Diario della Quarantena

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Il viso, furioso e trasfigurato, di Eduardo “Lalo” Salamanca ci augura la buona notte con una punta d’ansia, mentre è la piccola Andrea, all’alba, ad imporre la sveglia. Apro lo sportello del frigor: yogurt, cereali, succo di frutta. Metto sul fuoco il caffè, cambio il pannolino ad Andrea, sveglio Bruna e la piccola Noa. Ogni giorno della quarantena è come il giorno della marmotta, nel mio caso dei marmocchi. Noa è nata il 14 Febbraio, usciti dalla sala parto all’asilo di Andrea era in atto un’epidemia di “Bocca Piedi Mani (EV-71)”: per aiutare Bruna, “puerpera” con due bimbe da gestire tra le mura domestiche, ho sfruttato i giorni di congedo parentale per stare a casa. Nel giro di una settimana l’epidemia, di Covid-19 questa volta, si è trasformata in pandemia… ed eccoci qui, 71 giorni dopo.

C’è qualcosa di biologico nel pianto dei neonati, qualcosa che impedisce il corretto funzionamente del cervello. Incasina i pensieri, scardina gli schemi ed acquisisce priorità assoluta, persino sulla volontà. Una prigionia nella prigionia: un imperativo atavico che, barricati in casa, scandisce lo scorrere delle giornate come la sirena di una fabbrica. Quando questa mattina le nanerottole strillavano in stereofonia ho perso il controllo della mia “fame di spazio” e la casa, ormai accampamento, mi si è chiusa addosso: affogavo incastrato tra gli stipiti delle porte che non portano in nessun luogo.

Così, per arginare il caos, ho preso in braccio Andrea, armato di pennarelli ed un foglio A4, ho iniziato a disegnare il diario della quarantena. “La nostra mente, per il modo in cui si è evoluta, lavora per immagini: per questo facciamo disegni e scriviamo!”. Come i carcerati si comincia tracciando una piccola barretta per ogni giorno trascorso in gattabuia, si prosegue poi inseguendo le date: l’ultima volta che ho fatto benzina, l’ultima volta che siamo andati a passeggio tutti insieme fuori dal giardino. Si elencano le “missioni di approvvigionamento”, le date in cui, armati di uno screen-shot sullo smart-phone, ci si è spinti in una solitaria avventura fino al supermercato per ritirare la spesa prenotata via Internet. Quanta nostalgia per quel bottiglione di Aperol comprato nell’ultima occasione in cui ho spinto il carrello tra gli scaffali!!

Sul foglio si continua riportando cose a caso: i videogiochi finiti, le serie concluse, gli eventi eccezionali. Già perchè quella volta dal dentista oppure la prima vaccinazione di Noa sono state giornate d’ansia, ma anche occasioni da segnare sul calendario. Anche quella volta in cui, mancando un gradino, mi sono distorto una caviglia finisce sul “diario della quarantena”: quanto era stato divertente inviare le foto del piede fasciato con la didascalia “Vedete, anche a casa ci si fa male!”. Quanta arguzia nell’aggiungere immobilità ad una situazione immobile! Qualcuno sul proprio diario della quarantena riporterà risultati incredibili, qualcuno avrà preso una seconda laurea, qualcuno avrà imparato il mandarino, qualcun’altro sarà diventato istruttore di Cross-Fit domestico con addominali da urlo. Io no, sono ingrassato, mi fanno male le ossa e passo le giornate ad inseguire le bambine. Mi consola che forse, tra dieci anni, ripenserò a questo periodo come ad un momento bellissimo della mia vita da genitore… qualcosa su cui anche Leo Ortolani potrebbe realizzare una striscia quotidiana. Magari con la vignetta scritta in mandarino…

Andrea mi dà corda, ma si stufa di numeri e dati: afferra un pastello a caso ed inizia a tracciare ghirigori sopra le parole. Forse sono stufo anche io ed improvvisamente ripiombo negli anni 90, quando seduti accanto ad un telefono fisso, con la cornetta in mano, passavamo il tempo chiacchierando e pasticciando con la biro interi fogli di carta, rimpiendoli di forme, simboli e piccole decorazioni. Ben presto la nana si stanca anche di scarabocchiare ma il suo papà, che aveva tanto cercato di coinvolgerla, no. Compare un righello, dei pennarelli, un paio di chiavi inglesi, forme e formine di tutti i tipi. L’analisi razionale lascia spazio a velleità artistiche per naufragare nella semplicità di un gesto senza scopo.

