Addobbi Natalizi

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Vagabondiamo per un’oretta attraverso il bosco ma ormai, girovagare fuori sentiero con lo zaino pesante, è diventata la parte rilassante della giornata. Il sole caldo ci accompagna tra gli alberi e per la fatica arranco sudando in maglietta nonostante sia il mese di Dicembre. Ahimè, a furia di sfacchinare sono diventato bello stagno ma non c’è stato modo di smuovermi dagli 84kg: volevo diventare una ballerina ma resto un “tank” …cocciuto, pesante, corazzato.

Quando in lontananza cominciamo a vedere la parete innalzarsi oltre gli alberi inizio a preoccuparmi: “Ivy …è alta come l’antimedale! Con le giornate così corte non credo si riesca ad uscire in alto..” Ma Sguero non è preoccupato, la nostra è soprattutto una ricognizione. Questa struttura, a cui in effetti non abbiamo ancora dato un nome, è la più lontana da raggiungere, anche più lontana della Torre Prora: non sappiamo come sia, non sappiamo neppure se sia possibile salire. Tuttavia ormai conosco bene Ivan: qualcosa faremo lo stesso!

Dal basso la parete appare di roccia ottima, Ivan dice che assomiglia a quella dell’Avorio, sulle bastionate del lago. Ci sono grandi placche, pilastri ed alti diedri. Dalle spaccature della roccia, come selvaggi tentacoli alieni, emergono coriacei e ritorti alberi di Rubinia(?) aggrappati al calcare contro ogni apparente logica. Il loro tronco è grosso, deformato in forme contorte e vive, più simili a quelle di una creatura marina che a quelle delle piante da giardino. Mi piacciono le piante. Tempo fa ero diventato “famoso e famigerato” per aver abbracciato le piante di Asso scongiurandone l’abbattimento, spero che queste loro cugine ora abbraccino me evitando di farmi cadere!!

“No, il sole si sta già nascondendo” mi dice Ivan “Non abbiamo abbastanza luce per uscire in cima. Proviamo ad arrivare al grande cengione che c’è a metà, poi ci caliamo in doppia seguendo quelle piante”. Calarmi in doppia non piace molto: statisticamente i più grandi arrampicatori della storia ci hanno lasciato la pelle proprio durante questa manovra ed io, onestamente, non sono neppure un grande… Tuttavia, visto il piano, posso lasciare lo zaino alla base e concedermi il lusso di arrampicare “leggero” (mica roba da niente!)

Ivy si insinua come serpente in un diedro verticale scivolando tra le pieghe della roccia fino ad appoggiarsi come un boa ai rami di una grossa pianta. Se non avessi le mani occupate a manovrare la corda che gli fa sicura dovrei farlo un video e mostrarvi come accidenti si muove “kundalini” mentre esplora verticalità ignote. Ancora oggi è qualcosa che riesce a stupirmi, qualcosa che però bisogna “vedere” per poi istintivamente “imitare” quando poi ci si trova nelle difficoltà. Non lo trovi su YouTube uno che si muove come il Guero, ed è un vero peccato!

Guero supera il diedro, rimonta l’uscita proteggendo a friend e si infila in una serie di massi prima di scomparire al di sopra di una placca ancora illuminata dal sole. Io, all’ombra imbacuccato nel giubbotto di piuma d’oca, mi sento come mio fratellino quando lo portavamo a giocare a calcio: avrei voglia di sedermi in mezzo al campo e fare mucchietti con la terra. Sono stato al Moregallo ieri, ho curiosato in solitaria tra i misteri del versante Est. L’incertezza di affrontare la roccia riaccuisce la stanchezza e la tensione. Tolgo la giacca, infilo le scarpette, appoggio le mani sui primi sfuggenti appigli: “Cominciamo!”.

Il diedro iniziale sembrava repulsivo ma senza zaino il baricentro sembra nascondersi nello strapiombo e le prese, per quanto non proprio comode, bastano a darmi la giusta stabilità. Se non dobbiamo uscire in cima posso andare anche un po’ più lento del solito, posso concedermi qualcosa in più nello scegliere i movimenti. Afferro la pianta e mi isso tra i suoi rami: assomiglio più a King Kong che a Kundalini ma va bene lo stesso… In piedi, comodamente sui rami, mi sembra di essere sulle zanne di un grosso elefante.

Il passaggio successivo il diedro si fa ad incastro salendo con i fianco destro e sfruttando le prese e gli incastri a sinistra, poi, a metà dell’azione, c’è un cambio completo di fronte in cui si inverte il fianco e tutte le prese per uscire fianco sinistro sul lato destro. Guero, in quel punto, mi era sembrato uno dei “MastersOfUniverse”, uno di quei mitici giocattoli snodati degli anni 80. Tutta la parte superiore del corpo era rimasta immobile, incastrata ed ancorata nel diedro, le gambe invece avevano lasciato i loro appoggi e si erano quasi distese verso il basso prima che il bacino ruotasse completamente assumendo le nuove posizioni. Poi era stata la volta del tronco: prima si è assottigliato allungandosi verso l’alto, accorciando le spalle, per poi ruotare nelle nuove prese e nei nuovi incastri. Il respiro del serpente che si avvolge…

King Kong ha invece girato il bacino con la stessa rigidità plastica di “He-Man” ma è poi riuscito a risdraiarsi dentro il diedro uscendone scalciando e sbuffando. Ma se quello era un passo tecnico il difficile è appena dopo, quando tra fessure e sassi incastrati, raggiungo Ivan alla pianta su cui fa sosta. “Naaa… Ivy, accidenti! La parte più difficile è sempre quella che sembra più facile!”

