno!

La morte dello Spalto del Messia Verde a Giazzima

Mi sono sentito preso a calci nei sentimenti. Era come se le testimonianze della mia passione di un tempo fossero state violentate davanti a me… Gelosia dei posti? Balle! Pare che un certo modo di fare si diverta ad umiliare la natura solo per l’invidia di essere stato preceduto.

Hanno fatto a pezzi la natura che da sempre viveva su quelle pareti. Le avevo salite anni prima, quelle rocce, lasciandole esattamente come erano. Mi sarebbe piaciuto che fossero rimaste tali. E’ stata una violenza tremenda, quella di rovinarle, come se ti avessero sgozzato il gatto o avvelenato il cane per farti un dispetto.

Ci sono certi luoghi, nel mondo, dove qualcuno sa trovare la propria felicità. Al contrario di tanti altri che masticano continuamente posti, macinano decine di vie senza sosta perchè, per loro, in definitiva un posto vale l’altro. E così si rovina, si spacca, si distrugge.

Cosa si dovrebbe dire a chi ha segato un albero decennale per sostituirlo con una calata a soli 10 metri da terra? Quello era l’unico albero nato e cresciuto al centro di una parete che portava il suo nome: lo Spalto del Messia Verde.

Un albero che in primavera sprigionava una chioma verdissima e faceva indiscutibilmente parte dell’ambiente. Oltretutto era inutile tagliarlo perchè permetteva anche di sostare e di lì si scendeva pure in doppia, accarezzati dalle sue frasche quando c’era la brezza pomeridiana…

Una descrizione romantica? Niente affatto, sono parole vere, reali quanto la sua distruzione!

A qualcuno, discorsi di questo genere potranno sembrare disquisizioni idealistiche che non stanno con i piedi per terra. Per me, invece, è idealista e fuori dalla realtà chi tratta le pareti senza rispetto. Senza accorgersi, o facendo finta di non accorgersi, di come le rovina, nel tentativo limitato ed infantile di trasformare la roccia a sua misura. Intanto la parete cambierà nome, si chiamerà Spalto del Messia decapitato e la via Le Catene dell’uomo alla natura.

Mi immagino già la risposta: «Ma dai, in fondo una pianta è solo una pianta!» E’ vero, com’è altrettanto vero che, in casi come questi, la faccia di uno spit climber è qualcosa di talmente inutile da non servire nemmeno come concime per riportare in vita quella pianta, ridotta ad un oggetto rinsecchito. E adesso si dovrebbe usare quel ceppo avvizzito come legna da ardere? Oppure comportarsi con quel ceppo sporco ed umido come con una prostituta che viene tolta di mezzo e buttata in un fosso perchè intralciava gli interessi di…?

Già, in fondo quella era solo una pianta, ma quante piante in tanti posti hanno fatto la stessa fine? Avete mai provato a pensarci? Spezzare un ramo perchè sei costretto a passare di lì è comprensibile, può anche capitare. Ma perchè mai dovrebbero avere ragione quelli che segano le piante per sostituirle con una più comoda catena di calata? Perchè dovrebbero avere ragione quelli che strappano edere ed arbusti e non si accorgono dei nidi momentaneamente abbandonati e radono al suolo ogni forma di vita che ostacola ed intralcia le loro realizzazioni?

Avete mai osservato da vicino gli autori di così grandi gesta? Sono figuri tristi e meschine, dalle facce piatte e dallo sguardo inespressivo che si accende solo quando arriva qualcuno in grado di salire senza sbagliare un gesto. Persone che hanno bisogno di vestirsi in modo molto colorato proprio per nascondere lo sterminato grigiore del loro modo di vivere…

Che ne sanno loro cosa significhi arrampicare realmente in libera, se continuano a ridurre così ogni falesia su cui puntano lo sguardo? Trasformando l’arrampicata libera in mezzo alla natura in una libera prigionia delle loro realizzazioni. Al punto che si potrebbe quasi dire: finta libera per finta libertà.

Un merito, però, questo modo di fare ce l’ha senz’altro. Quello di essere riuscito a trasportare in montagna tutto ciò che in città invade il loro modo di pensare. Ha trasformato momenti unici, vissuti in mezzo alla natura, in una domenica di sole vista attraverso i vetri di casa.

In breve, la quiete che sempre è esistita su certe pareti ha preso le sembianze di un bar, con gente che fa il tifo e spegne le cicche nei buchi della roccia, che rumoreggia e sghignazza, anzichè gridare di gioia. Gente che ha “La Gazzetta dello Sport” e le cronache della “Libera” al posto del cervello.

Ed è un peccato, perchè si potrebbe lo stesso arrampicare sul difficile, anche sul X grado, senza imboccare necessariamente quella strada. La storia e l’esperienza, oltretutto, lo dimostrano. Su queste pareti, per anni, si è andati avanti lo stesso.

Ivan Guerini.

L’articolo di Ivan prosegue ancora esplorando, anche a livello personale,  ciò che può essere fatto per arginare questa tendenza. Per il momento, visto la quantità di spunti di riflessione, ho preferito fermarmi qui. Lasciare che il tempo aiuti. Per chi volesse leggere integramente tutto l’articolo può farlo qui: Dalla parte delle Pareti (Intergrale, pdf)

Davide “Birillo” Valsecchi

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