“Lodovico, sei dolce come un fico…” Renato Chabod e Giusto Gervasutti inseguono Armand Charlet e Fernand Belin sulla Nord delle Jorasses mentre io aspetto Sguero alla Stazione di Lecco. Il racconto di quel loro “tentativo” del ‘35 è ormai un’avventura a puntate che prosegue ad ogni attesa sul piazzale dei Bus. Renato e Giusto stanno ritirandosi dopo che anche Charlet è tornato sui suoi passi: in parete restano solo Meier e Peters ma, purtroppo, la gloria costerà loro un prezzo altissimo.
Mi piace come scrive Chabod, e mi piace l’umorismo con cui descrive la sua difficile e fortunata condizione di secondo di cordata con un “fortissimo”. La storia la fanno i Primi di cordata, ma è ai Secondi che tocca raccontarla, spesso vivendola scomodamente incastrati tra “l’incudine ed il martello” del loro ruolo. Un giorno qualche saggio, distraendosi dalle mirabolanti acrobazie di chi sta davanti, spenderà qualche parola anche sui Secondi, su quello che gli frulla nella pancia e nella testa, su quello che serve per essere validi nella propria trincea a metà strada tra il fronte e le retrovie. Ma ecco il mio primo di cordata farsi strada tra la gente con il suo consueto sorriso. Butto il libro sul sedile di dietro ed apro la portiera: “Buongiorno Sguero! Si va?”
Tecnicamente questa è una giornata di relax: arrampicando quasi ogni due giorni serve darsi il giusto ritmo, non sovraccaricarsi tanto fisicamente quanto mentalmente. Per questo abbiamo scelto uno tra i luoghi più miti ed accoglienti del nostro territorio “quasi dolomitico”: una zona piacevolmente ricca di verde, di animali, pozze alpine e grandi pareti in buona parte inesplorate. C’è un immenso universo roccioso da esplorare sebbene la maggior parte della gente curiosamente creda che non vi sia niente su cui arrampicare: un posto davvero bello, tanto bello che non ho intenzione (per ora) di darvi alcuna indicazione in merito! Chi riesce a capirlo mia sia divertito complice nel salvaguardarne il segreto 😉
Se l’ambiente circostante è tutt’altro che opprimente le linee di salita sono tutt’altro che banali. Su una di queste strutture rocciose proviamo a tracciare una “normale” dapprima rimontando alcuni gradoni e poi puntando ad una spaccatura in piena parete. Il primo tiro diventa quindi una curiosa commistione di passaggi di bouldering e cenge erbose. Si stendono quasi tutti e 60 i metri di corda ed un passaggio, quello tra le due “corna” finali, si rivela piuttosto impegnativo. I camosci, più pragmatici degli arrampicatori, hanno però aggirato queste roccette iniziali tracciando sulla cengia un camminamento che, scopriremo poi, si snoda nelle zone più irraggiungibili della struttura rocciosa creando un periplo decisamente ardito quanto sagace.
Le dita, sulla roccia umida ed in ombra, assaporano il primo assaggio del freddo autunnale: “Bagai è tornato il freddo!”. La sosta del primo tiro è un’accoppiata tra due micro clessidre ed un valido chiodo a lama. Sguero riparte dritto per dritto puntando ad una spaccatura che piega verso destra. La parte superiore della spaccatura è crollata lasciando grossi detriti al suo interno. Sguero deve sgusciare sotto le roccie rotte evitando di far precipitare più in basso quelle già cadute: un bel passaggio di contorsionismo spacca-vestiti. Superata la spaccatura si infila in una specie di delicato diedro che lo porta verso l’uscita.
Quando è il mio turno tocca darsi da fare. La corda deve restare lasca per non stuzzicare la roccia “indecisa” ed al contempo, per orgoglio, devo riuscire a passare senza far cadere i sassi risparmiati da Sguero. Speravo di risolverla con un esosa dülfer sul vuoto ma raggiungere la maniglia non è facile come sperassi (anzi!). Quindi ripiego sul contorsionismo “spacca-vestiti”: i sassi però non si son mossi!
