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La Via “Dei Magnifici Quattro”: un anno dopo

La Via “Dei Magnifici Quattro”: un anno dopo

[TeoBrex] Il cielo era di un blu profondo, vivido, un blu introvabile nemmeno nelle acque dei mari e degli oceani più cristallini del pianeta. Parlo di quel colore che puoi ammirare solamente in Montagna, a certe altitudini ed in luoghi non proprio raggiungibili da tutti. Perché la Montagna non è per tutti come vogliono farvi credere; è solo per chi accetta lo sforzo fisico e mentale portato all’estremo, la fatica come insegnamento per crescere, la rinuncia come saggezza (se non riesci a salire non modificare la Montagna, modifica te stesso) e la roccia come mezzo per conoscersi in profondità. Tutto il resto sono solo chiacchiere sterili ed inutili. Punto.

Iniziò così quella giornata: chilometri di salita a piedi con gli zaini zeppi di ferraglia e cordini, centinaia e centinaia di metri di dislivello positivo, rocce di dolomia vergine, quattro persone pronte ad esplorarle per primi e quel blu… Mai più rivisto uguale. Le calme acque del piccolo lago riflettevano ed amplificavano quell’incredibile vividezza del cielo mentre ci avvicinavamo ai primi imponenti bastioni appena fuori dal magistrale anfiteatro naturale in puro stile dolomitico che ci si presentò dinnanzi.

Come sempre scherzavamo e ci prendevamo in giro lungo il cammino; eravamo carichi e felici della giornata appena iniziata e tutti contemplavamo la magnificenza, la pace ed il silenzio che quei luoghi, sconosciuti alla maggior parte della massa, emanavano.

Lungo le prime pareti esplorate Ivan saliva con stile magnifico portandosi legate all’imbrago le due mezze che sarebbero servite a Veronica per seguirlo da seconda ed a me per raggiungerli in sosta raccogliendo cordini, moschettoni, friends e nuts lasciati come protezioni; Giuseppe saliva in libera senza nemmeno avere addosso l’imbrago ridendosela come solo lui è in grado di fare.

Primi tiri molto belli e rilassanti nonostante la crudezza e la severità dell’ambiente che ci circondava. Prime vie liberate e roccia rimasta inalterata così come il grado di difficoltà, soste su naturale con cordini e discesa dai pratoni che partivano a picco dalle sommità dei bastioni appena esplorati. La Montagna rimase così come lo era prima del nostro passaggio, restò vergine.

Lasciammo questa meravigliosa zona per portarci alla base di alcune pareti molto alte e delicate, qui la compattezza della roccia non è più una sicurezza, ma qualcosa da valutare prima di ogni movimento, ogni minima DISTRAZIONE ora diventa pericolosa.

Ivan e Giuseppe seguivano il loro diverso istinto esplorativo partendo entrambi da primi in due diverse cordate, mentre io e Veronica da secondi li seguivamo recuperando il materiale utilizzato per la sicura, alla fine di ogni nuovo tiro ci si ritrovava tutti in cima cercando il modo migliore per scendere di quota e poi riportarsi alla base delle pareti.

Estate, le condizioni meteorologiche cambiano molto velocemente e pericolosamente quando ci si trova a certe altitudini, minacciose nuvole iniziavano ad apparire all’orizzonte mentre insieme decidevamo sul da farsi. Presagio? Scendendo dall’ultima via aperta, Giuseppe scorse una parete completamente diversa da quelle affrontate, è inutile aveva davvero un fascino irresistibile per forma e per sostanza.

Ivan si irrigidì subito, ancora non capimmo il perché, ma lui aveva già compreso che qualcosa sarebbe accaduto, alcune persone hanno un rapporto così stretto con La Montagna che a volte sembrano fondersi in una sola cosa con lei e lui è questo, difficile spiegarlo meglio, riescono ad abbattere la barriera dello spazio e del tempo per dare uno sguardo avanti nel futuro per evitare il peggio.

Ciò che ricordo fu questo, ciò che accadde me lo raccontò Ivan dopo alcuni giorni in una telefonata delle nostre…
Arrivati alla base della parete, Giuseppe cominciò a guardare in su, conoscendolo aveva già trovato la sua via molto tecnica ed estetica individuando i punti dove preparare le sue soste su naturale a prova di bomba.
Ivan era pensieroso, silenzioso e cupo come stava diventando il cielo in quel momento, non è da lui e la cosa mi lasciò un poco perplesso in verità, mentre preparavo le corde per fare da sicura a Giuseppe.

Dietro di me, su un sasso, Ivan spiegava a Veronica come utilizzare i cordini nelle clessidre e come allestire una sosta senza ausilio di fix o spit e di come a volte essere in quattro su tiri molto delicati può rappresentare un problema…

Giuseppe chiude magistralmente il primo tiro e prepara la prima sosta della via, giusto sotto un tetto che poi avremmo dovuto aggirare per montare su una parete laterale e partire col tiro successivo. La roccia è molto instabile, ma lui salendo più leggero e stiloso di sempre fa sembrare il tutto semplice e sicuro. Unico.

Mi da il segnale, parto cercando di assaggiare prima di ogni movimento la roccia, sembra che non voglia farsi toccare da me, sembra voglia spostarsi, inizio ad essere un po’ teso, qui si muove tutto ciò che tocco, non sono tranquillo e questo non mi piace.

Picchietto col palmo della mano una sporgenza che suona di vuoto, ma che sembra non essere troppo delicata se al posto di “tirarla” la volessi usare solo per appoggiarmi appena e cambiare postura per passare via velocemente quel pezzo troppo delicato per restare del tempo fermo nei paraggi, insomma non era il classico posticino tranquillo dove fermarsi un secondo e studiare la situazione. Appoggio appena il palmo della sinistra ed appena sopra “un televisore a tubo catodico da cinquanta pollici” decide di sganciarsi improvvisamente e di tentare di buttarmi giù. Un grave ERRORE di valutazione!

La mano sinistra resta schiacciata sotto tra il masso e la montagna nel mio vano tentativo di rimettere al suo posto e di non far precipitare al suolo quel gran pezzo ormai diventato troppo pesante da sorreggere, un dolore pungente al mignolo e la roccia che cambia colore diventando di un rosso vivo mi fa capire che ormai devo lasciarmi cadere e con me “la tv”, non posso più fare altro, nessuna scelta.

Coi piedi mi preparo, un colpo di reni ed eccomi appeso nel vuoto a pendolare dopo aver sganciato quella bomba come fossi il B-29 che sganciò la prima orribile arma nucleare della storia. E l’effetto poteva essere ugualmente tragico…

Guardo di sotto profondamente terrorizzato, ma non per ciò che mi è accaduto, ma perché laggiù sulla traiettoria del sasso c’erano Veronica ed Ivan. Ma questo mi verrà raccontato poi da Ivan dopo alcuni giorni, così come la dinamica completa dell’accaduto.

Dall’alto, serafico, Giuseppe annuncia fiero: «Tranquillo Teo, la sosta ha perfettamente tenuto!» «Già, evviva Amico!!!» Dolorante e provato raggiungo la sosta e dopo di me sani e salvi (non mi sarei mai perdonato se fosse accaduto qualcosa a loro) anche gli altri. Il dito della mano sinistra fa molto male (probabilmente è presente una frattura), il taglio sull’avambraccio destro è profondo; Veronica ed Ivan mi medicano con garze ed il solito nastro bianco multiuso per arrampicatori, mentre racconto a Giuseppe l’accaduto.

Decidiamo di proseguire, i tiri successivi sono impegnativi ma la roccia è più compatta e la cosa psicologicamente mi aiuta parecchio perché salendo dopo aver vissuto una caduta del genere non è stato per nulla semplice, la paura di disgaggiare di nuovo era diventata terrore puro. Con un poco di lavoro mentale ed alcune pause durante l’ascesa, sono comunque riuscito a concludere la via che richiederà un’altra sosta ed un’uscita meravigliosa che domina ogni vetta circostante.

Di nuovo tutti insieme, tutti a rimirare un paesaggio difficile da raccontare, meraviglioso e grave, terrificante e rilassante. Il nome che daremo alla via sarà: LA VIA DEI MAGNIFICI QUATTRO.

E non poteva essere altrimenti a conclusione di un’avventura del genere, una cordata magnifica ed una via magnifica.
Le nubi sempre più minacciose, ci fanno puntare dritti verso il primo rifugio a portata e subito ordiniamo birre e vino a profusione parlando della giornata trascorsa e di ciò che è accaduto. Ivan scherza, ma è molto pensieroso, ormai lo conosco e gli voglio un gran bene.

