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La Falesia del DeeJay

La Falesia del DeeJay

Le ultime settimane le ho trascorse a grattare, levigare, spazzolare, stuccare e pitturare. Sto infatti ultimando i lavori alla “casetta del bosco” e questo, insieme alle nanerottole, cannibalizza tutto il mio tempo. Oggi però, dopo la prima mano di “Fondo finitura all’acqua bianco opaco per legno da interno”, non potevo fare altro che aspettare asciugasse e così, approfittandone, sono andato a farmi un giretto fuori casa. Il piano era scendere lungo le cascate del fiume Caprante, che scorre da Valbrona al lago, per piazzare una fototrappola non troppo distante dalle gallerie abbandonate del Liscione. Le gallerie, in cui veniva cavata la sabbia, sfruttano la stratigrafia della zona: piani calcarei si alternano a strati di sabbia ed il tutto è stato “ribaltato” verticalmente dal tempo. In pratica è una serie di “creste” di roccia alternate a strati più friabili, il tutto con un bel fiume che ci passa in mezzo ed un fitto contorno di rovi. In pratica il posto ideale per un sacco di animali. Da quelle parti mi sono imbattuto in cinghiali, mufloni, volpi e caprioli. Tuttavia gli animali notturni, ed il tasso è uno di questi, restano più difficili da vedere. Per questo ho piazzato una fototrappola davanti all’evidente ingresso di una tana realizzata proprio in uno degli strati di sabbia tra i piani di roccia. Tra qualche giorno scopriremo se quella “casa” ha un inquilino. La missione era compiuta, avrei dovuto tornare al mio “bricolage” ma avevo ancora “voglia”. Così, ho girovagato ancora per un po’. Ho attraversato uno degli strati rocciosi sfruttando una piccola grotta naturale e mi sono goduto lo spettacolo di una delle tante cascate che forma il fiume Caprante prima di tuffarsi nel lago. 

L’idea era quindi scendere al Guancito e risalire verso Caprante ma, fortuna o sfortuna, mi sono imbattuto nel sentiero che dal Guancito risale al Ceppo e così, nonostante non avessi con me il GPS per tracciare, ho ripreso a salire. Il sentiero è quà e là malconcio ma assolutamente percorribile facendo attenzione ai rovi che ogni tanto trabordano. Giunto al Ceppo, ai piedi del Kosmopolitan, è scattato il Forrest Gump che è in me: visto che ero lì, e non capita mai di esserci a piedi, mi sono messo a curiosare lungo la strada che scende ad Onno. “E’ zona gialla, è martedì, pioviggina… se ti tirano sotto è proprio sfortuna!”. Ovviamente camminavo sporgendo la testa oltre il guard-rail per osservare le pareti sottostanti. Il mio timore non era tanto cadere, quanto che qualcuno si fermasse credendomi un aspirante suicida: l’aria stralunata di uno che cerca il punto giusto per lanciarsi in un piovoso martedì di pandemia c’era tutta! La prima cosa interessante è che, inaspettatamente, appena oltre il parapetto c’è un “sentiero”, già, ma intendiamoci bene, un sentiero per animali!! Nonostante si incredibilmente esposto sul vuoto sottostante – ed assolutamente improponibile per un essere umano privo di corda! – è molto battuto ed evidentemente molto usato: è tortuoso, complicato nei passaggi attraverso i canali, ma esiste e gli animali, stretti tra la roccia e la strada, lo usano per evitare entrambe. La tentazione era tanta, ma è seriamente improponibile infilarsi su quella traccia. Così ho continuato sulla strada studiando l’alto pilone prima della galleria. Mattia, due o tre anni fa, era andato a curiosare da quelle parti perchè, su un vecchio annuario del Cai Canzo, avevamo trovato traccia di una vecchia via d’arrampicata. Sul pilone ho infatti trovato degli spit ed una vecchia sosta con tanto di cordino e moschettone a ghiera. Tuttavia non credo sia la via che, in effetti, trovò Mattia: quella era una via molto più vecchia realizzata con chiodi a pressione e non spit. Quindi questa è qualcosa di più recente, anche se comunque datata e poco invitante. Continuando lungo la strada sono arrivato alla stretta galleria che, grazie ad una piccola traccia, è possibile aggirare all’esterno. Sempre all’esterno della galleria è possibile abbassarsi ed abbandonare la strada per addentrarsi in uno strato scenario post-apocalittico. Dall’alto, dalla strada, è possibile vedere la quantità di rifiuti che, ahimè, sono stati buttati di sotto. Tuttavia, quando sei “sotto”, la realtà supera la fantasia… e di molto! Lassotto c’è di tutto, e di tutte le epoche! Ovviamente disapprovo completamente questo comportamento ma, confesso, ho sempre avuto un’innata curiosità per tutto ciò che viene abbandonato nel bosco. Se l’umanità si estinguesse e la natura riprendesse il sopravvento sarebbero i rifiuti la principale testimonianza del genere umano… così, mentre mi aggiro tra simili assurdità abbandonate, mi sento un po’ antropologo ed un po’ sopravvissuto. Ma andiamo con ordine. La prima cosa che si può osservare è una significativa quantità di ossa. Inizialmente avevo il timore che, oltre al resto, quella fosse una discarica di carogne per animali domestici, una specie di cimitero per cani senza tasse governative. In realtà la maggior parte dei crani aveva le corna: questo esclude in parte la “teoria-canina” e rimarca come il sovrastante sentiero, quello oltre il guard-rail, sia significativamente pericoloso anche per gli animali che lo percorrono. Tuttavia le ossa sono la sola cosa naturale abbandonata da quelle parti: abbiamo davvero di tutto, dall’industriale al domestico, dall’amatorale al professionistico! Ci sono ovviamente paraurti, specchietti, ecc… frutto degli inevitabili piccoli incidenti che possono avvenire su una strada stretta come la Onno-Valbrona. Poi però ci sono interi “quarti” di automobili che qualcuno ha dapprima sezionato e poi buttato di sotto! Auto tagliate letteralmente in quattro pezzi, caricate su un camion e lanciate giù dalla scogliera… incredibile! Qualcuna molto vecchia, qualcuna invece più recente. Oltre a questo anche pezzi di moto: ho riconosciuto un vecchio Vespone giallo ed il manubrio di un vecchio Piaggio. Ma il campionario di stranezze prosegue: una tastiera, una radio, un’infinità di bottiglie e lattine, scarpe a profusione, copertoni di camion. Anche uno strano aggeggio ospedaliero. Il censimento potrebbe andare avanti all’infinito: un vecchio sci della Spalding, un “A-Team” rosso simile a quello che usava mia mamma negli anni ottanta. Credo sia un destro perchè l’etichetta “PrinaSport” – che se non ricordo male era in piazza a Pontelambro – si usava così ai tempi. La domanda però sorge spontanea: okay, il carrozziere con il camion e le macchine a pezzi voleva liberarsi dal rottame senza pagare e, via, tutto di sotto in una notte di pioggia. Ma gli altri? Gli altri che scusa hanno? Perchè buttare gli sci, la sdraio, l’imbottitura del divano giù dalla scarpata? Lo sbattimento per portare questa roba sulla Onno-Valbrona è lo stesso necessario per portare il tutto in discarica il sabato mattina? Questa gente è doppiamente stupida? Non saprei, l’unica cosa certa è l’impatto dell’uomo sul mondo negli ultimi 70/100 anni: incredibile, irreversibile, inarrestabile. I posteri, se l’umanità riuscirà a sopravvivere, ci considereranno degli idioti incivili. Prima o poi, quando saranno più grandi, porterò le nanerottole in un posto simile. Certo, si deve fare molta attenzione ai vetri, a non farsi male, ma è certamente istruttivo perchè offre un’importante punto di vista sulla società in cui viviamo, la società in cui dobbiamo distinguerci, in cui dobbiamo fare la differenza oltre che la differenziata. Nel frattempo, con molta schiettezza, non ci resta che sperare che questa gente muoia, male ed in abbondante quantità… 

