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Vintage: Pizzo Stella (3.163m) anno 1993

Vintage: Pizzo Stella (3.163m) anno 1993

Dalle nebbie del passato è emersa una serie di vecchie fotografie che oramai hanno quasi 20 anni! Già, il ricordo di una magnifica salita in cima al Pizzo Stella quando ancora non avevo nemmeno 18 anni, quando rullini e pellicola erano il solo modo per catturare un immagine!

Correva l’anno 1993 ed un folto gruppo del Cai Asso, guidato dal nostro Renzo Zappa, dava l’assalto al Pizzo tentando la salita nientemeno che dal Canale Federica e Cresta Nord

Con il senno di poi rivivo quella salita come l’avventura di un gruppo di “aspiranti dilettanti” fortunatamente accuditi da una ottimo alpinista: non avevamo certo nè la preparazione nè i materiali di oggi ma non difettavamo certo di volontà e determinazione.

Ricordo Renzo, con un berretto bianco sulla testa, che infaticabile scavava con la picozza gradini nella neve del canale per aiutare chi di noi aveva i ramponi senza la punte frontali! (io, ad esempio, quel giorno avevo dei ramponcini da falso tacco mentre il mio compagno di cordata non avava nemmeno l’imbrago!)

Erano davvero altri tempi ma, nonostante le difficoltà, quella fu una gita bellissima e tutto il gruppo, dopo aver risalito il canale, superato il ghiacciaio e le roccette, raggiunse la cima a 3.163 metridi quota: hurra!

Nella foto di apertura si vede la mia cordata a tre:  io, Pietro Roscio e mio padre, Paolo Valsecchi. Che tempi! Credo che quel giorno nessuno di noi tre sapesse fare nemmeno un “barcaiolo” eppure arrivammo fin lassù!

Ancora un grazie a Pietro Roscio che quel giorno ha fatto parte della nostra compagine e che ha scattato e conservato per tanto tempo questi bellissimi ricordi!

Davide Valsecchi

Becca di Monciair 3.544 m

Becca di Monciair 3.544 m

Sabato e Domenica ancora un’uscita insieme al gruppo della Scuola Alto Lario d’alpinismo. Alle sei del mattino Franco passa a prendermi  davanti a casa (è il mio vicino!) e  la nostra piccola carovana di macchine inizia la lunga e perigliosa avventura verso la Val d’Aosta superando ogni stramaledetto ed ingordo casello autostradale (27 euro di pedaggio solo per l’andata!)

Entrando in Valsavarenche Il paesaggio intorno a noi si trasforma ed entriamo un mondo fatto di montagna e meraviglia. Siamo nelle Alpi Graie, nel cuore del Parco Nazionale del Gran Paradiso, il più antico Parco nazionale d’Italia nato della famosa riserva delle Regie Cacce in Montagna voluta dal primo re d`Italia Vittorio Emanuele II.

Lasciate le macchine, attrezzatura a spalla, iniziamo a salire verso il Rifugio Vittorio Emanuele a 2.732 m.. Seguiamo la famosa strada regia di Caccia e davanti a noi appare la vetta aguzza della nostra destinazione: la Becca di Monciair, a 3.544 metri di quota.

La nostra allegra compagine raggiunge il rifugio prima di pranzo e dopo una breve sosta tutti si riattrezzano indossando l’equipaggiamento. Alle due del pomeriggio, sotto un sole splendente ed ustionante, siamo ai piedi del ghiacciaio di Moncorvè sotto il monte Ciafron e gli istruttori mostrano agli allievi come attrezzare una calata in corda doppia.

Franco, Matteo ed io saliamo un po’ più in quota ed attrezziamo un piccolo “parco giochi” fatto di placche e neve dove rivediamo gran parte delle manovre. Calate in doppia, risalite su corda fissa, vari usi della piastrina, Machard, Prussic, ancoraggi e recuperi. Presi da una strana forma di entusiasmo didattico rievochiamo persino tecniche ormai in disuso come la discesa in doppia a spalla.