Giunti in valle ci concediamo un ricco aperitivo composto da prosecco e torte fatte ed offerte dall’unica Donna della spedizione, ognuno farà poi ritorno alla propria vita, alla propria casa…

Qualche giorno dopo Ivan mi chiamò per sapere come stavo, più che altro era interessato a come stavo di spirito e di mente e se avevo ben compreso quel che avevo fatto lassù in quei secondi e delle scelte che avevo preso senza pensare, ma solo seguendo l’istinto. «Ivan, ma di cosa stai parlando? Cosa avrei mai fatto? Scelte? Istinto? Ma che dici!!!» «Teo, brutta testa di lampadina che illumina le grotte, non ti sei nemmeno accorto di quello che hai fatto? Testone! Ho visto che hai picchiettato per vedere se la roccia era buona, ma hai mosso quel pezzetto che ha poi sganciato il sasso. La prima cosa che hai fatto, è stata di tentare di rimettere il sasso dentro con la sola mano sinistra, mentre con l’altra tiravi con tutte le tue forze per non cadere giù. Una cosa così non l’ho mai vista tentare da nessuno, solo tu potevi pensare ad una cosa simile, ma so perché lo hai fatto, in quel momento non pensavi a te ma a noi che eravamo sotto…»

«Poi hai fatto una cosa ancora peggiore, sei riuscito ad appoggiare il sasso sul tuo braccio destro in tensione per sostenerlo e poi farlo cadere alla tua destra, altrimenti sarebbe arrivato dritto sulla nostra traiettoria se lo avessi lasciato andare subito, hai rischiato di tagliarti la corda facendo così, oltre che ad esserti aperto l’avambraccio!»

«Certo, mica potevi sapere che mentre salivi io mi ero spostato di venti metri più a sinistra, avevo la netta sensazione che qualcosa sarebbe successo, lo sentivo ed ho dovuto anticipare gli eventi, in modo da evitare il peggio. Più volte ho detto a Veronica di spostarsi da là, ma sosteneva che nessuno e niente le avrebbe mai fatto del male, non quel giorno.»

«Alla fine l’ho convinta ed è stata con me alla sinistra della partenza della via. Quando hai mollato il sasso e ti sei lasciato andare dalla parete cadendo e restando appeso alla corda, ho visto che guardavi la traiettoria del sasso. Hai visto dove si sfracellato in tanti pezzi? Lo hai visto Teo, brutto vecchio millenario che non sei altro? Appena alla destra del sasso dove poco prima eravamo seduti noi della seconda cordata, terrificante.»

 LA MONTAGNA PERDONA GLI ERRORI, NON LE DISTRAZIONI.

Matteo “TeoBrex” Bressan

Placche Bianche

Placche Bianche

Il sole brilla caldo ed illumina la “Valle” nei suoi colori d’inverno mentre alle nostre spalle la città di Lecco ed il lago sono nascosti da un lenzuolo di nebbia. Siamo sopra le nuvole, nascosti allo sguardo della civiltà. Saliamo lungo crinale, camminando tra rocce paglione sul limitare del bosco. Ormai conosciamo la strada attraverso le tracce dei mufloni, attraverso i sentieri che non esistono.

Un’ora e mezza bella ripida e siamo finalmente alla base della Torre Prora: “Guarda che roccia, se fosse a cinque minuti dalla macchina qui ci avrebbero aperto un milione di vie a fittoni!”. Invece al momento ci sono solo due vie note, una che abbiamo aperto l’altra settimana ed una aperta negli anni ‘80 da una squadra di arrampicatori di Saronno. Ivan, come un agente segreto sul web, è riuscito a trovarli e contattare uno di loro. Con grande disponibilità ci ha raccontato la loro salita: era sorpreso, ma forse anche compiaciuto, che Ivan stesse continuando la loro stessa esplorazione.

Eccoci di nuovo qui, a curiosare un altro angolo di roccia sconosciuta. Mentre mi infilo l’imbrago mi guardo intorno osservando la “Valle”. La prima volta che ero stato qui non sapevo neppure esistesse: seguivo Ivan per la curiosità di arrampicare con lui. Ora, dopo quasi un anno, riconosco da lontano le strutture rocciose su cui ho arrampicato, le torri, le valli. Molti di questi luoghi non avevano neppure un nome: abbiamo dovuto battezzarli noi perchè trovassero posto nel mondo della parola, perchè emergessero dall’oblio e diventassero realtà. Non sapevo nulla di questa valle ed ora, curiosamente, sono uno tra i suoi massimi esperti. Fuori sentiero accadono cose davvero strane…

Infilo la corda nel reverso e lascio che Ivan parta. Gli piace il modo in cui racconto le nostre salite: “La nostra pratica può diventare teoria su cui riflettere”. Per il momento non vuole che si sappia dove stiamo arrampicando, non vuole che per imitazione o competizione altri arrampicatori vengano quassù ad aprire o ripetere vie. Gli serve ancora tempo per capire, tempo per spiegare, per ispirare. Non solo  teme l’invasione degli spit in un mondo incontaminato ma soprattutto è preoccupato di come la maggior parte degli arrampicatori contemporanei sia impreparata alle reali ed importanti difficoltà di un ambiente simile. “Se vieni qui pensando di tirare la roccia come in falesia rischi di farti malissimo già al primo tiro…”

Quindi no, i miei racconti sono felicemente denudati dalle descrizioni tecniche, dai gradi, dai dettagli geografici delle relazioni. Un vuoto che va riempito di emozioni e convertito in esperienza. Sulle magliette stampano la scritta “Go Climb a Rock”, ma per via di un curioso fraintendimento tutti sembrano puntare alla stessa roccia: quella su cui hanno messo i fittoni, quella su cui la magnesite e l’unto hanno levigato le prese, quella che devi spicciarti a salire perchè c’è la fila,  perchè buttano giù sassi dall’alto. Quella dove la ragazza con il cappello di lana, identica a se stessa e a mille altri cloni, ha steso la corda in un sacco prima di cominciare a lamentarsi: “non ne ho più… non mi tengo… è un legno… sono ghisata …bella lì …alè duro!!”.

No, non importa raccontare dove arrampichiamo noi, indicare un’altro sasso dove ammucchiarsi. No, importa raccontare che si può davvero arrampicare dove si vuole, seguire le proprie misure, le proprie capacità, la propria curiosità. “Go Climb your Rock”

Certo, io arrampico da secondo con Ivan Guerini, forse per me è facile parlare. Sarei ipocrita se non ammettessi una simile fortuna, specie quando mi spingo ben oltre i limiti delle mie capacità. Tuttavia la mia prima via, aperta dal basso a fettucce (possedevo solo un friend!), l’ho aperta insieme a mia moglie (all’epoca solo morosa) e tutt’oggi rimane una delle più belle salite io abbia mai fatto. Solo poi ho scoperto che, vent’anni prima su quella stessa scogliera, Ivan e Monica ne avevano aperta un’altra poco distante dalla nostra.

La corda smettere di scorrere e finalmente dall’alto Ivan mi urla “Vieni!”. Infilo le scarpe e parto. Ogni torre della “Valle” ha un diverso tipo di calcare, una diversa morfologia e compattezza. Ivan ha rotto le scatole ai suoi amici geologi e ci hanno spiegato che questa disomogeneità è un’altra particolare caratteristica della valle. A volte la roccia fa davvero paura per il modo in cui si spacca ed altre volte, come sulla Torre Prora, è tanto bianca e compatta da brillare abbagliante al sole.

L’arrampicata è tecnica ma lo zaino non mi da troppi problemi. Si lavora tanto sulla punta dei piedi mentre le dita corrono insinuandosi in prese sempre più piccole ma piacevolmente solide. Le piante, in questo bianco mare verticale, sono piccole isole dove riparare, dove fettucciare la corda …dove incastrarsi irrimediabilmente! Le piante sono così, un po’ ti aiutano, un po’ si prendono gioco di te. Senza di loro tutto sarebbe però davvero più complicato: tocca imparare a farci amicizia.

Mi godo la prima serie di placche prima di dover ripiegare in un diedro di massi incastrati. Come un artificiere si deve salire disinnescando i guai, usando il peso in un caledoscopio di piccoli movimenti e correzioni. Sulle placche serviva essere “bravi”, qui serve essere “capaci”. Quando arrivo sotto la sosta mi sposto leggermente verso sinistra per sfruttare un canaletto. “Bravo Biriz, fermati un secondo lì che deve fare una cosa..” Ivan sposta la gamba ed un macigno grosso come un televisore fionda verso il basso direttamente sulla linea di salita che avevo percorso. “Era un po’ che lo tenevo, ma c’eri sotto tu…”. Sì, IvyBoy è bravo e capace…

Appesi ad una pianta studiamo come proseguire verso la cima del pilastro. La via dell’altra settimana è parallela davanti a noi e, da quella prospettiva, mi appare elegante e difficile come forse non mi ero nemmeno reso conto.