Davide “Birillo” Valsecchi    

Fanculo la Pandemia!

Fanculo la Pandemia!

Sono nato negli anni settanta, ho vissuto gli anni ottanta, gli anni novanta, il nuovo millennio, la prima decade, raggiunto gli anni venti. Mio padre è in vantaggio solo per gli anni cinquanta e sessanta, ormai ho quasi il doppio degli anni che ci dividono, ho una moglie, due bambine. Questa rivelazione mi coglie all’improvviso, alla sprovvista: “Cristo … e nonostante tutto questo, Birillo, sei ancora un tale coglione!” Mia moglie sta preparando la cena cucinando della carne sulla piastra. Forse è l’odore, forse lo sfrigolio sulla ghisa, ma si riaccende un ricordo lontano. Un ricordo che risale ai tempi in cui vivevo in città, affascinato dai misteri delle metropoli, della vita urbana ed underground. Un ricordo di notti analogiche, senza gsm, con le cabine telefoniche e le schede prepagate. Notti passate in giro per la città, per locali e bettole segnate a penna sul Tuttocittà sgualcito. Notti di battaglia vagando sul pavè bagnato. Quando la musica si spegneva ed i buttafuori gettavano gli ultimi disperati sui marciapiedi tutto sembrava acquietarsi, ma in realtà iniziava il campionato hard-core per i nightriders. Stravolti e sconvolti ci si trascinava verso gli incroci e le rotonde di periferia in cerca di un “baracchino aperto”, di un’isola luminosa nel buio delle strade deserte. Un panino con la salamella calda ed una birra in bottiglia: una promessa sensuale come un bacio languido! Quei baracchini, nelle zone più deserte della città, erano crocevia di umanità notturna tra le più disparate. Gente di ogni tipo, qualcuno sobrio, qualcuno arrabbiato. Falene attratte dalla luce. Leoni e gazzelle che cercano di bere alla stessa pozza d’acqua nella notte africana. Io ero quasi sempre il più casinista del mio gruppo, lo stramboide con lo sguardo folle che saltella come un clown. Sorridevo al proprietario del baracchino e poi, con la bottiglia in mano, urlavo qualche sciocchezza, un brindisi strampalato per far ridere tutti i presenti. Così, prima di bere sereno, potevo farmi un idea di chi c’era, di chi aveva riso, di chi no, di chi ti aveva già squadrato, di chi poteva provare a derubarti tornando alla macchina, di chi voleva fare a botte per noia, di chi voleva solo gustarsi il finale della notte, magari chiacchierando con qualche sconosciuto. Già, birra e salamella dallo squallido. Che ricordi. Forse è più di 10 anni che non mi ritrovo nel cuore della notte a cercare un baracchetto. Bruna continua a cucinare, io riempio il bicchiere di birra. Ormai è Marzo, ma nel 2021 non ho ancora bevuto un boccale alla spina. Che follia. I baracchetti notturni, per via del coprifuoco, saranno ormai prossimi all’estinzione: travolti da un cambiamento che perdura da oltre un anno e che ancora fatichiamo a comprendere nella sua interezza. Bevo la mia birra e chiudo gli occhi. Per un instante sono nel futuro, un futuro incerto ma nuovamente affollato. Un futuro nella penombra di un baracchino, nel trambusto di una birreria accalcata con le panche ed i tavoli in legno. Un futuro in cui sgomiti gentaglia sudaticcia per raggiungere il bancone ed agganciare l’attenzione del barista. Un futuro in cui quello stramboide del Birillo afferrerà il bicchiere e, alzandolo storto sopra la testa, urlerà brindando: “Fanculo la pandemia!”. Un urlo di guerra a cui tutti risponderanno, rabbiosi e felici, brindando insieme in un unico e corale ruggito liberatorio: “Fanculo la pandemia!”. Dannazione, il “Valerio” del nuovo millennio. Certo, prima o poi finirà, ma non ne usciremo migliori, non andrà tutto bene. Ne usciremo a pezzi, con le ossa rotte. La pandemia è un mix concentrato agli steroidi di “11 Settembre” e “Subprime”: niente tornerà come prima. Il cielo è azzurro nella luce della primavera, ma i miei occhi non riescono comunque a vedere oltre la nebbia che ci avvolge. Chissà se un giorno, gomito a gomito al bancone con uno sconosciuto, capiterà ancora di guardarsi in faccia, agitare distrattamente il boccale e sussurrare con aria stravolta: “Viva!”. Quel giorno sì, avremo vinto, sarà davvero finita. Non resta che aspettare… Fanculo la pandemia: voglio una chiara alla spina!