La sera il freddo inizia a farsi sentire ed al riparo tra i sassi  così come il feroce tocco del sole sulle pelle mi regala qualche brivido.  Al riparo tra i sassi ci ritroviamo tutti insieme a godere degli ultimi raggi di sole prima del tramonto. Andiamo in branda molto prima che arrivi il buio: l’indomani infatti dobbiamo alzarci alle tre di notte se vogliamo trovare la neve nella  giusta condizione.

Quando suona la sveglia è come se al buio si animasse un piccolo formicaio. Il rifugio, nel cuore della notte, trabocca di vita ed oltre a noi, che siamo una trentina, altri ottanta alpinisti si preparano a salire la vetta del Gran Paradiso. Il salone da pranzo si riempie di gente che ingolla caffè e marmellata ancora mezza addormentata. Mi guardo intorno e quasi rido: in settimana non la incontro mai una simile folla!

Illuminando i passi con la frontale iniziamo la nostra salita e, calzati i ramponi e formate le cordate, ci avventuriamo nel ghiacciao di Monciair. Si risale per un ampio pendio iniziando un lungo traverso verso uno sperone di roccia chiamato il “gendarme” posto sulla cresta. Da qui si avanza tra neve e sfasciumi di roccia verso la cima. Il rischio maggiore, oltre alle pendenze sul traverso, sono i sassi: si cammina con i ramponi appoggiando ogni piede sul pietrisco con attenzione perchè se parte qualche sasso succede un casino!

Poco prima di affrontare la salita finale il nostro “socio” Matteo comincia ad avere una tosse secca e cupa. Mi giro e, legato dieci metri dietro di me, lo vedo piegato in avanti, appoggiato a due mani con la testa sulla picozza. Lo guardo e capisco: anche io ho provato quella posizione e la sensazione che la permea. “Oi! Come va Teo?” Lui alza la testa e mi racconta. Fino a qualche minuto prima si sentiva in piena forma mentre ora si sente improvvisamente esausto, ha la nausea e sebbene non se ne renda conto è meno lucido e reattivo.

Il mal di montagna è qualcosa che non si può comprendere fino a quando non lo si prova e, quando questo accade, è davvero difficile scordarselo! I fattori che possono “fregarti” in questo modo sono davvero tanti ed a volte semplicemente succede: la quota e la salita ti piegano in due.

Tutti e tre insieme raggiungiamo un punto protetto ed assolato a ridosso del gendarme. Matteo si copre e si siede, per lui è quasi impossibile fare un altro passo in salita.

Fortunatamente è una giornata di sole caldo e siamo in molte cordate a percorrere la salita tutti insieme ed il buon Matteo  decide pazientemente di aspettarci mentre superiamo gli ultimi cento metri di salita. Diversamente, soprattutto se le condizione fossero state avverse ed il suo malessere più intenso, avremmo dovuto assulatamente farlo scendere di quota il prima possibile.

Franco ed io saliamo in vetta con la massima rapidità, stringiamo le mani ai nostri compagni, scattiamo le foto di rito e ci affrettiamo a ricongiungerci con Matteo. Guardarlo è come rivedere se stessi nello specchio della memoria: è una sensazione indimenticabile.

Inevitabilmente irrigidito dal freddo si muove lentamente e quasi scordinato riprendendo la discesa. L’aiuto a sistemarsi i nodi sull’imbrago perché, sebbene non se renda conto, commette piccoli errori e leggere dimenticanze. Lui stesso, più tardi, mi ha raccontato di come in quel momento si sentisse lucido ma di come, guardando come lo aiutavo, capisse che ciò non era vero.

Con pazienza ed attenzione lo abbiamo aiutato a scendere di quota attrezzando ad ogni passaggio una rudimentale ma solida assicurazione con la picozza. In quel momento, quando il mal di montagna inizia prenderti, pensi solo ad una cosa: “scendere” e credi di farlo nel modo migliore possibile anche se questo non è vero (e qui sta il vero pericolo!). Questo è quello che ho provato io in passato e quello che mi ha confermato anche Matteo ieri. Fortunatamene mi è capitato solo una volta di sentirmi in quel modo e vi posso assicurare che è come se qualcuno staccasse all’improvviso la corrente spegnendo tutto!