Giunti in cima siamo nuovamente sui prati, ci cambiamo le scarpe, insacchiamo la corda, e ridiscendiamo sereni verso la base della struttura. “Abbiamo ancora tempo: andiamo a curiosare più in là?” Ci spostiamo verso destra e troviamo un canale roccioso da cui si intravvede un bel diedro d’uscita. C’è un sacco di materiale franato ma il lato destro sembra solido. Guero parte e mi racconta: “Sembra di essere sulle vecchie vie dei Maniagni: roccia marmorizzata coperta di detriti. Davvero bello!” Lo osservo risalire distendendo quasi trenta metri di corda libera “Se non metti chiodi è quasi impossibile proteggersi qui”. La mente corre ai Maniaghi ed ai tempi delle grandi esplorazioni, alle reali difficoltà affrontate da quei pionieri e forse oggi dimenticate. Guero avanza con la solita cautela ma la parete, complice la corda, molla verso il basso sassi ogni tipo: la famosa mitraglia? Rimbalzano sulla parete e vanno in pezzi in ogni direzione: fortunatamente è roba piccola e sono agile nello schivare, ma non deve essere stata una banalità affrontare una cosa simile all’inzio del secolo scorso con un cappellaccio di feltro sulla testa. Corda dall’alto salgo abbastanza agevolmente anche se qualche passaggio, senza prese salde su calcale levigato, qualche dubbio me lo lascia (Sti cazzi, alla faccia dei Maniaghi!!).
In sosta ritroviamo la traccia del “periplo del camoscio”. I quadrupedi hanno avuto un istinto eccezionale nel tracciare una linea “normale” assolutamente aerea ma capace di guadagnare la cima vincendo a spirale le difficoltà senza mai affrontarle direttamente. La nostra esplorazione è però tentata tanto dall’etica quanto dall’estetica e così Sguero attacca in dulfer la grande fessura/diedro. Il cuore della fessura è un misto di fango e sassi incastrati, “Il festival dell’orrido”, ma Guero sale facile aprendosi poi in spaccata per affrontare l’uscita. Al termine della fessura la roccia torna a farsi fragile ed incerta: come faccia il Guero a riposizionarsi da uno spaccata simile è materia per me ancora misteriosa. Scomapare poi lungo lo spigolo e, un bel po’ di corda dopo, lo sento chiamarmi la sosta.
La spaccatura in Dulfer è uno spettacolo orribile, una specie di “Zombie della Luna Nascente”, ma l’uscita è un’altra storia. Provo a spaccare come il Guero: “Bene, è adesso? Come esco da sta posizione?” Non c’è nulla di solido a cui attaccarsi per “estrarsi” dal quell’incastro ed il corpo è ancora troppo sbilanciato verso destra dalla parte strapiombante. Mi viene in mente una vignetta di quelle che girano su internet: “Bill non fa spaccate che non può chiudere. Bill arrampica sulle proprie misure, nei propri limiti. Bill è intelligente. Sii come Bill”.
In spaccata non la risolvo e se la corda si tira di botto (ossia cado) non ho idea di cosa mi possa piombare sulla testa. No, devo cambiare strategia. Sempre a gambe larghe mi nascondo nuovamente sotto lo strapiombo e cerco di infilare il braccio quanto più possibile dentro la fessura. Sento la mano scivolare tra i sassi ed il fango mentre il braccio si torce affondando nell’oscurità. Mi sento come uno di quei veterinari che infilano il braccio nelle vacche per inseminarle! “Bhe, Birillo, poteva andarti peggio: potevi essere quello che munge il toro!” Con il braccio sinistro saldo nel “buco della vacca” giro i fianchi e chiudo la spaccata, riavvicino i piedi, lancio il destro oltre lo strapiombo e scalcio in una lolotte che sembra un “ushiro geri”. Una battuta di Josef risuona nella testa strappandomi un sorriso mentre sbuffo sotto sforzo: “Non ci sono più gli uomini di una volta, a sbalzo fuori in parete, oggi tutti di traverso in lolotte come signorine”.
Oltre il diedro è un’avventura fragile che culmina su dell’erba fradicia all’ingresso di una grotta. Orribile …ma anche un po’ magnifico. Nuovamente sulla cima ci sediamo a sistemare il materiale. La struttura rocciosa è estremente carsica e, nonostante la vegetazione, sembra voler inghiottire un piede del Guero che si ritrova scalzo con la scarpa ostaggio della montagna. “Guero come accidenti fai ad infilarti nello stesso buco tre volte di fila?! Recupera la scarpa!” Cosa volete farci, lui se la ride!
“Belle! Due vie severe, quattro tiri densi di passaggi interessanti: mi sono davvero piaciute”. L’ambiente mite che ci circorda sembra cancellare ogni difficoltà così come il ricordo del pericolo affrontato, lasciando solo il piacere dell’esplorazione e della compagnia. Io e Guero stiamo lentamente prendendo il ritmo allineandoci sulle rispettive capacità ed esigenze: ci stiamo proprio divertendo!! “Sai Davide, le persone continuano a ripetere in modo meccanico ed asettico le cose fatte e rifatte senza rendersi conto che la dimensione ignota spesso attende ad un metro dal sentiero.” Probabilmente è stata questa comune esigenza la scintilla che ci ha reso tanto amici, allontandoci da ogni confronto, costrizione o forzatura.
Davide “Birillo” Valsecchi