Il secondo tiro è strano, rimonta una spaccatura guadagnando la base di una bellissima placca compatta. A quel punto si deve però seguire in un traverso una sottile cengia coperta di foglie prima di poter entrare sulla placca attraverso uno scivolo verticale che risale fino a diventare un diedro a placche parallele. “Ecco Birillo, siamo nel traverso marocchino!” Per un istante il caldo invernale mi trasporta in qualche paese esotico dove il traverso, ora un mercante arabo di un Suq affollato di foglie, cerca di imbrogliarmi incantandomi con i suoi profumi d’oriente. “Birillo, se scivoli e pendoli vai a dare un’occhiata alla parete che c’è dall’altra parte della montagna!” I piedi sono un po’ precari ma le prese per le mani sono piccole ma eccezionali. La punta della dita esplorano la roccia, scostano alla cieca la terra e la polvere accomodando il grip, poi si serrano consapevoli e compiaciute del loro ruolo chiave in quel balletto.

Rimonto la placca e mi infilo nel piccolo diedro: una struttura alquanto curiosa. Di rimpetto alla placca una colonna di sassi impilati forma l’incrocio dei due piani separata da una profonda fessura, che il realtà è lo scollamento della colonna dalla placca. L’esterno della colonna si sfalda in grossi blocchi ed è quindi intoccabile. Mi ritrovo con i piedi in appoggio opposizione a destra sulla placca solida, il braccio destro, con il palmo rivolto verso di me, che di sbieco a sinistra traziona l’interno della colonna mentre il braccio sinistro, disteso verso l’alto, cerca di tenere il corpo quanto più possibile all’interno del diedro per non sollecitare troppo la colonna.

Una posizione faticosa, curiosa, statica, ma solida. Trasoformarla in dinamica riuscendo a farla camminare verso l’alto è stato piuttosto curioso. Fortunamente, prima dell’uscita, una bella presa mi ha permesso di rigirare le anche e salutare il diedro senza dovere abbattere a calci la colonna. La bella ed appigliata placca finale, inondata di luce, era una piccola e piacevole ricompensa per l’impegno nel piccolo diedro.

La parete si perde in una ripida cengia erbosa piena di piante (persino pini) prima di ricominciare a salire verticale. “Che bello qui! Guarda che belle pareti si nascondevano quassù!” Per un istante ho la tentazione di continuare a salire, ma il sole è basso all’orizzonte e sembra volere correre a nascondersi. Così facciamo un traverso di una trentina di metri lungo la cengia fino ad un piccolo sperone. “Però un’occhiata vado a darla!” Confessa divertito Ivan mentre gli faccio sicura sullo sperone. Rimonta fino ad una piccola pianta, poi raggiunge una seconda e si alza sul passaggio chiave superandolo. “Da qui in poi le difficoltà si abbattono e piano piano appoggia fino a raggiungere le piante: venti o venticinque metri”. Sarebbe uno spettacolo raggiungere anche il successivo bosco pensile ma il tempo corre e la luce si affievola. Sguero pianta un chiodo, uno che canta, lo lega con un cordino alla piccola pianta e si lascia calare mentre recupera friend e fettucce.

Dalla pianta a cui siamo appesi lo calo fino al bordo della cengia, il margine della parete. Attrezza un’altra sosta su una pianta a sbalzo e mi cala a sua volta. Quando lo raggiungo mi trovo davanti tutta la verticalità della parete: “Accidenti, ma basta?” La nostra singola da 60 è la scelta migliore per gli ingaggi da combattimento in cui ci infiliamo, tuttavia un paio di gemelle da 60 farebbero davvero comode per ritirate come questa. “Non so, ti calo e vediamo” Mi dice divertito Ivan. Quando sono con il culo nel vuoto parte la solita scenetta “Chissà se la pianta regge il tuo peso…” “Ivan!! Per Dio, guarda dove accidenti sono! Lasciami in pace e calami piano!!”

Piano piano scendo, spostandomi sulla parete affinchè la corda non sfrisi contro la roccia. “Metà! Biriz dove sei?! Quanto manca?” Ovviamente la corda finisce sempre quando giri appeso in una nicchia sotto un tetto. “Ivy!! Mancano quattro metri! Sono nel vuoto e mancano quattro metri!”. Ivan mi cala e finalmente raggiungo terra. La calata è di trentacinque metri, la corda da sessanta, quindi niente doppia: al vecchiaccio tocca frazionare mentre io mi reinfilo le scarpe comode! Sguero si cala e prima del tetto pianta un buon chiodo che raddoppia con un vecchio nat usato che ci è stato regalato (il materiale qui inizia a scarseggiare!!) Gira le corde e starnazzando divertito come un bambino che gioca sull’altalena discende i dieci metri che ancora ci separavano. Nuovamente insieme ci stringiamo la mano con assoluta mancanza di serietà ma sincera soddisfazione ed amicizia. “Bene! Bene! Bene!”

Insacchiamo la corda e ci rinfiliamo nel bosco mentre la luce continua ad affievolirsi. Sancho Panza e Don Chisciotte, Gianni e Pinotto, Stalio ed Olio: ancora una volta la strana coppia si muove attraverso la boscaglia puntando determinata verso la terra promessa: la birreria. “Sai Sguero, tutto questo però non è normale: ogni volta usciamo, andiamo ed apriamo una nuova via in qualche posto sconosciuto. Gli altri non fanno così, nessuno di quelli che conosco fa così: davvero, non è normale!!” Ivan divertito saltella tra le foglie come un folletto arancione: per lui è normale, anzi, probabilmente è la sola normalità che conosce. Questo è il suo modo di essere libero. Ed io? Io non lo so, io temo che fra un po’ sembrerà normale anche a me, anzi, sarà la sola normalità possibile.

Davide “Birillo” Valsecchi

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