Bruna ed Andrea erano al Rifugio SEV mentre la morbida luce di un tramonto di Luglio mi chiamava. “Posso andare a farmi un giro?” chiedo. “Certo, noi ci mettiamo in terrazza e ti aspettiamo per cena” ha risposto Bruna. Così via, giù per i grandini e dentro nel bosco. Un giro rapido, semplice, il giro delle cime per il passo della vacca, niente di complicato. Lascio che le gambe diano il tempo, i piedi devono riprendere confidenza, tornare precisi e rapidi. Lascio che i sassi del sentiero maltrattino i miei scarponi pesanti. Sono in cerca di risposte e spero che siano i Corni a darmele. Le mie domande sono sempre sciocche, piccole debolezze nell’incertezza di una scelta che è già presa. Piacevolmente non ho dubbi nelle scelte che contano, in quelle importanti, ma in quelle minori, che spesso minori non sono, a volte tentenno. Ripercorro sentieri che conosco quasi a memoria, rispolverando nella mente le “varianti” ed i passaggi “stramberia” tentati qua e là sulle pendici del corno. “Resta sul sentiero, Birillo!” mi impongo silenziosamente. Supero il passo della vacca e raggiungo la cima del Corno Occidentale. E’ la prima volta che vado a zonzo con gli occhiali, le prospettive a volte mi ingannano e la coda dell’occhio si ritrova cieca più spesso di quanto mi aspetti. Probabilmente, negli anni, ho inconsciamente coltivato la percezione periferica più di quanto credessi: mi sembra di essere in piscina con la maschera e devo muovere la testa più di quanto sia solito fare. Poi inizio a scendere lungo il caminetto, con attenzione e pazienza: …ed è a quel punto che succede quello che succede sempre. A metà del caminetto vedo una linea appena accennata che sembra scavalcare il lato esterno del camino. I miei buoni propositi saltano all’istante, esco dal sentiero mi metto ad inseguire le linee delle capre in spazi nuovi. Gli scarponi sono troppo grossi per le tacche piccole, gli occhiali circoscrivono il mio mondo, ma le mani “pinzano” piacevolmente mentre arrampico in discesa tra roccia e terra smossa. “Bello questo movimento… sembri quasi uno capace!”. Scendo verso il basso mentre guardo in alto curiosando la roccia che appare tra fronde degli alberi. Quando ero bambino saltavo giù dai terrazzamenti di casa mia, cinque salti, uno dietro l’altro, ognuno di due metri e mezzo. Poi risalivo lungo le rocce alle spalle del pollaio e ricominciavo a lanciarmi nel vuoto. Quello era il mio Parkur domestico, quando imparai il Mae Ukemi, la caduta rotolata in avanti del Judo, riuscivo a saltare anche da più in alto. Cadere non è mai stato un problema per me ed il Mea Ukemi, tirato “teso” tra i sassi del canale, mi ha salvato la pelle anche una decina di anni fa, mentre facevo lo stupido nel Belasa. Credo ora l’arrampicata abbia probabilmente cancellato queste mie antiche certezze, ci sono “salti” che non possono essere semplicemente ammortizzati deflettendo con morbidezza linee di forza. Forse è per questo che non mi lancio più nel vuoto come un tempo e che le mie mani “pinzano” ogni movimento quasi fossi diventato un quadrupede… Appeso ad un albero mi calo sul sentiero ritrovato: “Eccomi nuovamente sulla retta via!”. Potrei giurare di essere passato in quel punto un centinaio di volte, di giorno, di notte, con la neve o la pioggia. Eppure, solo in quel momento, ero riuscito a vedere qualcosa che era lì, letteralmente, da più di 75 anni.
Scatto in avanti e mi aggrappo sulla roccia per vedere meglio. La prima lapide recita: “Il 24 Agosto 1944 – Quando ancora a lui arrideva la vita su di queste rocce che gli erano pur tanto care cadeva vittima della sua stessa passione DANTE VERGA. Ora che non sei più sei ancora e sempre con noi. I tuoi amici.” Sotto la prima una seconda lapide: “Genitori e fratelli a ricordo di CESARE ALBERICI che dopo ansiose alternative raggiungeva il compagno di gita DANTE VERGA. N.28-4-1927 — 3-9-1944”. Non avevo mai visto quelle lapidi prima d’ora: ero alla ricerca degli spiriti, ma non mi aspettavo rispondessero in modo tanto concreto! Così mi fermo ed osservo quelle lastre, scatto qualche foto e rifletto sulla storia che tramandano. Cesare aveva 17 anni e probabilmente, in quella lontana estate del ‘44, cadde insieme al compagno di cordata Dante. Ma mentre Dante morì nella caduta, il destino di Cesare rimase incerto per quasi dieci giorni. Ecco perché due lapidi distinte per la medesima caduta. Mi sporgo in avanti sulla roccia alzandomi per osservare lo sperone di roccia da cui forse sono precipitati. Nella mia memoria ricordo che qualcuno dei “vecchi”, forse Renzo, mi aveva raccontato di come su quelle rocce, sul lato est del Corno Occidentale che scende fino alla bocchetta si arrampicasse spesso in passato. Pilastri compatti si alternano a rocce rotte, spesso fragili, che si innalzano per una ventina di metri, a volte trenta, un’altezza di certo sufficiente a perdere la vita nell’arrampicata del ‘44 (ma anche in quella di oggi). Ero stupito, e grato, per quella scoperta: avevo malvolentieri lasciato la strada conosciuta ma avevo trovato qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto che in realtà era stato sempre sotto i miei occhi. Gli spiriti, ancora una volta, mi avevano condotto alla risposta che andavo cercando ed io non potevo far altro che ringraziarli testimoniando la memoria di coloro che furono e che appartengono ora a queste montagne. Immerso in quel mondo al confine del tramonto ero nuovamente libero di aggirarmi tra gli alberi e le rocce, di incalzare di soppiatto le capre che, ignare della mia silenziosa presenza, oziavano sul corno centrale mentre l’orizzonte iniziava ad infiammarsi. Come nei giorni del passato mi sono sdraiato a terra, spingendo la testa oltre il bordo della Fasana, oltre il margine del vuoto abissale. Ma, diversamente da allora, ora osservavo quelle onde di roccia accarezzando ricordi anziché fantasie. Sfilando poi, nuovamente ai piedi della grande parete, il corpo ha trasformato in “forma” la memoria e, per un istante, ho percepito sulla pelle la stoffa di quella vecchia maglietta rossa, che tirava stretta su spalle ben più allenate e robuste di quanto siano ora. Per un istante ho camminato nel passato e, con un sorriso compiaciuto, ho abbracciato il futuro.
Davide “Birillo” Valsecchi