Una volta scesi di duecento metri di quota Matteo sembrava una persona completamente diversa: nausea e vertigini erano passate e sentiva di nuovo la forza nella gambe! Stava di nuovo bene ed era nuovamente in forma!

Alle dodici meno un quarto eravamo nuovamente al rifugio da cui eravamo partiti alle quattro del mattino. Seduti con una birra in mano abbiamo chiacchierato molto dell’accaduto ed è stato proprio Matteo ad insistere che raccontassi qui su “cima.” Sono sensazioni davvero difficili da comprendere e solo imparando a conoscerle si possono comprendere meglio molti degli aspetti dell’alpinismo in alta quota. Vederlo piegato in avanti sulla picozza è stato il mio campanello di allarme: «Se inizi a sentire la picozza “comoda” allora qualcosa di importante ha smesso di funzionare!», questo è il motto che Teo ha inventato per la situazione e contiene una grande verità.

Nonostante questa piccola esperienza d’alta quota (più educativa che pericolosa) eravamo tutti incredibilmente felici e soddisfatti per i due giorni trascorsi su quelle magnifiche montagne. Ringrazio quindi i miei due compagni di cordata: Franco e Matteo, che qui vedete sorridenti e felici sulla strada del ritorno.

Ringrazio (come sempre) gli istruttori della Scuola Alto Lario e faccio i miei complimenti agli allievi del corso di quest’anno che oltre ad essere molto “forti” sono un gruppo davvero spassoso!

Alla prossima!

Davide Valsecchi

(Il tracciato è parziale, manca una parte della discesa non alpinistica, perchè il cellulare GPS si è scaricato una volta scesi nuovamente sopra il Rifugio Vittorio Emanuele)

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Pizzo Scalino, ciaspolata di Giugno

Pizzo Scalino, ciaspolata di Giugno

Questo fine settimana il gruppo dell’Alpinismo Giovanile del Cai Asso organizzava una “tendata” nei prati del rifugio Cristina in Valmalenco. I ragazzi, a 2287 metri di quota, sperimentavano un campo tendato trascorrendo la notte in un sacco a pelo dopo aver montato la propria tenda: un opportunità  per sperimentare l’alpinismo e l’escursionismo in modo più intenso.

Vista l’occasione propizia ci siamo aggregati all’escursione prefiggendoci la salita alla cima del Pizzo Scalino, una montagna di 3.330 metri che per la sua caratteristica forma triangolare è chiamata “il piccolo Cervino”.

In squadra eravamo Renzo Zappa, Franco Bramani ed io: due veterani ed uno scavezzacollo! Le previsioni del tempo ero ottime ma la situazione della neve era piuttosto difficile. Le nevicate delle settimane passate ed il caldo inteso annunciavano una salita su una neve cedevole sulla quale sarebbe stato impossibile camminare senza sprofondare.

Per questo motivo Renzo e Franco si erano muniti dei loro sci d’alpinismo mentre io, che ho tutto il materiale sciistico a pezzi, potevo contare solo sulle ciaspole. Tuttavia l’idea di una ciaspolata d’alta quota a giungo mi stuzzicava!

Sveglia alle 4:30 e partenza. L’avvicinamento è attraverso i prati dell’Alpe Prabello con gli sci e l’attrezzatura a spalla. Attorno a noi sorge lentamente il sole illuminando la cima del monte Disgrazia, al di là della valle, e del Bernina al nostro fianco.

Seguiamo il sentiero inerpicando lungo il ripido pendio che porta al Cornetto (2842 m). Dopo aver attraversato i prati sulla salita incontriamo la prima neve e cominciamo ad affondare fino al ginocchio puntando dritti verso la cresta.

Superato il pendio si apre davanti a noi un mare di neve candida illuminata dal sole del mattino.

I miei soci agganciano gli sci mentre io lego ai piedi le ciaspole prima di avventurarci nel ghiacciaio dello Scalino. Loro riescono a “galleggiare” sulla neve  procedere davvero più velocemente di me che, sebbene non fino alle ginocchia, “sfondo”  ad ogni passo.

