Placche Bianche

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Il sole brilla caldo ed illumina la “Valle” nei suoi colori d’inverno mentre alle nostre spalle la città di Lecco ed il lago sono nascosti da un lenzuolo di nebbia. Siamo sopra le nuvole, nascosti allo sguardo della civiltà. Saliamo lungo crinale, camminando tra rocce paglione sul limitare del bosco. Ormai conosciamo la strada attraverso le tracce dei mufloni, attraverso i sentieri che non esistono.

Un’ora e mezza bella ripida e siamo finalmente alla base della Torre Prora: “Guarda che roccia, se fosse a cinque minuti dalla macchina qui ci avrebbero aperto un milione di vie a fittoni!”. Invece al momento ci sono solo due vie note, una che abbiamo aperto l’altra settimana ed una aperta negli anni ‘80 da una squadra di arrampicatori di Saronno. Ivan, come un agente segreto sul web, è riuscito a trovarli e contattare uno di loro. Con grande disponibilità ci ha raccontato la loro salita: era sorpreso, ma forse anche compiaciuto, che Ivan stesse continuando la loro stessa esplorazione.

Eccoci di nuovo qui, a curiosare un altro angolo di roccia sconosciuta. Mentre mi infilo l’imbrago mi guardo intorno osservando la “Valle”. La prima volta che ero stato qui non sapevo neppure esistesse: seguivo Ivan per la curiosità di arrampicare con lui. Ora, dopo quasi un anno, riconosco da lontano le strutture rocciose su cui ho arrampicato, le torri, le valli. Molti di questi luoghi non avevano neppure un nome: abbiamo dovuto battezzarli noi perchè trovassero posto nel mondo della parola, perchè emergessero dall’oblio e diventassero realtà. Non sapevo nulla di questa valle ed ora, curiosamente, sono uno tra i suoi massimi esperti. Fuori sentiero accadono cose davvero strane…

Infilo la corda nel reverso e lascio che Ivan parta. Gli piace il modo in cui racconto le nostre salite: “La nostra pratica può diventare teoria su cui riflettere”. Per il momento non vuole che si sappia dove stiamo arrampicando, non vuole che per imitazione o competizione altri arrampicatori vengano quassù ad aprire o ripetere vie. Gli serve ancora tempo per capire, tempo per spiegare, per ispirare. Non solo  teme l’invasione degli spit in un mondo incontaminato ma soprattutto è preoccupato di come la maggior parte degli arrampicatori contemporanei sia impreparata alle reali ed importanti difficoltà di un ambiente simile. “Se vieni qui pensando di tirare la roccia come in falesia rischi di farti malissimo già al primo tiro…”

Quindi no, i miei racconti sono felicemente denudati dalle descrizioni tecniche, dai gradi, dai dettagli geografici delle relazioni. Un vuoto che va riempito di emozioni e convertito in esperienza. Sulle magliette stampano la scritta “Go Climb a Rock”, ma per via di un curioso fraintendimento tutti sembrano puntare alla stessa roccia: quella su cui hanno messo i fittoni, quella su cui la magnesite e l’unto hanno levigato le prese, quella che devi spicciarti a salire perchè c’è la fila,  perchè buttano giù sassi dall’alto. Quella dove la ragazza con il cappello di lana, identica a se stessa e a mille altri cloni, ha steso la corda in un sacco prima di cominciare a lamentarsi: “non ne ho più… non mi tengo… è un legno… sono ghisata …bella lì …alè duro!!”.

No, non importa raccontare dove arrampichiamo noi, indicare un’altro sasso dove ammucchiarsi. No, importa raccontare che si può davvero arrampicare dove si vuole, seguire le proprie misure, le proprie capacità, la propria curiosità. “Go Climb your Rock”

Certo, io arrampico da secondo con Ivan Guerini, forse per me è facile parlare. Sarei ipocrita se non ammettessi una simile fortuna, specie quando mi spingo ben oltre i limiti delle mie capacità. Tuttavia la mia prima via, aperta dal basso a fettucce (possedevo solo un friend!), l’ho aperta insieme a mia moglie (all’epoca solo morosa) e tutt’oggi rimane una delle più belle salite io abbia mai fatto. Solo poi ho scoperto che, vent’anni prima su quella stessa scogliera, Ivan e Monica ne avevano aperta un’altra poco distante dalla nostra.

La corda smettere di scorrere e finalmente dall’alto Ivan mi urla “Vieni!”. Infilo le scarpe e parto. Ogni torre della “Valle” ha un diverso tipo di calcare, una diversa morfologia e compattezza. Ivan ha rotto le scatole ai suoi amici geologi e ci hanno spiegato che questa disomogeneità è un’altra particolare caratteristica della valle. A volte la roccia fa davvero paura per il modo in cui si spacca ed altre volte, come sulla Torre Prora, è tanto bianca e compatta da brillare abbagliante al sole.

L’arrampicata è tecnica ma lo zaino non mi da troppi problemi. Si lavora tanto sulla punta dei piedi mentre le dita corrono insinuandosi in prese sempre più piccole ma piacevolmente solide. Le piante, in questo bianco mare verticale, sono piccole isole dove riparare, dove fettucciare la corda …dove incastrarsi irrimediabilmente! Le piante sono così, un po’ ti aiutano, un po’ si prendono gioco di te. Senza di loro tutto sarebbe però davvero più complicato: tocca imparare a farci amicizia.

Mi godo la prima serie di placche prima di dover ripiegare in un diedro di massi incastrati. Come un artificiere si deve salire disinnescando i guai, usando il peso in un caledoscopio di piccoli movimenti e correzioni. Sulle placche serviva essere “bravi”, qui serve essere “capaci”. Quando arrivo sotto la sosta mi sposto leggermente verso sinistra per sfruttare un canaletto. “Bravo Biriz, fermati un secondo lì che deve fare una cosa..” Ivan sposta la gamba ed un macigno grosso come un televisore fionda verso il basso direttamente sulla linea di salita che avevo percorso. “Era un po’ che lo tenevo, ma c’eri sotto tu…”. Sì, IvyBoy è bravo e capace…

Appesi ad una pianta studiamo come proseguire verso la cima del pilastro. La via dell’altra settimana è parallela davanti a noi e, da quella prospettiva, mi appare elegante e difficile come forse non mi ero nemmeno reso conto.

Poi Guero riparte, tira un traverso secco di una decina di metri e poi punta verso l’alto inseguendo un diedro e due piante. Il secondo tiro è meno estetico del primo, meno passaggi “tecnici” e più passaggi “impegnativi”. Giunto in sosta non puntiamo alla cima della torre, raggiungibile attraverso una cengia ed una lunga cresta esposta con un passaggio di quinto in discesa. Proviamo invece, sempre legati, a seguire un’altra cengia che discende alle spalle della torre fino ad un ripido canale pieno di ghiaia.

Sono solo le tre del pomeriggio ma il sole d’inverno è già stanco e cerca di riposarsi standosene basso sull’orizzonte: è tempo di andarsene. In un’oretta scendiamo fino alla Birillo-Mobile: abbiamo mezz’ora da spendere in birreria e poi Sguero dovrà imbarcarsi sul treno per Milano.

Dopo un paio di dissetanti medie (io chiare, Ivan rosse) ci ritroviamo alla stazione salutandoci sulla portiera. “Grazie Biriz”, “Grazie a te IvyBoy”, per un secondo rimaniamo in silenzio, poi scoppiamo a ridere insieme: alla prossima!

Davide “Birillo” Valsecchi

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