Davide “Birillo” Valsecchi

Bottiglie nel Bosco

Bottiglie nel Bosco

Lo status di semi-libertà che ci concede la “zona gialla” mi ha permesso di lasciare l’Isola Senza Nome per riabbracciare, dopo quasi dieci anni di assenza, una delle montagne che ha sempre saputo affascinarmi: il Castel di Leves. Una montagna misteriosa, labirintica. Non è particolarmente alta, ma con i suoi modesti 970 metri di quota si innalza per 700 metri, quasi verticale,  sopra l’abitato di Onno e lo specchio del lago. Per molti aspetti è simile al Moregallo, che infatti si trova poco più a sud lungo la Dorsale Orientale del Triangolo Lariano. Tuttavia, a differenza del Moregallo, il Castel di Leves riesce ad essere incredibilmente ostile sul versante Est quanto docile sul versante Ovest: è infatti possibile quasi raggiungerne la cima e le pendici occidentali in macchina, salendo da Lasnigo, da Barni o da Magreglio. Forse è questa particolarità che ha dato vita ad un inconsueto “incontro”. Tutto il territorio lariano è fortemente antropizzato, sono pochi i luoghi in cui non è visibile l’operato, presente o passato, dell’uomo. Spesso i luoghi più reconditi e meno frequentati, laddove la morfologia del territorio lo permette, diventano teatro dell’agire umano più nocivo: l’abbandono dei rifiuti. Gettare oggi rifiuti in un bosco, sul ciglio della strada o nel lago è un crimine, non solo per la legge ma anche per il buon senso. Chiunque oggi, nostro contemporaneo, abbandoni impropriamente dei rifiuti, di qualsiasi tipo, è un idiota. Punto.  Come tale va perseguito e perseguitato! Questo per il presente, tuttavia ho imparato che con il passato, per avere un futuro, è necessario fare pace. Per tanto non sono così sprezzante verso ciò che è stato fatto prima che il problema dei rifiuti diventasse evidente. Anzi, per certi versi questi “lasciti” del passato stuzzicano il mio lato archeologico tanto da avermi reso “esperto” nella datazione di alcune tipologie di rifiuti. Detto questo, però, ammetto che una cosa simile non mi era mai capitata: questa è la più grande discarica di bottiglie vecchie in cui mi sia mai imbattuto! Ma andiamo con ordine. Stavo rientrando verso la cima del Castel di Leves per  il sentiero che corre da Magreglio lungo il crinale  quando, appena sotto la traccia, ho notato quello che sembrava (e che probabilmente è) un paraurti cromato di una vecchia 500. Quelle macchinette, piccoline e leggere, un tempo erano utilizzate come veri e propri fuori strada. Anche io da bambino, classe 1976, ho fatto in tempo a sperimentarle – come passeggero – sullo sterrato. Così, incuriosito, sono sceso a dare un occhiata e quello che mi sono trovato davanti ha superato ogni mia aspettativa: mai visto così tante bottiglie!! Ovviamente ce ne era uno sterminio in pezzi ma anche moltissime ancora integre. Così mi sono messo a studiarle radunando insieme i vari “modelli” che riuscivo ad individuare: ce ne sono infatti di ogni tipo, grandi, piccole, esotiche o comuni. C’è il classico calice ribaltato del “Campari”, solo che questo porta in rilievo la scritta “Davide Campari” e sembra un modello degli anni ‘50/’60. Anche la classica bottiglia “Fanta” marroncina con l’impugnatura ondulata. Bottiglie tonde o  quadrate di sciroppo. Bottiglie d’amaro, triangolari, di Burbon con la zigrinatura a rombi. Una “Fazi Battaglia” con la sua iconica forma quasi immutata dal 1949. Bottiglioni, fiaschi: molte riportano, in modo quasi ironico, la dicitura in rilievo “Senza Cauzione”. Un inferno di vetri che si allunga verso il basso (dove è totalmente sconsigliato cadere o scivolare!) ma allo stesso tempo una specie di museo a cielo aperto. Ero allibito ma anche confuso: cosa fare di tutta quella roba? Per ripulire quella zona servono, ad occhio e croce, almeno un paio di giornate di 5 o 6 persone e quasi sicuramente uno o due viaggi di un Bonetti. Oltretutto, al di là degli sforzi e dei mezzi necessari, probabilmente serve anche qualche permesso: un tempo forse si arrivava in quel punto passando per prati quasi pianeggianti, ora serve quasi certamente aprirsi un passaggio nel bosco o quanto meno trovare una linea per far passare un piccolo Quad. Tuttavia mi stuzzica pensare che qualche vecchia bottiglia d’epoca – ed il giusto collezionista – possano contribuire a risolvere il problema nella sua interezza. Francamente non riesco a darmi spiegazione del perchè in passato fosse prassi comune – o forse esigenza – quella di buttare il vetro giù dai dirupi. Mi è capitato spesso di imbattermi in simili “depositi”, ma mai così grandi e “vecchi”. Confesso che bottiglie vecchie di oltre settant’anni mi disturbano molto meno di un frigorifero, una lavatrice o del gettonatissimo lavandino in ceramica. Tuttavia quella zona, dove probabilmente correva un vecchissimo sentiero persino antecedente alle bottiglie, è quasi un campo minato per qualsiasi animale abbia la sventura di avventurarvisi, domestico o selvatico che sia. Non mi è chiaro cosa volessi – o sperassi – di ottenere rovistando tra quei vetri solo per mettere in posa qualche bottiglia sana. Non lo so. Non so nemmeno cosa sperare di ottenere scrivendo questo articolo. Rovistare tra i rifiuti vecchi più della nonna di chi legge non credo garantisca il celebre quarto d’ora di celebrità alla Andy Warhol. Anzi, rischia solo di indispettire i tanti volontari che – meritevolmente – si sono spesi per mantenere in buono stato il sentiero che passa lì vicino. Però davanti ad una tale quantità di bottiglie forse è impossibile non testimoniare il proprio stupore. Quindi, per ora, mi limiterò a mostrarvi alcune foto condividendone le coordinate geografiche (45.919439 N /9.277364 W). Vediamo che succede…