Poi Guero riparte, tira un traverso secco di una decina di metri e poi punta verso l’alto inseguendo un diedro e due piante. Il secondo tiro è meno estetico del primo, meno passaggi “tecnici” e più passaggi “impegnativi”. Giunto in sosta non puntiamo alla cima della torre, raggiungibile attraverso una cengia ed una lunga cresta esposta con un passaggio di quinto in discesa. Proviamo invece, sempre legati, a seguire un’altra cengia che discende alle spalle della torre fino ad un ripido canale pieno di ghiaia.

Sono solo le tre del pomeriggio ma il sole d’inverno è già stanco e cerca di riposarsi standosene basso sull’orizzonte: è tempo di andarsene. In un’oretta scendiamo fino alla Birillo-Mobile: abbiamo mezz’ora da spendere in birreria e poi Sguero dovrà imbarcarsi sul treno per Milano.

Dopo un paio di dissetanti medie (io chiare, Ivan rosse) ci ritroviamo alla stazione salutandoci sulla portiera. “Grazie Biriz”, “Grazie a te IvyBoy”, per un secondo rimaniamo in silenzio, poi scoppiamo a ridere insieme: alla prossima!

Davide “Birillo” Valsecchi

Terror Crest

Terror Crest

Ieri io ed il Guerra siamo stati sul versante est del Moregallo, siamo partiti dalla vecchie gallerie abbandonate sul lago risalendo fino alla cima attraverso mille metri di crinale: un viaggio incredibile nel cuore, immenso e sconosciuto, della montagna più selvaggia dell’Isola Senza Nome. Come se questo non bastasse avevo approfittato del sole invernale uscendo in esplorazione praticamente tutti i giorni: ora la fatica sembra volermi presentare un conto salato. Mentre risalgo con il Guero tra le piante del bosco sento lo zaino pesante e la gamba lenta: vado avanti sfruttando il ritmo, sbuffando per inerzia consapevole. Forse avrei dovuto riposare, ma Guero ci tiene tanto a sfruttare queste giornate favoreli …ed in fondo mi ha promesso una cresta semplice. Forse posso tenere duro e fare diligentemente la mia parte.

Il piano però comincia a farsi via via più chiaro mentre ci avviciniamo alla Torre Proibita. La torre è in realtà una struttura molto complessa dove una fila di alte guglie si innalza dal bosco formando un’imponente cresta dentata. Un anno e mezzo fa, insieme a Paolo Console, abbiamo aperto la mia prima via in questa valle: Il Bastone e la Carota. La foto di Ivan sdraiato in sosta su un’albero a sbalzo nel vuoto è l’immagine più iconica di quel giorno. La via risaliva il fianco del torrione più in alto e ci aveva dato modo di osservare la cresta individuandone la via d’uscita. Successivamente Ivan e Paolo avevano aperto due vie sull’alto torrione più in basso ed un mesetto fa, Io e Guero, avevamo risalito la seconda torre attraversando la cresta fino a giungere alla terza. Qui Guero aveva affrontato un tiro assolutamente terrificante raggiungendo la cima della terza torre: quei trenta metri di roccia, in una gelida giornata d’inverno senza sole, mi hanno mostrato chi è davvero Ivan Guerini e di cosa è capace sulla roccia. (“Mozzo di Colombo“)

Purtroppo, alla base della terza torre, comprendo il piano di Ivan e quale sia la cresta, tra le tante fatte, che vuole “completare”. Per un secondo il peso dello zaino vince la mia volontà e mi sdraio a terra osservando il mio precario futuro: “..ma davvero?”. Ivan vuole rimontare il fianco sinistro della cresta, affrontare un’infinito traverso obliquo e raggiungere un diedro canale che, nelle nostre previsioni, risale alle spalle della terza torre raggiungendo il punto in cui Ivan aveva attrezzato la sosta di calata. Se raggiungiamo quel punto possiamo riprendere la cresta e completare la salita fino alla quarta torre e l’uscita di “bastone e carota“.

Se le mie batterie fossero al 100% sarei agghiacciato, ma visto che parto già in riserva non posso che essere tristemente rassegnato. Ivan parte, rimonta una decina di metri verticalmente su roccia mista ad erba e poi ingaggia il lungo traverso verso destra stendendo la corda come una ghirlanda tra le piccole pianticelle che costeggiano la stretta cengia erbosa sovrastata da una piccolo tetto concrezionato. Trentacinque metri di corda stesa ed arriva dentro il canale: “Provo a fare sosta più in alto, cerco di arrivare al sole che qui fa freddo”. Qualcosa non mi torna, forse più probabilmente vuole risalire il canale per evitare di farmi stare in sosta tra i sassi che cadono nel tiro successivo. L’unica cosa certa è che da lassù non può ritirarsi con una calata e che per recuperare il materiale devo per forza chiudere il traverso. Mi aspettavo un canale rognoso, quarto/quinto grado con detriti ed erba ma Ivan sembra metterci più del previsto. Gli vedo piazzare e raddoppiare friend, ma quando sento piazzare uno, due e poi tre chiodi capisco che la faccenda deve essere radicalmente diversa. Le corde, strozzate dalle protezioni, non scorrono più, Ivan sfrutta una piccola pianta e chiama la sosta: ora tocca a me.

Mentre recupera la corsa penso al lavoro, forse dovrei tornare a fare l’informatico, ora dovrei essere in un bel ufficio con le luci al neon e le scrivanie in formica, la tazza di guerre stellari e la macchinetta del caffè. Le riunioni, i colleghi, il capo represso. Un’ora di macchina andata e ritorno, il traffico, la coda. Lo stipendio fisso, i ticket a pranzo per la mensa. Passare il week-end davanti alla playstation, ingrassare serenamente di trenta chili ed aspettare di morire placidamente di infarto nel mio letto. Mio dio, questa potrebbe essere la mia vita, quasi desiderabile!! Ma una vocina interiore mi parla sprezzante come l’ufficiale di “Caccia ad Ottobre Rosso”: “Bravo coglione, prima però devi evitare di ammazzarci su questo cazzo di traverso!”

Respiro, i pensieri sono brusio di fondo, quasi lontano. Il mio presente è fatto di piedi sull’erba e piccole concrezioni sopra la mia testa da affrontare con la schiena arcuata all’indietro. Gli addobbi natalizi sulle pianticelle non reggeranno la severa potatura di un pendolo. Respiro ed avanzo, lasciando che lo stupore trasfiguri il mio equilibrio. Sono alla base del canale e sono già mentalmente bruciato, quello che ho davanti semplicemente mi incenerisce. “Ma sei fuori?! Sguero, tu non sei un terrorista: sei un dannato maniaco! Come accidenti hai fatto a passare!!” Il canale di “quarto” strapiomba, è un incubo di roccia disgregata e terra. “Biriz, se vuoi da qui possiamo calarci…”. Rispondigli di sì, dannazione Birillo, rispondigli di sì!! Ma la realtà è semplice: Ivan vuole vedere questa cresta, è la seconda volta che arriva a sfiorarla dopo aver superato difficoltà che avrebbero annichilito chiunque altro. Se ora sono io a negargliela probabilmente non potrà mai più tornarci, non avrà altri tentativi. Non capisco appieno perchè voglia raggiungere posti simili, forse semplicemente perchè ne ha la capacità, perchè in lui alberga lo stesso desiderio che mi spinge sui fianchi del Moregallo, affrontando difficoltà che per altri sembrano follia. Vivere significa mettere a nudo la propria natura, smettere di nascordersi a se stessi, liberare la propria anima nel cuore della tempesta. “Okay Sguero! Ma sono terrorizzato e devi darmi una mano come si deve questa volta!”.

Una fessura sulla destra mi permette di alzarmi ad incastro fin sotto lo strapiombo, ora dovrei cercare di spaccare per attraversare a sinistra per poi rimontare nuovamente. Ma l’altro lato del canale è un’incubo ed io non so dove andare ad incastrarmi. Vedo il primo chiodo di Ivan, un universale lungo, tutto fuori, infilato giusto di punta e strozzato con un cordino. Una parte del mio cervello è in preda ad una crisi isterica: nella mia testa omini terrorizzati corrono strillando per tutta la plancia di comando, solo un paio di bastardi senza gloria sembrano intenzionati a riportare in porto il Titanic. Azzero su quel chiodo con il terrore che mi schizzi in faccia prima di buttarmi di sotto: la corda gira attraverso un paio di friend messi in asse ma fortunatamente è abbastanza dritta perchè Guero possa aiutarmi. Schiodo ed il mio viaggio della speranza riparte fino ad afferrare con due dita l’anello del piccolo friend giallo verticale in una sottile fessura terrosa: si dice ancora azzerare quando appendi la disperazione ad un friend?