“La gente esibisce ciò che difetta maggiormente”. Sul mio foglio avevo cercato di fare ordine sulle mie giornate ma avevo finito per seppellire ogni cosa sotto il caos di forme e colori confuse, senza senso. Ma ciò che mi appariva evidente è che in quel caos, che io stesso avevo creato, stavo cercando inconsapevolmente di giustapporre le cromie, i segni, di portare equilibrio, in definitiva ordine.

“Birillo, questa è la verità: tu insegui il caos solo perchè hai il bisogno di trovarvi un tuo ordine. Ti giustifichi trovando soluzioni alternative, inesplorate, inconsuete, ma per quanto ti piaccia rappresentarti in modo assurdo sei ordine, non caos”. Autocoscienza fastidiosa…

“Ti sembro davvero il tipo da fare piani? Lo sai cosa sono? Sono un cane che insegue le macchine. Non saprei che farmene se le prendessi! Ecco io … agisco e basta.” Diceva sghignazzando il Joker di Heath Ledger, esibendo incontenibile follia solo per nascondere i suoi machiavellici ed ossessivi piani. Forse è questo che mi turba, la sicurezza con cui nascondo la mia attuale incapacità di prevedere ed anticipare il futuro, la mancanza di una piano, di una rotta o di una via per passaggi inesplorati che mi permetta di creare ordine in questo caos. La cosapevolezza che le difficoltà esterne rendono sempre più pericolosamente allettante adagiarsi nella ripetitività di questo interminabile giorno della marmotta.

“Il linguaggio forma il pensiero”. Parlo con Bruna, con qualche vicino, ma dopo due mesi anche le telefonate si sono inaridite: “Come stai? Io bene, tu?”. Le video conferenze e le video chiamate ci sollevano dal peso delle parole, usate ormai come riempitivi quando non abusate dai media e dai tuttologi da bar sport. Ciò che mi spaventa sono le parole che perdo, quelle che “mancano” o che “non trovo” sempre più spesso. Come una scimmia appesa ad un calcolatore cerco su google sinonimi e significati che giorno dopo giorno, nell’isolamento, mi sfuggono. Mentre il mio pensiero si fa muto e stentato, attorno a me è un fiume in piena di parole senza senso capace di travolgere me ed il mio giudizio: questo mi spaventa.

“All work and no play makes Jack a dull boy” Questa è la frase che Jack Torrance, il Jack Nicholson dell’Overlook Hotel, ripete ossessivamente sulla macchina da scrivere. Forse anche lui, cercando di scrivere il suo romanzo, tentava di mettere ordine nel caos di quell’isolamento, tentava di usare le parole per dare forma al suo piano per arrivare a Maggio. Ma le parole gli sfuggono e tutto ciò che gli resta, sui tasti, è quella frase ossessiva che in qualche modo lo protegge, giorno dopo giorno, rimandando il tracollo. L’implosione veicolata dalla segregazione.

Le parole, devo ritrovare le parole. “Tu non sai stare da solo” – mi ha detto Bruna giorni fa – “Ti piace isolarti ma hai sempre avuto accanto qualcuno nel corso della tua vita”. Quante cose può insegnarci su noi stessi la solitudine di questi tempi? Ci sentivamo forti ed ora tremiamo nel riconoscere le nostre debolezze? Bene, maledettamente bene: perchè definire un problema è il primo passo per risolverlo. Avere paura significa essere ancora vivi.

1) fai una cosa alla volta 2) definisci il problema 3) ascolta 4) poni domande 5) distingui ciò che ha senso da ciò che non ne ha 6) accetta il cambiamento come inevitabile 7) ammetti gli errori 8) dillo in modo semplice 9) resta calmo 10) sorridi, respira, rendi estremo il banale!

Tutto questo non finirà,  non c’è una data di scadenza per questa situazione. Il 4 maggio non significa niente. Non è il D-Day, lo sbarco sulla Luna o Cristoforo Colombo nelle Americhe. Tutto questo non finirà dalla sera al mattino come un sogno. No, non finirà, ma è inevitabile che cambi: tutto ciò che devo fare è vedere ordine nel caos.

”Fare un nuovo passo, dire una nuova parola, è ciò che la gente teme di più.” (Fëdor Dostoevskij)

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