Davide “Birillo” Valsecchi     

La collina dei ciliegi

La collina dei ciliegi

E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante, cancella col coraggio quella supplica dagli occhi: troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante, e quasi sempre dietro la collina è il sole. Ma perché tu non ti vuoi azzurra e lucente? Ma perché tu non vuoi spaziare con me, volando intorno la tradizione come un colombo intorno a un pallone? E con un colpo di becco, bene aggiustato, forarlo e lui giù, giù, giù… e noi ancora, ancor più su! Planando sopra boschi di braccia tese. Un sorriso che non ha né più un volto, né più un’età.

E respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini, ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini. E più in alto e più in là, se chiudi gli occhi un istante: ora figli dell’immensità.

Se segui la mia mente, se segui la mia mente, abbandoni facilmente le antiche gelosie. Ma non ti accorgi che è solo la paura che inquina e uccide i sentimenti? Le anime non hanno sesso, né sono mie. No, non temere, tu non sarai preda dei venti. Ma perché non mi dai la tua mano, perché? Potremmo correre sulla collina e fra i ciliegi veder la mattina (e il giorno). E dando un calcio ad un sasso, residuo d’inferno, farlo rotolar giù, giù, giù… e noi ancora, ancor più su! Planando sopra boschi di braccia tese. Un sorriso che non ha né più un volto, né più un’età.

E respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini, ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini. E più in alto e più in là, se chiudi gli occhi un istante: ora figli dell’immensità.

L’Isola dei Bambini Quattro

L’Isola dei Bambini Quattro

Con grande tempesta, tuoni e lampi la nostra avventura incominciò. Il mare in burrasca e i forti venti, il grande veliero affondò. Tutta la notte cercammo gli assenti ma più nessuno si salvò.  E trascinati da forti correnti finalmente terra si toccò. Ora siamo su quest’isola, poche le comodità ma come in una grande favola noi viviamo in libertà. Sembra un paradiso l’isola qui non c’è malvagità mai la vita si fa gelida regna la serenità. Ma quando buio si fa, verso sera scende la paura, il grande fuoco s’accenderà, la capanna resterà sicura, tutti in coro si canterà, ninna nanna nella luna chiara ed il piccino s’addormenterà. Vita libera sull’isola, piccola comunità, la natura ci fa regola con la sua maternità Il sole già alto su nel cielo, i pappagali parlano di già, le trappole pronte attendono al suolo, oggi buona caccia si farà. La piroga è scesa in alto mare, quanto pesce porterà. Al campo muore l’ultimo fiore, nel vecchio mondo più si tornerà.

The monster lived on

The monster lived on

MAXINE: Oggi a scuola uno dei miei studenti è venuto a consegnarmi il suo diario. Il suo nome è Jimmy. È un bravo ragazzo. Si sforza davvero. Ho notato che aveva un graffio sulla fronte, e così gli ho chiesto come se l’era fatto. Mi ha detto che lo aveva scritto nel suo diario e mi ha chiesto se volevo leggerlo. Così l’ho letto durante la mia pausa pranzo. Raccontava di come Jimmy ed i suoi amici stessero giocando alla guerra. Sai …la guerra.

CALVIN: Certo. Fucili giocattolo e tutto il resto.