Il mio presente diventa troppo complesso, il cervello smette di registrare gli eventi ed investe tutte le sue risorse nell’azione pura. Due movimenti, di cui non ho memoria, e sono finalmente in sosta. “Bravo Biriz! Sotto era “ottavo”, il movimento verso sinistra forse “nono” ed il tratto d’uscita “settimo più” su erba”. Io mi guardo intorno come un naufrago incrostato di sale approdato su una spiaggia deserta e lui si mette a dare i numeri… sono sempre state così le mie giornate tipo?

La sosta è una pianticella che sembra essere cresciuta bucando la buccia della roccia, poi abbiamo un friend in un buco ed un paio di chiodi. “Vedi Biriz, te lo dicevo che era una bomba la sosta!” Mancano una decina di metri alla cresta ma sono tutti sopra la mia testa: “Avrei voluto uscire più sopra ma le corde non scorrevano più. Dove c’è quella piccola pianta ci deve essere la clessidra passante”. Quando Guero aveva risalito la terza torre dall’altro versante aveva trovato una lunga clessidra, passante e verticale, larga quanto un polso.

Guero riparte, si alza e compie un paio di movimenti. Poi appoggia la mano su uno spuntone, il suo corpo sembra attraversato da una scossa elettrica ed il suo movimento successivo diventa insolitamente rapido e scattante: “Biriz, quando arrivi qui non toccare questo spuntone”. Incuriosito osservo quel grosso pezzo di montagna, immobile a sbalzo nel vuoto sopra di me… cos’era quella scossa? Una percezione fisica o mentale? Lo avrà davvero toccato o solo sfiorato?

“Qui è più duro ma più solido”. Ivan infila le mani ad incastro nel diedro e si alza verticale. Il concetto si solido è assolutamente relativo e sporco di terra, ma finalmente, quasi trionfante, raggiunge la piccola frana consolidata ed il chiodo su cui si era calato l’altra volta.”Sosta Biriz! Sosta!!” La paura è un sentimento strano, quando non riesce a travolgerti è costretta a trasformarsi in rassegnazione, qualcosa con cui sembra persino possibile convivere. Quello che conta ora è uscire dal canale e scoprire se davvero la cresta è “piacevolmente” a gradoni così come aveva promesso Ivan.

A cavalcioni della cresta percepisco tutto l’immenso vuoto che ci circonda. Il tiro sull’altro versante della terza torre è spaventoso, non riesco nemmeno a sporgermi per scattare una foto. “Biriz, ora seguo la cresta fino a quell’albero, poi quando smonti la sosta prova a recuperare quel chiodo lassotto.” Ivan parte sulla cresta, la roccia fa lo stesso rumore delle piastrelle e si sgretola crollando lungo i lati riempiendo l’aria di un profumo tipico. “Non mi piace buttar giù sassi ma questa volta se non lo faccio può essere pericoloso per la corda”. Il fragore riempe la valle, forse è solo una sensazione ma tutta la cresta trema sotto le mie dita.

La corda corre lungo gli spuntoni della cresta per poi sfilarsi sul lato sinistro rimontando di lato un piccolo pilastro. Per schiodare il vecchio chiodo di Ivan dovrei distendermi a testa in giù oppure appendermi nel vuoto affidandomi completamente alla corda. Ma se la corda scavalca gli spuntoni rischio di fare trenta metri di pendolo sull’altro lato della cresta. “Ivy, recupero il cordino di calata ma il chiodo se vuoi te lo pago: io non vado laggiù a riprenderlo!” Ivan trenta metri più sopra ride, io smonto la sosta e parto lungo la cresta.

Abbiamo fatto un lungo viaggio per giungere fin quassù e quello che vi abbiamo trovato infrange ogni mia possibile aspettativa. La cresta è meno impegnativa del canale ma qualità della roccia, così profondamente spaccata e scomposta, la rendono altrettanto spaventosa. “La cresta del Terrore, ecco come chiamerò questo dannato posto!”. Mancano due o tre tiri per uscire: io non devo cadere, lei non deve crollare. Aggiro le cornici nel vuoto e cerco di muovermi sulle parti verticali senza tirarmi addosso niente. Nella mia testa la voce di un amico si manifesta come una domanda semplice: “Come fai ad arrampicare su roccia così?” Io mi guardo la punta del piede sinistro cercando qualcosa di solido su cui appoggiarmi “Semplice, devi trovare i punti che sembrano migliori e convincerti che siano solidi: solo se ti convinci che possono tenere allora potranno farlo per davvero”. Una verità inverosimile che diviene la sola certezza a cui potermi aggrappare.

Un tiro, due tiri, finalmente sulla cresta l’erba si fa più frequente ed appaiono le “fatte” dei camosci: Siamo fuori!! Un ultimo tratto tra rocce e piante e finalmente siamo nel bosco. Ivan inizia ad insaccare diligentemente il materiale mentre io mi sdraio a terra sull’erba con le braccia e le gambe larghe. “Oh Ivy! Questa volta è stata davvero dura! Questa volta me la sono fatta sotto dall’inizio alla fine!” Parlando della qualità della roccia della cresta finale gli racconto con autoironia del mio dialogo interiore sulla volontà che sostiene gli appigli. Lui però mi risponde serio: “Ci sono componenti psicologiche fondamentali in un’arrampicata come questa. Ci vuole un animo intimamente delicato per arrampicare su roccia simile” All’improvviso sembra di ascoltare un maestro di arti marziali “Animo delicato non significa cedevole o arrendevole, significa che possiede la sensibilità necessaria per trasformare la forza in delicatezza. Tu forse non te ne rendi ancora conto ma non è così scontato il modo in cui ti ribalti, il tuo ruotare gli appoggi e spingere anziché tirare. No, quella di oggi era una salita decisamente impegnativa.”

Una strana quiete ci avvolge mentre ridiscendiamo nel bosco. Non provo più fatica o paura, ogni difficoltà sembra ora distante, tanto sulla montagna quanto nella vita quotidiana. Non ho idea del perchè faccia tutto questo, il senso ancora mi sfugge sebbene ogni cosa attorno a me si muova per assecondarlo. Posso davvero oppormi?

Davide “Birillo” Valsecchi

Nelle vibranti e libere corse sulle rocce tormentate, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento, con l’azzurro, nella dolcezza un po’ stanca dei delicati tramonti, ritrovavo la serenità e la tranquillità. E l’ebbrezza di quell’ora passata lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere sufficiente a giustificare qualunque follia. (Giusto Gervasutti)

Addobbi Natalizi

Addobbi Natalizi

Vagabondiamo per un’oretta attraverso il bosco ma ormai, girovagare fuori sentiero con lo zaino pesante, è diventata la parte rilassante della giornata. Il sole caldo ci accompagna tra gli alberi e per la fatica arranco sudando in maglietta nonostante sia il mese di Dicembre. Ahimè, a furia di sfacchinare sono diventato bello stagno ma non c’è stato modo di smuovermi dagli 84kg: volevo diventare una ballerina ma resto un “tank” …cocciuto, pesante, corazzato.

Quando in lontananza cominciamo a vedere la parete innalzarsi oltre gli alberi inizio a preoccuparmi: “Ivy …è alta come l’antimedale! Con le giornate così corte non credo si riesca ad uscire in alto..” Ma Sguero non è preoccupato, la nostra è soprattutto una ricognizione. Questa struttura, a cui in effetti non abbiamo ancora dato un nome, è la più lontana da raggiungere, anche più lontana della Torre Prora: non sappiamo come sia, non sappiamo neppure se sia possibile salire. Tuttavia ormai conosco bene Ivan: qualcosa faremo lo stesso!

Dal basso la parete appare di roccia ottima, Ivan dice che assomiglia a quella dell’Avorio, sulle bastionate del lago. Ci sono grandi placche, pilastri ed alti diedri. Dalle spaccature della roccia, come selvaggi tentacoli alieni, emergono coriacei e ritorti alberi di Rubinia(?) aggrappati al calcare contro ogni apparente logica. Il loro tronco è grosso, deformato in forme contorte e vive, più simili a quelle di una creatura marina che a quelle delle piante da giardino. Mi piacciono le piante. Tempo fa ero diventato “famoso e famigerato” per aver abbracciato le piante di Asso scongiurandone l’abbattimento, spero che queste loro cugine ora abbraccino me evitando di farmi cadere!!