Percorriamo il ghiacciaio puntando il “collo dello scalino”, un ripido canale tra la Cima di Val Fontana, a sinistra, e lo Scalino stesso a destra. Prima di affrontare questo tratto lasciamo sci e ciaspole infilando ai piedi i ramponi e risalendo a fatica tra la neve slavinata.

Giunti alla cresta ci leghiamo in cordata ed affrontiamo gli ultimi cento metri di dislivello tra sfasciumi e neve. Renzo, il più esperto tra noi, guida la cordata raggiungendo per prima la grande croce che domina la cima della montagna. Grande Renzo!

Giunti in cima è tutto uno stringersi di mani e d’abbracci mentre ci godiamo il sole e l’incredibile panorama che ci circonda a 360°. Appoggio la macchina fotografica su una roccia e scatto una foto ricordo.

I miei due compagni hanno 68 e 63 anni ed hanno affrontato la difficile neve dello scalino raggiungendone la vetta. Io sono in trentenne ben allenato e davanti alla loro salita non posso che rimanere sbalordito: i veterani della nostra sezione sono davvero tosti! I miei migliori complimenti a Renzo e Franco!

La discesa si fa impegnativa nel tratto in forte discesa del canalino ma giunti nuovamente al ghiacciaio inizia per i miei soci il vero divertimento: infilati nuovamente gli sci si lanciano in rotonde serpentine scendendo agili sulla neve. Io, con le mie ciaspole, provo a seguirli a balzi ma i limiti dei miei mezzi si fanno subito evidenti.

Giunti al Cornetto ci siamo separati: loro scendono lungo il versante de declina sul lago Campagneda mentre io punto diritto verso il canalone da cui siamo saliti. La loro discesa, osservata dal basso da escursionisti e dai ragazzi della nostra sezione, raccoglierà a fondo valle grande ammirazione da parte di tutti. (A giugno hanno fatto una discesa da far invidia!!)

Io invece mi sono infilato nella neve molle, ho levato le ciaspole per affrontare la forte pendenza ma ad ogni passo affondavo fino alle anche annaspando per estrarre la gamba del sarcofago di neve che sembrava volerla trattenere: ogni passo era una passione e sentivo le gambe torcersi ogni volte che faticavo per estrarle.

Con una simile neve è davvero facile farsi male e non ci tenevo davvero a “farmi fuori” un ginocchio. Così, dopo essermi guardato intorno, ho assunto l’espressione da tontolone di chi fa una marachella consapevolmente: appoggiando il culo sulla neve ho messo le gambe in avanti tenendo la schiena ben dritta come un bimbetto che si prepara a scendere dallo scivolo del parchetto e, frenando con la picozza e con i bastoncini, mi sono fatto una cinquantina di metri di scivolo fino raggiungere le prime roccette e riprendere ad avanzare nella neve fino arrancando fino ai prati.

Al Rifugio Ca´ Runcash ho raggiunto i miei soci aspettando di riunirci con i ragazzi dell’alpinismo giovanile che rientravano dalla loro escursione alle pendici del Pizzo Scalino. In una giornata di magnifico sole grandi e giovani hanno goduto, ognuno al proprio livello, della bellezza delle nostre montagne.

Ancora complimenti a quelle due “vecchie” rocce di Renzo e Franco!

Davide Valsecchi

Tempo totale: 7:15 Elevazione minima: 2.291 Elevazione massima: 3.330

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Cevedale: buon compleanno Aldo!

Cevedale: buon compleanno Aldo!

Sabato e domenica Franco, Matteo ed io ci siamo aggregati all’uscita del Corso d’Alta Montagna tenuto dalla Scuola Alto Lario. Per noi questa era l’opportunità di effettuare un aggiornamento sulle “manovre sul ghiaccio” e l’occasione per ritrovarsi con istruttori ed amici in una due giorni in rifugio.

Destinazione del corso era la salita alla vetta del Cevedale, un picco di  3.769 nelle Alpi Retiche meridionali all’interno del parco dello Stelvio. In modo molto curioso il Cevedale, sebbene all’interno del massiccio sia solo la terza cima per altitudine dopo l’Ortles e il Gran Zebrù, è posto esattamente sulla linea di confine tra Sondrio e Trento è questo ne fa il punto più alto di tutto il Trentino.