MAXINE: Jimmy era dalla parte cattiva. Stava interpretando uno dei cattivi. Era salito su albero, ma mentre si nascondeva ha perso l’equilibrio ed è caduto atterrando proprio su uno dei suoi amici che stavano sotto. Tutti i bambini sono accorsi, volevano assicurarsi che entrambi stessero bene. Tutti tranne uno: questo ragazzo salta fuori e spara a tutti i cattivi …e poi si vanta di aver vinto, da solo! E immagino che tecnicamente l’abbia fatto: gli altri bambini non hanno dovuto aiutarlo. Così i cattivi hanno perso. Credo che Jimmy si senta davvero male per l’intera faccenda. Non saprei …non sono esattamente sicura di cosa volesse chiedendomi di leggere il suo diario. Tuttavia ha scritto tutto in modo così dettagliato: quello che è successo deve averlo davvero colpito!

CALVIN: Beh. Probabilmente Jimmy vuole sapere cosa ne pensi tu di un ragazzo del genere. La tua opinione è probabilmente importante per lui.

MAXINE: Tu cosa ne pensi? Del ragazzo che ha sparato ai cattivi?

CALVIN: Non lo so. Un bambino così cresce per essere una persona importante, credo. Come un …come il capo in una fabbrica o … forse il presidente. Non lo so. I bambini sono tosti.

MAXINE: Ma che tipo di ragazzo eri tu?

CALVIN: Io? Io sarei il ragazzo che Jimmy ha schiacciato quando è caduto dall’albero.

“I just killed a man. The monster lived on.
And in the end, the war was won by heroes.
Not me. Do you understand?”
(The Man Who Killed Hitler and Then The Bigfoot )

Il Mirtillo non lo sà

Il Mirtillo non lo sà

Questo week-end sono stato coinvolto, nonostante la pioggia battente, in un’intensa lezione di botanica alpina sul campo. Confesso che le mie conoscenze in ambito floreale sono pari al mio interesse per l’argomento, tuttavia la nostra insegnante, una giovane botanica, è riuscita laddove molti prima di lei – alcuni personaggi piuttosto pittoreschi – avevano clamorosamente fallito per oltre trent’anni: incuriosirmi.

Io credo che la maggior parte della gente si fissi sulla stupida “mania” di esibirsi nella conoscenza dei “nomi” dei fiori perchè il nozionismo superficiale con cui ci si adegua ad una convenzione è lo scudo migliore sotto cui nascondere un’ignoranza profonda. Tuttavia i nomi, nonostante siano arbitrari e spesso transitori, hanno un intrinseco potere nel linguaggio: “un nome definisce ciò che esiste” e questa definizione è spesso il punto di partenza di una storia.

Questo è il caso della Myosotis Alpestris. La giovane Botanica, incontrandone alcuni esemplari sulla morente morena del ghiacciaio Ventina, si è chinata per descrivere ai miei compagni le caratteristiche di quel piccolo fiore azzurro dal centro giallo. Una leggenda tedesca narra che il suo nome “volgare” derivi da una supplica del piccolo fiore a Dio, quando questi stava assegnando un nome a tutte le creature del creato: “non ti scordar di me”.

Io ero distratto in qualche altrove, come lo sono quasi sempre, ma quel piccolo fiore è riuscito a colpirmi, travolgendomi di nostalgia. Quel piccolo fiore azzurro era infatti il preferito di mia mamma e spesso appariva come decorazione dei suoi fazzoletti di stoffa. Così, incuriosito per motivi che nulla sembrano legati alla botanica, mi sono immerso nella spiegazione ascoltando una storia che non conoscevo.

“Il fiore diventa di colore blu dopo che gli insetti lo hanno impollinato, prima è di colore rosa. In questo modo la pianta comunica agli insetti su quali fiori posarsi e quali lasciare in pace”. All’improvviso la nostalgia ha lasciato spazio ad un pensiero più ampio e complesso: “…in che senso comunica?”.

Nella mia mente cercavo di immaginare gli algoritmi, sotto forma di procedure meccaniche e chimiche, che rendono possibile che il fiore, una volta avvenuta l’impollinazione, cambi colore. Tuttavia per la pianta, abusando dell’espressione, questo è un riflesso meccanico e non un atto di volontà. In realtà non esiste neppure una vera comunicazione, il fiore non ha nè coscienza del cambiamento nè alcuna possibilità di conoscere quali effetti ha sul mondo circostante.

L’evoluzione non è un atto volontario, “la pianta non si è volotariamente evoluta per cambiare colore”, semplicemente tutti i fiorellini rosa di quella primitiva famiglia che non hanno cambiato colore si sono estinti o sono diventati qualcos’altro. L’evoluzione è un processo brutale e violento in cui statistica e grandi numeri “selezionano”, in tempi che spesso coinvolgono centinaia se non migliaia di generazioni, ciò che è “vincente” – e perdura – da ciò che è “perdente” – e scompare. Tuttavia l’individuo, in tutto questo, è assolutamente vittima inconsapevole.

Così mi sono focalizzato sulle parole e sul modo con cui presentava le piante. “Il linguaggio forma il pensiero”. Il problema generale è infatti il linguaggio comune e le sue trappole. Così anche la dottoressa, che è straordinaria nel proprio campo di competenza, utilizzava il linguaggio dando spazio al fraintendimento diffuso sull’evoluzione. Un errore che invero è probabilmente giustificabile poichè cerca di ridurre e semplificare “a favola” un’idea tanto enorme da essere, francamente, difficile da abbracciare nella sua interezza.

“La pianta di mirtillo sfrutta gli animali che si cibano dei suoi frutti per diffondere i propri semi su un territorio più ampio”. Questa è la realtà così come comunemente siamo abituati a vederla, nella sua causa-effetto, ma di fatto questa NON è la realtà. Il mirtillo non lo sà, non ha la mimina idea di cosa accada ai suoi semi, non ha “progettato” il suo frutto perchè sia più appetitoso o i suoi semi perchè siano più adatti a resistere ai succhi gastrici degli animali durante il curioso viaggio dalla bocca al culo che li porterà verso “altrove”. No, il mirtillo non sa nulla di tutto questo, non sa nemmeno di esistere.