“No, il sole si sta già nascondendo” mi dice Ivan “Non abbiamo abbastanza luce per uscire in cima. Proviamo ad arrivare al grande cengione che c’è a metà, poi ci caliamo in doppia seguendo quelle piante”. Calarmi in doppia non piace molto: statisticamente i più grandi arrampicatori della storia ci hanno lasciato la pelle proprio durante questa manovra ed io, onestamente, non sono neppure un grande… Tuttavia, visto il piano, posso lasciare lo zaino alla base e concedermi il lusso di arrampicare “leggero” (mica roba da niente!)

Ivy si insinua come serpente in un diedro verticale scivolando tra le pieghe della roccia fino ad appoggiarsi come un boa ai rami di una grossa pianta. Se non avessi le mani occupate a manovrare la corda che gli fa sicura dovrei farlo un video e mostrarvi come accidenti si muove “kundalini” mentre esplora verticalità ignote. Ancora oggi è qualcosa che riesce a stupirmi, qualcosa che però bisogna “vedere” per poi istintivamente “imitare” quando poi ci si trova nelle difficoltà. Non lo trovi su YouTube uno che si muove come il Guero, ed è un vero peccato!

Guero supera il diedro, rimonta l’uscita proteggendo a friend e si infila in una serie di massi prima di scomparire al di sopra di una placca ancora illuminata dal sole. Io, all’ombra imbacuccato nel giubbotto di piuma d’oca, mi sento come mio fratellino quando lo portavamo a giocare a calcio: avrei voglia di sedermi in mezzo al campo e fare mucchietti con la terra. Sono stato al Moregallo ieri, ho curiosato in solitaria tra i misteri del versante Est. L’incertezza di affrontare la roccia riaccuisce la stanchezza e la tensione. Tolgo la giacca, infilo le scarpette, appoggio le mani sui primi sfuggenti appigli: “Cominciamo!”.

Il diedro iniziale sembrava repulsivo ma senza zaino il baricentro sembra nascondersi nello strapiombo e le prese, per quanto non proprio comode, bastano a darmi la giusta stabilità. Se non dobbiamo uscire in cima posso andare anche un po’ più lento del solito, posso concedermi qualcosa in più nello scegliere i movimenti. Afferro la pianta e mi isso tra i suoi rami: assomiglio più a King Kong che a Kundalini ma va bene lo stesso… In piedi, comodamente sui rami, mi sembra di essere sulle zanne di un grosso elefante.

Il passaggio successivo il diedro si fa ad incastro salendo con i fianco destro e sfruttando le prese e gli incastri a sinistra, poi, a metà dell’azione, c’è un cambio completo di fronte in cui si inverte il fianco e tutte le prese per uscire fianco sinistro sul lato destro. Guero, in quel punto, mi era sembrato uno dei “MastersOfUniverse”, uno di quei mitici giocattoli snodati degli anni 80. Tutta la parte superiore del corpo era rimasta immobile, incastrata ed ancorata nel diedro, le gambe invece avevano lasciato i loro appoggi e si erano quasi distese verso il basso prima che il bacino ruotasse completamente assumendo le nuove posizioni. Poi era stata la volta del tronco: prima si è assottigliato allungandosi verso l’alto, accorciando le spalle, per poi ruotare nelle nuove prese e nei nuovi incastri. Il respiro del serpente che si avvolge…

King Kong ha invece girato il bacino con la stessa rigidità plastica di “He-Man” ma è poi riuscito a risdraiarsi dentro il diedro uscendone scalciando e sbuffando. Ma se quello era un passo tecnico il difficile è appena dopo, quando tra fessure e sassi incastrati, raggiungo Ivan alla pianta su cui fa sosta. “Naaa… Ivy, accidenti! La parte più difficile è sempre quella che sembra più facile!”

Il secondo tiro è strano, rimonta una spaccatura guadagnando la base di una bellissima placca compatta. A quel punto si deve però seguire in un traverso una sottile cengia coperta di foglie prima di poter entrare sulla placca attraverso uno scivolo verticale che risale fino a diventare un diedro a placche parallele. “Ecco Birillo, siamo nel traverso marocchino!” Per un istante il caldo invernale mi trasporta in qualche paese esotico dove il traverso, ora un mercante arabo di un Suq affollato di foglie, cerca di imbrogliarmi incantandomi con i suoi profumi d’oriente. “Birillo, se scivoli e pendoli vai a dare un’occhiata alla parete che c’è dall’altra parte della montagna!” I piedi sono un po’ precari ma le prese per le mani sono piccole ma eccezionali. La punta della dita esplorano la roccia, scostano alla cieca la terra e la polvere accomodando il grip, poi si serrano consapevoli e compiaciute del loro ruolo chiave in quel balletto.

Rimonto la placca e mi infilo nel piccolo diedro: una struttura alquanto curiosa. Di rimpetto alla placca una colonna di sassi impilati forma l’incrocio dei due piani separata da una profonda fessura, che il realtà è lo scollamento della colonna dalla placca. L’esterno della colonna si sfalda in grossi blocchi ed è quindi intoccabile. Mi ritrovo con i piedi in appoggio opposizione a destra sulla placca solida, il braccio destro, con il palmo rivolto verso di me, che di sbieco a sinistra traziona l’interno della colonna mentre il braccio sinistro, disteso verso l’alto, cerca di tenere il corpo quanto più possibile all’interno del diedro per non sollecitare troppo la colonna.

Una posizione faticosa, curiosa, statica, ma solida. Trasoformarla in dinamica riuscendo a farla camminare verso l’alto è stato piuttosto curioso. Fortunamente, prima dell’uscita, una bella presa mi ha permesso di rigirare le anche e salutare il diedro senza dovere abbattere a calci la colonna. La bella ed appigliata placca finale, inondata di luce, era una piccola e piacevole ricompensa per l’impegno nel piccolo diedro.

La parete si perde in una ripida cengia erbosa piena di piante (persino pini) prima di ricominciare a salire verticale. “Che bello qui! Guarda che belle pareti si nascondevano quassù!” Per un istante ho la tentazione di continuare a salire, ma il sole è basso all’orizzonte e sembra volere correre a nascondersi. Così facciamo un traverso di una trentina di metri lungo la cengia fino ad un piccolo sperone. “Però un’occhiata vado a darla!” Confessa divertito Ivan mentre gli faccio sicura sullo sperone. Rimonta fino ad una piccola pianta, poi raggiunge una seconda e si alza sul passaggio chiave superandolo. “Da qui in poi le difficoltà si abbattono e piano piano appoggia fino a raggiungere le piante: venti o venticinque metri”. Sarebbe uno spettacolo raggiungere anche il successivo bosco pensile ma il tempo corre e la luce si affievola. Sguero pianta un chiodo, uno che canta, lo lega con un cordino alla piccola pianta e si lascia calare mentre recupera friend e fettucce.

Dalla pianta a cui siamo appesi lo calo fino al bordo della cengia, il margine della parete. Attrezza un’altra sosta su una pianta a sbalzo e mi cala a sua volta. Quando lo raggiungo mi trovo davanti tutta la verticalità della parete: “Accidenti, ma basta?” La nostra singola da 60 è la scelta migliore per gli ingaggi da combattimento in cui ci infiliamo, tuttavia un paio di gemelle da 60 farebbero davvero comode per ritirate come questa. “Non so, ti calo e vediamo” Mi dice divertito Ivan. Quando sono con il culo nel vuoto parte la solita scenetta “Chissà se la pianta regge il tuo peso…” “Ivan!! Per Dio, guarda dove accidenti sono! Lasciami in pace e calami piano!!”

Piano piano scendo, spostandomi sulla parete affinchè la corda non sfrisi contro la roccia. “Metà! Biriz dove sei?! Quanto manca?” Ovviamente la corda finisce sempre quando giri appeso in una nicchia sotto un tetto. “Ivy!! Mancano quattro metri! Sono nel vuoto e mancano quattro metri!”. Ivan mi cala e finalmente raggiungo terra. La calata è di trentacinque metri, la corda da sessanta, quindi niente doppia: al vecchiaccio tocca frazionare mentre io mi reinfilo le scarpe comode! Sguero si cala e prima del tetto pianta un buon chiodo che raddoppia con un vecchio nat usato che ci è stato regalato (il materiale qui inizia a scarseggiare!!) Gira le corde e starnazzando divertito come un bambino che gioca sull’altalena discende i dieci metri che ancora ci separavano. Nuovamente insieme ci stringiamo la mano con assoluta mancanza di serietà ma sincera soddisfazione ed amicizia. “Bene! Bene! Bene!”