Sveglia presto Sabato mattina abbiamo compiuto il lungo viaggio (almeno per me che mi sposto pochissimo in auto) fino a Santa Caterina di Valfurva ed il rifugio ai Forni. Da qui, in un oretta, abbiamo raggiunto il Rifugio Pizzini a 2.706 metri di quota nell’anfiteatro della maestosa Vedretta dei Forni, splendido esempio di ghiacciaio di tipo himalayano.

Il ghiacciaio è attorniato dalle famose 13 cime: Monte Cevedale, Monte Rosole, Palon de la Mare, Monte Vioz, Punta Taviela, Cima Peio, Rocca Santa Caterina, Punta Cadini, Punta San Matteo, Punta Dosegù, Punta Pedranzini, Pizzo Tresero.

Le previsioni del tempo erano davvero sfavorevoli ma il corso voleva comunque sfruttare l’uscita per effettuare lezioni didattiche sul nevaio, prove pratiche incentrate sulla progressione della cordata e la messa in sicurezza della stessa. Coadiuvati dagli istruttori gli allievi si sono dati da fare tutto il giorno ed anche il mio trio si è cimentato con le nuove metodologie per il recupero in caso di caduta in crepaccio.

Oltre alla nostra scuola era presente sul ghiacciaio anche una scuola d’alpinismo della bergamasca. Il gruppo, all’ultima uscita del proprio corso, si cimentava in manovre sul ghiaccio e si apprestava alla salita del Gran Zebrù il giorno successivo.

La realtà dei fatti è questa: dopo una lunga giornata spesa sulla neve a fare pratica si sono ritrovati tutti insieme nella grande sala da pranzo del rifugio quasi centodieci alpinisti, aggiungete a questo un particolare totalmente inatteso: era il compleanno di Aldo!

Man mano che la cena proseguiva i commensali, divisi dapprima in due scuole, hanno iniziato a formare un’unica grande compagnia intenta a brindare ed intonare cori per Aldo, un ragazzo del gruppo bergamasco, che compiva gli anni proprio quella sera.

Dopo il vino hanno cominciato a girare le bottiglie di grappa e cruiosi vasetti colmi di “zuccherini sotto spirito” preparati artigianalmente da Luca detto il “Druido”.

Forse era la fatica, forse era la quota, o forse semplicemente è questo lo spirito che unisce chi va per montagna. Quello che posso dirvi è che nel cuore del ghiacciaio, su a 2700 metri, c’era una piccola casetta che brillava nel buio e, dentro questa casetta, vi erano cento persone in piedi ai tavoli ed alle sedie che cantavano a squarcia gola ridendo come pazzi ed alzavano il bicchiere al cielo ad ogni ritornello: una baraonda furiosa!

(Qualcuno ha persino filmato il tutto e non oso immaginare cosa ne sia uscito!!)

Ma la montagna è anche questo: c’era gente che non avresti scommesso potesse reggersi sulle gambe eppure tutti erano rigorosamente in branda alle dieci di sera ed in piedi, attrezzati di tutto punto, alle quattro del mattino seguente: c’è un momento per apprezzare la felicità di essere vivi, ed un momento per affrontare la forza e la severità della montagne.

Purtroppo le previsioni sono state confermate: dopo una leggera nevicata ed una notte calda non vi erano le condizioni per tentare la salita e, per completare il quadro sfavorevole, anche una fitta nebbia aveva preso campo nella valle.

Niente da fare quindi. Abbiamo “manovrato” ancora un po’ dando poi inizio alla nostra discesa verso valle. Un po’ sconsolati dalla cattiva sorte e da una pioggia che iniziava a farsi battente si è deciso di dare un calcio alla mala sorte ed abbiamo fatto una puntata alla “Pozza di Leonardo da Vinci” un piccolo bacino d’acqua termale a ridosso di un torrente nei boschi a nord di Bormio: 40° gradi di acqua calda che scorre a profusione in una piscinetta scavata nella roccia!! Spettacolo!

Alla prossima!

Davide Valsecchi

Le foto seguenti sono state realizzate da Stefano Sepriano:

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