Eppure ogni anno, come tutte le creature viventi di questo pianeta, compie uno sforzo incredibile per obbedire ad un unico comandamento: “riprodursi”. Questo sforzo enorme anima lo scintillio poliedrico che è il mondo floreale ed ha un solo scopo: “mischiare le carte”. Perchè l’evoluzione è un’infinita e continua “permutazione” di elementi che crea individui “simili ma diversi” affinché, statisticamente, qualcuno di questi individui manifesti – inconsapevolmente – un piccolo ma efficace cambiamento che possa consolidarsi in modo vincente rispetto ai cambiamenti circostanti. “Survival of the fittest”

No, il mirtillo non lo sà, non lo sà che i suoi primitivi e diretti antenati hanno azzeccato, generazione dopo generazione, la “svolta” giusta ad ogni bivio evoluzionistico. Non lo sa che esistono miliardi di suoi parenti “quasi mirtillo” che, senza colpa o volontà, sono “nati inadatti” e si sono estinti. No, il mirtillo non lo sà, e questo mi inquieta perchè presuppone che neppure io, come individuo della mia specie, abbia davvero consapevolezza di quali siano le strategie vincenti – così come i madornali errori – che sto inconsapevolmente mettendo in atto o che sto passivamente subendo.

A complicare le cose un’altro incontro poco distante dal Ventina: il larice millenario della Valmalenco. Una pianta che, ai margini di un ghiacciaio, sopravvive per migliaia di anni è un individuo che hai miei occhi appare leggendario. Nel mio immaginario è il Christopher Lambert dei larici, un “highlander” con Freddy Mercury che gli fa da colonna sonora ogni volta che sorge il sole: “I am immortal, I have inside me blood of kings. I have no rival, no Larch can be my equal: take me to the future of you all!”. Così ho posto timidamente alla dottoressa una domanda: “Ma anche gli alberi millenari ogni anno attivano il processo riproduttivo o redirigono tutte questo energie in ciò che li aiuta a vivere più a lungo?”. Volevo sapere se un individuo aveva la capacità di sottrarsi al cerchio della vita trasformando se stesso, evolvendo volontariamente per estendere la propria esistenza (BioHacking). La risposta però è stata sconsolante: le piante millenarie sono piante come tutte le altre, che seguono lo stesso ciclo come le altre, solo particolari condizioni ambientali hanno permesso loro di vivere tanto a lungo.

Le piante millenarie, sebbene testimoni di un tempo oltre l’umana concezione, non sono speciali, hanno solo avuto fortuna. La loro millenaria individualità si perde nei milioni e miliardi di anni attraverso cui si muove l’evoluzione. Riprodursi attraverso poliedriche imperfezioni e cambiamenti rimane la violenta e vincente scelta della vita. L’esistenza di ognuno di noi è un tiro di dadi nello sconfinato casinò che è l’universo… fanculo ad Einstein ed ai Creazionisti.

Non ti scordar di me, una supplica di un fiore a Dio. Non ti scordar di me. Guardando un fiore dovremmo sentirci tristi, perchè sono la prova vivente che la nostra vita, in un gioco più grande, è davvero poca cosa. Ma prima di tornare a Chiareggio un’ultima strana rivelazione mi è apparsa, impetuosa e consolatrice: “Il mirtillo non lo sa, ma la mucca sì!”

Una rivelazione che trova nome in una pianta: Veratro! Già una pianta dall’apparenza decisamente brutta, fogliacce verdi in mezzo ad un prato, qualcosa che difficilmente interesserebbe gli invasati del “nomen florum”. Eppure, senza saperlo, era per me illuminante! L’evoluzione, attraverso una deriva di permutazioni nel tempo, ha infatti ha selezionato questa pianta rizomatosa valorizzando un suo particolare aspetto funzionale: essere velenosa!

Gli antenati della veratro che non erano velenosi, o anche solo vagamente velenosi, si sono estinti. Hanno smesso di esistere come “specie” perchè quando ti mangiano, e non hai altri jolly da giocare, difficilmente ti riproduci. Il verato invece erà lì, cazzuto ed incazzoso, pronto a vendicarsi: “Muoia Veratro con tutte le mucche che si azzarderanno a mangiarlo!”. Perché in fondo è una pianta sfigata: totalmente “perdente” se implicitamente non facesse affidamento sull’intelligenza della mucca.

Già, perchè la mucca lo sa che non deve mangiarlo il Veratro. Mentre il mirtillo non lo sa che il destino della sua prole è affidato al buco di culo di qualche ungulato (o di qualche bipede) la mucca è un mammifero, e questo cambia davvero tutto!

La mucca infatti NON mangia il Veratro, ma NON lo fa NON perchè una volta l’ha assaggiato ed è morta, non è un’esperienza diretta a condizionarla. Non è qualcosa di passivo, meccanico o involontario o istintivo come accade per il rosa ed il blu del “non ti scordar di me”. No, è un’azione volontaria, consapevole, che non essendo frutto di un’esperienza diretta dell’individuo è il risultato di un insegnamento ricevuto e maturato da un’esperienza indiretta. Una piccola straordinaria magia!