Insacchiamo la corda e ci rinfiliamo nel bosco mentre la luce continua ad affievolirsi. Sancho Panza e Don Chisciotte, Gianni e Pinotto, Stalio ed Olio: ancora una volta la strana coppia si muove attraverso la boscaglia puntando determinata verso la terra promessa: la birreria. “Sai Sguero, tutto questo però non è normale: ogni volta usciamo, andiamo ed apriamo una nuova via in qualche posto sconosciuto. Gli altri non fanno così, nessuno di quelli che conosco fa così: davvero, non è normale!!” Ivan divertito saltella tra le foglie come un folletto arancione: per lui è normale, anzi, probabilmente è la sola normalità che conosce. Questo è il suo modo di essere libero. Ed io? Io non lo so, io temo che fra un po’ sembrerà normale anche a me, anzi, sarà la sola normalità possibile.

Davide “Birillo” Valsecchi

Gigi Cadorna

Gigi Cadorna

1-dscf7309Quando apro gli occhi nella mia testa inizia a suonare la sigla di Bojack’s HorseMan: il suo ritmo galleggiante, i suoi suoni ovattati ed i suoi slanci di Sax guidano i miei pensieri mentre assente cerco di svegliarmi. Bruna sta preparando il caffè mentre la mia realtà scorre ondeggiante davanti ai miei occhi ancora a mezz’asta. Bruna appoggia un bigliettino accanto alla mia tazza: è il suo calendario dell’Avvento per me, ogni giorno una piccola poesia. Già …e nella mia mente la musica continua a suonare: se non avete mai sentito la sigla di Bojack dovreste ascoltarla, è roba potente, può cambiarvi la giornata. (Bojack’s HorseMan MainTheme).

Due ore più tardi siamo io, Bojack e Sguero avvolpacchiati al caldo sole di Dicembre mentre un tripudio di luce irrompe sui colori caldi dell’autunno e sulla roccia intensamente bianca. La musica continua a suonare nella mia testa e l’universo mi scivola attorno nella più assoluta serenità. Davanti a noi la grande Valle Proibita mostra in un dipinto d’insieme tutte le sue strutture rocciose, i torrioni e le bastionate che abbiamo esplorato in questi lunghi mesi. Un curioso compiacimento saltella tra i miei ricordi mentre riconosco le varie vie e le varie esplorazioni fatte. A volte serve un certo distacco per riconoscere la meraviglia in cui si è immersi: “Ma dai… ma guarda che accidenti abbiamo fatto! Non mi pare neppure vero: guarda che bei posti visti da qui!” Già, perchè da vicino spesso erano stati piuttosto inquietanti…

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Io continuo ad oscillare la testa rapito dal suono del Sassofono mentre Sguero mi indica una bella muraglia bianca, un piccolo tetto rimontato da una spaccatura verticale netta ed intrigante, che si perde in uno sbuffo di concrezioni come zucchero caramellato sul compatto calcare bianco. “Birix, facciamo questa fessura. La roccia è assolutamente compatta e possiamo forzare un po’ il grado, così a Valmadrera non potranno più dire che sei bravo solo nella mastrufolata”. Ivan ride, io anche. La mastrufolata è l’antica e segreta arte di arrampicare aggrappandosi ai ciuffi d’erba. Io onestamente sono cintura nera in questa disciplina ninja e, ve lo garantisco, questo mio talento mi rende molto più orgoglioso di ogni tecnica avanzata di arrampicata ad incastro fino ad ora appresa.

Sguero parte innalzandosi sotto il tetto ed incastrandosi con i piedi a rana sotto l’imbocco della fessura. Io e Bojack, sempre accompagnati dal Sax, siamo appoggiati comodamente al sole manovrando con il reverso. Fosse per me avrei fatto il giro, ma le fessure ad incastro sono il pane di Guero, e lui sale con la solita classe e disinvoltura. Io, in qualche modo, cercherò di passar sù, ma per il momento sono ancora immerso nella rilassatezza più profonda: oggi niente cose terribili, oggi giornata di relax.

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Poi tocca me …e la mia rana sembra più un rospo. Nel mio zaino ho le mie scarpe, quelle di Sguero, e probabilmente anche gli zoccoli di Bojack: sbandiero come un disperato ma nulla riuscirà ad incrinare la mia quiete interiore. Nei due metri centrali della fessura c’è però da galoppare perchè il passo è una legnata fisica sulle braccia senza troppe scappatoie per i piedi. Spingo, sbuffo, sbraccio, ma in qualche modo approdo alla spiaggia di concrezioni caramellate. Salvo. Già, il Sax riprende a suonare ed io a ballare con la punta dei piedi sui graspoli concrezionati. Il sole illumina ogni cosa: forse è vero, a volte l’arrampicata è anche rilassante (quasi piacevole come una mastrufolata sulle pendici del Moregallo …quasi)

Il tiro successivo è un muretto seguito da un piccolo traverso tra le “fresche frasche” (leggisi: rovi) che conduce alla base di un diedro ragguardevole. Ivan si ingarella, si incastra, si alza e prova friend che saltano come trottole impazzite ogni volta che li carichiamo. Già, perchè Sguero non solo riesce a tenere posizioni impossibili, ma mentre lo fà carica anche i friend in modo che io possa testarli mettendo in tensione la corda. Il cuore del diedro si sbriciola ed i friend volano allegri mentre il mio vecchiaccio se ne resta ben saldo al suo posto. Visto che i friend non stanno passiamo ai chiodi: il guaio è che entrembi i due folti mazzi di chiodi li ho io all’imbrago e quindi iniziamo un piccolo numero da circo acrobatico, con tanto di lancio dei coltelli al trapezio. Ci vogliono un po’ di tentativi, i chiodi volano un po’ da tutte le parti sulla nostra cengia erbosa, ma alla fine il “Nostro lassù” è finalmente adeguatamente rifornito.

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Dopo il diedro è la volta di una bella cresta tonda: “Birix: aspetta che provo a trovare un passaggio che sia un po’ meno marcio” Appeso ad una pianta, con un filo d’erba tra le labbra, sospiro serenamente rassegnato: “Beh… quindi comunque vada: marcio è marcio…” Cosa volete farci: fessura da collezione, diedro intenso ma solido, come poteva finire se non in vacca sul muschio che tiene insieme la roccia? Splende sempre il sole nella NoSpitValley…

Finalmente sulla cima ci abbandoniamo al sole ben comodi sulle rocce. Siamo in anticipo e per una volta ci godiamo il panorama chiacchierando tranquilli con i piedi a ciondoloni “Hey Sguero, ma lo sai che l’altra sera gli AsenPark mi han fatto saltar su sulle cassette impilate? Ma anche ai vostri tempi facevate ‘sti giochi da mona?” Pare che alcune cose non cambino mai… Approposito: lo sentite anche voi questo suono galleggiante accompagnato da un sassofono?

Davide “Birillo” Valsecchi

Alla Torre Prora

Alla Torre Prora

birillo«Un posto era tanto più attraente quanto più difficile era da scovare sulla carta geografica» – Todd Skinner. Il sorriso di Ivan appare tra la folla di studenti che lascia la stazione ferroviaria. Sembra un rituale ed anche la mia è forse un’altra giornata di “scuola”. Lo osservo avvicinarsi con il suo zainetto arancione e mi chiedo se il mio sia un corso “avanzato” o per “ripetenti”. Quello che facciamo insieme sembra così diverso, privo di punti di riferimento o confronto posso solo insistere in questa nostra strana avventura. All’età di quarant’anni sono nuovamente uno studente spinto dalla mia innata curiosità: forse davvero non male…

Ancora una volta avanziamo fuori sentiero, tra prati, rocce e piante sul vuoto. “Devi ringraziare tuo papà da parte mia: se da bambino non ti avesse abituato a muoverti in posti simili non potremmo esplorare insieme questi luoghi.” Sono il figlio di un cacciatore, la corda ho imparato ad usarla da piccolo, andando a pesca nel Perlo o nel Rio Avanza. Sono un figlio della foresta e delle “crete”: i miei problemi iniziano quando le pareti si fanno troppo lunghe, troppo esposte o troppo verticali.

dscf7052Finalmente arriviamo alla base della Torre Prora, un’altro spazio bianco sulla mappa dell’arrampicata lecchese. Nell’esplorazione non è possibile darsi degli obbiettivi, porsi delle finalità: ancora non sappiamo se sia possibile salire, come sia la roccia, quali siano le difficoltà. Forse saremo costretti a rinunciare direttamente all’attacco, forse dovremo dare dare battaglia per fuggire dalla parete, o forse troveremo una linea e guadagneremo la cima. L’incertezza è il primo ostacolo da superare, la prima difficoltà da accettare.

Sguero trova un punto da cui provare a salire, ci imbraghiamo e parte. Io come sempre mi guardo intorno, cerco punti di riferimento e nomi noti con cui triangolare il punto in cui ci troviamo. Nella mia mente la situazione è brutalmente chiara: “Torre Prora… questo nome ce lo siamo inventati noi: Birillo, non si può chiedere aiuto se non puoi indicare neppure dove sei. Nessuno può aiutarci, siamo soli quassù.” I suoni della città ci raggiungono ma noi siamo isolati nelle terre selvagge.

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La roccia sembra buona, grandi placche che rimontano sinuose. Sguero raggiunge un piccolo tetto con un’uscita su lama verso sinistra. Piazza le sue protezioni e fa la sua magia passando oltre. Superato il tetto cerca di rassicurarmi a modo suo: “Sembra il tetto di Apache in Antimedale… però senza chiodi!”. Chissà, forse è convinto che io Apache l’abbia fatta… L’ambiente del primo tiro però ricorda le poche vie in antimedale che ho fatto con Mattia, tuttavia da quelle parti non credo ci siano vecchi televisori da 14 pollici appoggiati sulle placche: “guardare ma non toccare”.

Il passaggio sotto il tetto è tosto, con il petto in appoggio e le mani che scorrono all’altezza delle ginocchia verso sinistra: senza il supporto psicologico della corda non credo riuscirei a muovermi. Forse è anche per questo che quando raggiungo Guero sono un po’ confuso: “Ma Ivy, quella sosta regge?” “Certo, sono due sassi incastrati: se la tiri da questa parte è solidissima, se invece tiri dall’altro lato cioccano. Se ci attacchi le staffe è A3”. Okay. Mi abbasso di un metro e giro una fettuccia attorno ad una pianticella ed attacco una seconda lounge: “Così, giusto per sfizio, non perchè non mi fidi…”

dscf7090Il secondo tiro invece è da “fight club”. Si rimonta la lama di un pilastro di dubbia stabilità in cui una rosa canina, da tronco secolare, sembra volerci mettere del suo per spingerlo di sotto. Il passo però è obbligato perchè la placca sottostante è verticale e coperta di terra: “Ivan, recupera un pochino che qui me la faccio sotto!” Riesco a rimontare e quello che mi ritrovo davanti è anche peggio (ma fortunatamente decisamente solido). Il tetto si apre in una fessura ruvida e concrezionata su cui muovere il passo per poi afferrare una lontana ma solida lama sulla destra. Ivan ha protetto con un bel fried grande ma ad incastro si è demolito le mani sulle concrezioni.

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L’alternativa è tra un passaggio molto duro e tecnico oppure un pellegrinaggio tra cumuli di rocce spaventosamente ammassate sul vuoto: “IvyBoy, qui strapiomba di brutto! Com’è la sosta?” “Tranquillo, è una bomba!”. Con le dita della destra tengo dall’alto una fessurina sotto il tetto e mi allungo oltre lo strapiombo. Con la sinistra infilo le dita dentro una fessura orizzontale ed alzo i piedi quanto più riesco sotto il tetto. Respiro, respiro. Poi stacco la destra e con una bracciata verso l’esterno le faccio superare il tetto ed esplorare l’interno della fessura concrezionata. L’incastro non mi basta, afferro una piccola concrezione e cerco di caricare il peso sulla sinistra provando ad alzare un piede. Respiro, cazzo se respiro. Soffio, mollo la concrezione e provo a spingere sul piede sinistro allungando tutto il fianco destro in cerca della lama più sopra. Non ci arrivo, devo spostare ancora il barricentro verso sinistra per pinzarla in verticale. Soffio, dannazione se soffio! Mi chiudo piccolo mentre cerco di recuperare i piedi con un movimento continuo. Sono quasi fuori, tutto sulla mano sinistra mi allungo ancora fino a prendere la lama, finalmente di piatto, finalmente con tutto il braccio appoggiato alla parete: “Uffff… accidenti”

dscf7095“Bravo Dado! L’hai tenuta in orizzontale, guarda che avambracci ti sono venuti!” La presa è buona, riposiziono piano i piedi e mi alzo con calma. Poi lo raggiungo ed osservo la nuova sosta: ”Ma davvero? Ivy questo ciocca in tutte le direzioni?!” Non gli lascio il tempo di spiegarmi per quale strana legge fisica quell’accroccio dovrebbe tenere. Mancano quattro metri di marcio prima di un un bel boschetto pensile pieno di grandi piante “Per come stiamo messi qui tanto vale che vada avanti io sto tiro!” Ivan ride divertito e mi lascia andare felice. Alle piante mi appendo finalmente a riposare ad un solido tronco e recupero il vecchiaccio.

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“Da qui si va in cresta quasi camminando” Ivan attacca al mio imbrago i friend più grossi e riparte verso la cima. La cresta, salvo un saltino roccioso di quinto (da fare in discesa), è percorribile facilmente fino al colletto. Seduti insieme sul prato ci riempiamo di pacche e strette di mano osservando la parte terminale della val Trecciola che risale verso il crinale che collega la cima Paradiso ai Resinelli. “Ivy, sai che tempo fa ho scattato dall’alto delle foto di questo posto? Ma sai che siamo davvero fuori dal mondo?” Lui se la ride divertito. Insacchiamo la corda ed iniziamo felici la lunga discesa verso casa.

Davide “Birillo” Valsecchi
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Avventura ed Esplorazione

Avventura ed Esplorazione

ivan-gueriniVi siete mai chiesti che differenza ci sia tra Viaggio, Avventura ed Esplorazione? Tra Esplorato ed Inesplorato? Personalmente non avevo mai avuto motivo di chiedermelo fino al momento in cui questa domanda si fece per me così importante da diventare un balcone da cui osservare un panorama del tutto sconosciuto.

Solitamente quando si pensa all’Esplorazione degli spazi sconosciuti balzano alla mente gli ostacoli principali che li contraddistinguono: solitudine in isolamento, fatiche spropositate, rischi, pericoli, tentativi ed anche tragedie.

In trent’anni d’attività esplorativa di tanto in tanto mi sono domandato come mai escursionisti, alpinisti e arrampicatori così difficilmente si recano in un bosco, lungo una valle, sul fianco d’un monte in mancanza del sentiero. Ed abbiano sempre bisogno del sentiero o di un itinerario attrezzato come incentivo.

Pensandoci bene l’idea d’Esplorare è oggi più che mai “fuori percorso” dalla maggioranza dei punti di vista. Costeggiata dal pensiero meditativo dei Viandanti non interessa nemmeno ai Pellegrini un tempo impegnati a seguire un percorso lastricato dalla certezza d’una Fede. La stessa certezza che staccatasi per Laicismo da essa è diventata prima Escursionismo e poi Trekking. Tutte forme di cammino che persino gli Atei eseguono in maniera inconsapevolmente religiosa ben sapendo che, pur senza necessità d’espiazione ed avendo fiducia nel sacrificio della fatica, essa li condurrà a una qualsiasi Mèta. Tale cerchio ideologico ha occorso da sempre a chiudere l’individuo di là da una comprensione percezione più universale della Natura in cui agisce.

La memoria che lega i più all’Esplorare è rinchiusa nell’immagine di uomini sudati, che procedono a fatica con abiti lisi in un punto imprecisato d’una foresta, tormentati dai moscerini di innumerevoli disagi, sprofondati fino alla cintola in situazioni scomode, ed ovunque ammaccati dalle insidie.

Per la maggioranza d’oggi la parola Esplorare [in senso stretto] non ha valore poiché associa l’esser “fuori sentiero” alla pratica del Survivor, la pratica di chi si avventura fuori sentiero non per conoscere ma per provare a sopravvivere testando la propria autonomia nei disagi, il più delle volte contenuti dai mezzi.

Certo un tempo Esplorazione ed Avventura erano come le due parti della stessa medaglia. Invece ora chi si Avventura, pur trovandosi fuori sentiero, vive il Mondo in cui agisce in funzione all’accumulo di sensazioni della propria esperienza personale, e lo fa trovandosi suo malgrado sulla fatidica pista che combatte ostacoli perseguendo una Prova. Mentre invece, quando si Esplora, ci si inoltra per addentrarsi senza certezza di Scoprire.