L’evoluzione, come una potentissima Intelligenza Artificiale (AI) che traffica senza sosta con la spietata legge dei BigData, nel suo violento percorso di selezione è giunta alla conclusione che un individuo, prendendosi cura ed educando la propria prole, può accelerare e diversificare i cambiamenti che permettano a tale specie di perdurare nonostante le trasformazioni dell’ambiente che li circonda. L’evoluzione non più come mutazione strutturale quanto invece comportamentale. Mica paglia!!

Il vitellino quindi batte a mani basse il larice millenario, soprattutto perchè la mucca è in grado di “educarlo” senza possedere un linguaggio evoluto o una consapevolezza simile alla nostra. Altro che Internet e protocolli di commutazione a pacchetti! L’uomo, con la sua straordinaria capacità di essere individuo, è di fatto il culmine della strategia evolutiva della vita. Il fatto che l’uomo abbia le potenzialità e la volontà di “esportare” la vita su altri pianeti ne è infatti una prova quasi evidente.

Tuttavia ogni strategia, per quanto evoluta, può rivelarsi tanto vincente quanto perdente nella sua attuazione. La nostra società ha aggregato gli “individui” fino alla “massa” rendendo possibili risultati insperati. Tuttavia questa massificazione, forse per la prima volta dall’alba dei tempi, sta trasformando l’ambiente – mortificando anche il libero arbitrio degli individui – con una rapidità ed un’incidenza tanto sproporzionata da mettere a rischio la scommessa di fondo dell’evoluzione: “la vita trova sempre una via”.

Il mirtillo non lo sa che, mentre lui affida con successo i suoi figli alle feci di qualche animale, suo cugino, il “falso mirtillo” (Vaccinium uliginosum), ha reso i propri frutti psicotropi se assunti in gran quantità. Loro non lo sanno, sono nati così, non hanno scelta: noi invece possiamo scegliere, e non è una differenza da poco.

Alla fine di questo viaggio credo dei nomi dei fiori mi interessi ancora meno di quando siamo partiti, ma sono convinto che la lezione offerta a noi dal regno delle piante, così come il suo rapporto con quello animale, sia inestimabile. Sto diventando decisamente vecchio, ma credo anche siano state le nanerottole, “Le Sorelle Tempesta”, e quel polpettone di “Interstellar”, ad aprirmi gli occhi su ciò che era sempre stato sotto il mio naso:

«Dopo che siete nati voi, tua mamma mi ha detto una cosa che non avevo mai capito. Mi ha detto “Ora siamo qui solo come ricordi per i nostri figli”. Credo di aver capito che cosa voleva dire. Quando diventi genitore sei il fantasma del futuro dei tuoi figli.»

Davide “Birillo” Valsecchi

Diario della Quarantena

Diario della Quarantena

Il viso, furioso e trasfigurato, di Eduardo “Lalo” Salamanca ci augura la buona notte con una punta d’ansia, mentre è la piccola Andrea, all’alba, ad imporre la sveglia. Apro lo sportello del frigor: yogurt, cereali, succo di frutta. Metto sul fuoco il caffè, cambio il pannolino ad Andrea, sveglio Bruna e la piccola Noa. Ogni giorno della quarantena è come il giorno della marmotta, nel mio caso dei marmocchi. Noa è nata il 14 Febbraio, usciti dalla sala parto all’asilo di Andrea era in atto un’epidemia di “Bocca Piedi Mani (EV-71)”: per aiutare Bruna, “puerpera” con due bimbe da gestire tra le mura domestiche, ho sfruttato i giorni di congedo parentale per stare a casa. Nel giro di una settimana l’epidemia, di Covid-19 questa volta, si è trasformata in pandemia… ed eccoci qui, 71 giorni dopo.

C’è qualcosa di biologico nel pianto dei neonati, qualcosa che impedisce il corretto funzionamente del cervello. Incasina i pensieri, scardina gli schemi ed acquisisce priorità assoluta, persino sulla volontà. Una prigionia nella prigionia: un imperativo atavico che, barricati in casa, scandisce lo scorrere delle giornate come la sirena di una fabbrica. Quando questa mattina le nanerottole strillavano in stereofonia ho perso il controllo della mia “fame di spazio” e la casa, ormai accampamento, mi si è chiusa addosso: affogavo incastrato tra gli stipiti delle porte che non portano in nessun luogo.

Così, per arginare il caos, ho preso in braccio Andrea, armato di pennarelli ed un foglio A4, ho iniziato a disegnare il diario della quarantena. “La nostra mente, per il modo in cui si è evoluta, lavora per immagini: per questo facciamo disegni e scriviamo!”. Come i carcerati si comincia tracciando una piccola barretta per ogni giorno trascorso in gattabuia, si prosegue poi inseguendo le date: l’ultima volta che ho fatto benzina, l’ultima volta che siamo andati a passeggio tutti insieme fuori dal giardino. Si elencano le “missioni di approvvigionamento”, le date in cui, armati di uno screen-shot sullo smart-phone, ci si è spinti in una solitaria avventura fino al supermercato per ritirare la spesa prenotata via Internet. Quanta nostalgia per quel bottiglione di Aperol comprato nell’ultima occasione in cui ho spinto il carrello tra gli scaffali!!