Una cosa è Esplorare per conoscere il Mondo, altra cosa è Avventurarsi rispecchiando nel Mondo l’orgoglio della proprie Esperienze. Purtroppo, se questo inapparente frainteso non decade nel secondo caso il Mondo lo si calpesta ma non lo si percorre, e ci si realizza ma non lo si conosce. Al traguardo d’ogni risultato si è premiati dalla statuetta d’una Gioia caduta e andata nei mille pezzi di una felicità irraggiungibile. Frantumi di soddisfazioni e meriti a brandelli.

Cosa caratterizza i due intenti? Se è vero che “il falegname ed il poeta non vedono un bosco allo stesso modo” (Galimberti) affrontare la propria insensibilità è d’importanza fondamentale per vivere un’esperienza non circoscritta a se stessa che chiuda l’individuo fuori dalla percezione sovraterritoriale del luogo in cui agisce.

Cercando di individuare il senso dell’Esplorazione, le intenzioni che spingono a praticarla ed i punti di contatto sostanziali tra i differenti punti di vista dei modi d’intenderla, si evidenziano le discrepanze etiche che muovono a considerare l’Esplorazione (delle zone effettivamente sconosciute) stessa cosa dell’Avventura (del servirsi dei luoghi per provarsi).

Ciò che differenzia l’Esplorare dall’avventurarsi, è il fatto che quando ci si Avventura si affronta una situazione soggettivamente sconosciuta (che un individuo prova in se e identifica in quello che fa) mentre invece quando si Esplora ci si addentra in una condizione oggettivamente sconosciuta ed (uguale per tutti) che caratterizza le zone realmente Inesplorate.

Ecco perché praticare una propria esperienza in un qualsiasi luogo o la salita di un itinerario attrezzato può essere un’Avventura interiormente grandiosa ma non è detto che ciò corrisponda all’Esplorazione grandiosa del Mondo.

Ciò fa subito considerare che l’Esplorazione esula dal concetto di itinerario, e quindi Inesplorato è soprattutto un luogo mai percorso più in relazione al Territorio che alla Geografia.

E’ anche vero che non molto si è detto a proposito del valore che ha l’inesplorato che da sempre precede ogni forma d’avanzamento esplorativo: un territorio inesplorato è caratterizzato dalla mancanza di definizione geografica e di precedenti storici, altrimenti non sarebbe tale, lambito dal mondo conosciuto è oggi scrutato dai rilevamenti della geografia satellitare.

Lo si comprende bene quando si affronta un territorio, magari non complesso, ma effettivamente privo di riferimenti storici e geografici, dove ci si addentra in una terra che sconosciuta-incognita lo è per davvero poiché ciò che un individuo di se non conosce entra in relazione con ciò che del luogo non conosce.

Ciò che oggi s’intende per Inesplorato è paragonabile ad un marchio DOC citato soprattutto dai VIP del grande alpinismo e delle grandi traversate quasi fosse un plusvalore, che fa da contenuto aggiuntivo ad un’impresa per caricare il vuoto geografico di segretezza, ma il più delle volte non aggiunge granché a proposito del suo significato. Se non ai giornalisti che, dopo una conferenza stampa, riportano pareri nei corrispettivi quotidiani.

Eppure, colui che Esplora (se anche ha una mèta iniziale che lo spinge a partire state sicuri che la perderà strada facendo, distratto a prestare attenzione all’evento che lo decentrerà) davvero inspira l’aroma di spiragli celati, ode l’essenza delle sostanze in essi contenuti, avverte in anticipo il cambiamento delle condizioni che sta per incontrare. Se non avvenisse in lui questa sconnessione sensoriale difficilmente sarebbe in grado di continuare ad Esplorare.

Certo è che Esplorare è una cosa pure diversa dal viaggiare, col Viaggio ci si porta ai margini dei luoghi Inesplorati, e tramite essi si raggiunge l’orlo di qualcosa di tremendo e grandioso che andremo in seguito a considerare: l’Ignoto che li contiene.

Ciò che provo oggi dopo molteplici esperienze è di sentirmi baciato in fronte dalla fortuna, grazie anche al fatto che dopo anni di fatiche sulla mia fronte c’è più spazio di prima, ma soprattutto perché pur non avendo girato il mondo, per salire tutti gli 8000, per scalare le grandi pareti inesplorate, per traversare catene non percorse più da decenni o per traversare zone dove sperimentare cose che spesso chi le ha vissute non è in grado di spiegare, forse ho capito cose che muovendosi in lungo e in largo non è detto possano esser focalizzate.

Ivan Guerini

(Tratto da “Il Senso dell’Esplorazione” di Ivan Guerini, pubblicato integralmente su “Rivista della Montagna” nei primi anni ’90 – anno XXXI°– n°247) 

Servizio Segreto Rocce Friabili

Servizio Segreto Rocce Friabili

dscf6858«Lei si aspetta che io parli?» «No, Mister Bond, io mi aspetto che lei muoia!» Questa battuta, tratta dal film “Missione Goldfinger”, è una delle preferite con cui Ivan si diverte a sfottermi bonariamente quando mi trovo “messo in croce” nel bel mezzo di un tiro. Fortunatamente ZeroZeroBirillo, così come il leggendario James Bond, trova sempre qualche ardito escamotage per schivare il temibile raggio laser! 

Oggi, io e IvyBoy, avremmo dovuto arrampicare insieme, ma purtroppo da un paio di giorni il giovane Birillo pasteggia a tachipirina ed il suo già scarso stato di forma gli ha quindi impedito di impegnarsi in qualche nuova esplorazione. Tuttavia una giornata di sole come questa era un sacrilegio sprecarla e così, ben intabarrato ed imbacuccato, ho puntato alla conquista del Monte Melma.

Il Melma si dimostrato un luogo magnifico e forse una delle montagne più ingiustamente trascurate: se desiderate affrontare una salita non troppo impegnativa ma assolutamente panoramica il Monte Melma, nonostante il curioso nome, è una delle gite più consigliabili. Dal Sasso Quadro, un’altare roccioso posto sull’anticima, è possibile ammirare quasi tutte le montagne (e le pareti) del nostro territorio, con tanto di scorcio sul lago e sulle Grigne.

Il mio piano era sfruttare la luce del mattino ed il teleobiettivo per fotografare le pareti e le strutture su cui abbiamo esplorato: Ivan sta lavorando ad una nuova pubblicazione sulla storia esplorativa di quella zona ed ero sicuro di fargli un buon regalo con qualche foto nuova in alta definizione.   

Partendo da “Via della Ratta” (da pronunciare esclusivamente con l’accento di Pablo Escobar) si raggiunge rapidamente la cima e si può formare un circuito ad anello ricollegandosi alla piccola strada asfaltata, “Strada della mandria”, che taglia i tornanti della vecchia strada per Ballabio. Non ho trovato cartine del Melma ma queste poche informazioni, e le ottime indicazioni sui sentieri, bastano per avventurarsi ed orientarsi.

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Prima o poi su queste foto verranno tracciate le linee delle salite compiute, soprattutto le numerosissime effettuate da Ivan nel corso di quasi un decennio. Per il momento però vi mostro solo la bellezza, terribile e selvaggia, di questi luoghi a ridosso della città: io per primo, osservandole da questo punto d’osservazione, sono rimasto stupito (ed agghiacciato) dalla recenti salite che abbiamo compiuto. La storia “arrampicatoria” di questi luoghi è estremamente limitata proprio perchè la natura di quelle strutture rocciose ha sempre reso preferibile “dimenticare” che “approfondire”.

dscf6842Io, curiosamente, in questi due anni  tra quelle rocce vi ho accumulato una buona metà della mia esperienza, ma questo solo grazie alle grandi capacità di Ivan: non è un luogo che assolutamente si può consigliare, anzi, è probabilmente uno dei luoghi più pericolosi e rischiosi in cui si può avere la dissennata idea di arrampicare. Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo imparato l’amara lezione con l’incidente al piede di Bruna sul Pizzo Molteni (e che avrebbe potuto avere conseguenze ben più gravi).

A debita distanza credo possa essere affascinante osservare un territorio selvaggio tanto ampio e tanto vicino alla città, ma allo stesso tempo quasi completamente privo di sentieri o vie d’arrampicata conosciute. La cosa appare inoltre ancora più inconsueta se teniamo conto dell’affollamento storico e “topologico” del vicino Medale ed Antimedale, che tuttavia, lo ripeto, hanno caratteristiche e morfologie profondamente diverse!! Quindi, con la raccomandazione di non mettervi nei guai con pensate strane, ecco alcune delle foto scattate per Sguero.

Davide “Birillo” Valsecchi

 

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