Sul foglio si continua riportando cose a caso: i videogiochi finiti, le serie concluse, gli eventi eccezionali. Già perchè quella volta dal dentista oppure la prima vaccinazione di Noa sono state giornate d’ansia, ma anche occasioni da segnare sul calendario. Anche quella volta in cui, mancando un gradino, mi sono distorto una caviglia finisce sul “diario della quarantena”: quanto era stato divertente inviare le foto del piede fasciato con la didascalia “Vedete, anche a casa ci si fa male!”. Quanta arguzia nell’aggiungere immobilità ad una situazione immobile! Qualcuno sul proprio diario della quarantena riporterà risultati incredibili, qualcuno avrà preso una seconda laurea, qualcuno avrà imparato il mandarino, qualcun’altro sarà diventato istruttore di Cross-Fit domestico con addominali da urlo. Io no, sono ingrassato, mi fanno male le ossa e passo le giornate ad inseguire le bambine. Mi consola che forse, tra dieci anni, ripenserò a questo periodo come ad un momento bellissimo della mia vita da genitore… qualcosa su cui anche Leo Ortolani potrebbe realizzare una striscia quotidiana. Magari con la vignetta scritta in mandarino…

Andrea mi dà corda, ma si stufa di numeri e dati: afferra un pastello a caso ed inizia a tracciare ghirigori sopra le parole. Forse sono stufo anche io ed improvvisamente ripiombo negli anni 90, quando seduti accanto ad un telefono fisso, con la cornetta in mano, passavamo il tempo chiacchierando e pasticciando con la biro interi fogli di carta, rimpiendoli di forme, simboli e piccole decorazioni. Ben presto la nana si stanca anche di scarabocchiare ma il suo papà, che aveva tanto cercato di coinvolgerla, no. Compare un righello, dei pennarelli, un paio di chiavi inglesi, forme e formine di tutti i tipi. L’analisi razionale lascia spazio a velleità artistiche per naufragare nella semplicità di un gesto senza scopo.

“La gente esibisce ciò che difetta maggiormente”. Sul mio foglio avevo cercato di fare ordine sulle mie giornate ma avevo finito per seppellire ogni cosa sotto il caos di forme e colori confuse, senza senso. Ma ciò che mi appariva evidente è che in quel caos, che io stesso avevo creato, stavo cercando inconsapevolmente di giustapporre le cromie, i segni, di portare equilibrio, in definitiva ordine.

“Birillo, questa è la verità: tu insegui il caos solo perchè hai il bisogno di trovarvi un tuo ordine. Ti giustifichi trovando soluzioni alternative, inesplorate, inconsuete, ma per quanto ti piaccia rappresentarti in modo assurdo sei ordine, non caos”. Autocoscienza fastidiosa…

“Ti sembro davvero il tipo da fare piani? Lo sai cosa sono? Sono un cane che insegue le macchine. Non saprei che farmene se le prendessi! Ecco io … agisco e basta.” Diceva sghignazzando il Joker di Heath Ledger, esibendo incontenibile follia solo per nascondere i suoi machiavellici ed ossessivi piani. Forse è questo che mi turba, la sicurezza con cui nascondo la mia attuale incapacità di prevedere ed anticipare il futuro, la mancanza di una piano, di una rotta o di una via per passaggi inesplorati che mi permetta di creare ordine in questo caos. La cosapevolezza che le difficoltà esterne rendono sempre più pericolosamente allettante adagiarsi nella ripetitività di questo interminabile giorno della marmotta.

“Il linguaggio forma il pensiero”. Parlo con Bruna, con qualche vicino, ma dopo due mesi anche le telefonate si sono inaridite: “Come stai? Io bene, tu?”. Le video conferenze e le video chiamate ci sollevano dal peso delle parole, usate ormai come riempitivi quando non abusate dai media e dai tuttologi da bar sport. Ciò che mi spaventa sono le parole che perdo, quelle che “mancano” o che “non trovo” sempre più spesso. Come una scimmia appesa ad un calcolatore cerco su google sinonimi e significati che giorno dopo giorno, nell’isolamento, mi sfuggono. Mentre il mio pensiero si fa muto e stentato, attorno a me è un fiume in piena di parole senza senso capace di travolgere me ed il mio giudizio: questo mi spaventa.

“All work and no play makes Jack a dull boy” Questa è la frase che Jack Torrance, il Jack Nicholson dell’Overlook Hotel, ripete ossessivamente sulla macchina da scrivere. Forse anche lui, cercando di scrivere il suo romanzo, tentava di mettere ordine nel caos di quell’isolamento, tentava di usare le parole per dare forma al suo piano per arrivare a Maggio. Ma le parole gli sfuggono e tutto ciò che gli resta, sui tasti, è quella frase ossessiva che in qualche modo lo protegge, giorno dopo giorno, rimandando il tracollo. L’implosione veicolata dalla segregazione.

Le parole, devo ritrovare le parole. “Tu non sai stare da solo” – mi ha detto Bruna giorni fa – “Ti piace isolarti ma hai sempre avuto accanto qualcuno nel corso della tua vita”. Quante cose può insegnarci su noi stessi la solitudine di questi tempi? Ci sentivamo forti ed ora tremiamo nel riconoscere le nostre debolezze? Bene, maledettamente bene: perchè definire un problema è il primo passo per risolverlo. Avere paura significa essere ancora vivi.

1) fai una cosa alla volta 2) definisci il problema 3) ascolta 4) poni domande 5) distingui ciò che ha senso da ciò che non ne ha 6) accetta il cambiamento come inevitabile 7) ammetti gli errori 8) dillo in modo semplice 9) resta calmo 10) sorridi, respira, rendi estremo il banale!

Tutto questo non finirà,  non c’è una data di scadenza per questa situazione. Il 4 maggio non significa niente. Non è il D-Day, lo sbarco sulla Luna o Cristoforo Colombo nelle Americhe. Tutto questo non finirà dalla sera al mattino come un sogno. No, non finirà, ma è inevitabile che cambi: tutto ciò che devo fare è vedere ordine nel caos.

”Fare un nuovo passo, dire una nuova parola, è ciò che la gente teme di più.” (Fëdor Dostoevskij)

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