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Monte Rosa: Vecchio Scarpone

Monte Rosa: Vecchio Scarpone

Se il Signor Koflach volesse omaggiarmi di un nuovo paio di scarponi d’alta quota, in sostituzione a quelli che sono esplosi sabato, gliene sarei davvero molto grato. Comunque sia non posso certo volergliene se mi hanno mollato con i piedi nella neve nel bel mezzo di una salita sul gruppo del Rosa. Un alpinista è responsabile della scelta e dello stato del proprio equipaggiamento: quindi quello che è successo è ineluttabilmente colpa mia.

Quegli scarponi me li aveva regalati mio padre e all’epoca gli erano costati la bellezza di trecentomila lire. Avevo la sensazione di non averli sfruttati a sufficienza sebbene si possa sospettare che un paio di scarponi acquistati nel 1999 (un secolo ed un millennio fa) possano avere qualche difficoltà nel 2014 😉

Scherzi a parte: sapevo si sarebbero rotti e quello era, come lo è stato a tutti gli effetti, il loro ultimo viaggio. Quello che non mi aspettavo è che “schiantassero” così di botto!

Quest’anno in alta quota ho fatto praticamente nulla e così, Sabato, ho colto l’occasione di aggregarmi all’ultima uscita del Corso di Alta Montagna della Scuola Alto Lario. Conosco gli istruttori da quando sono pischello e la salita al Castore era un’ottima occasione per trascorrere in compagnia il week-end.

Visto che non era una salita tecnica e che le previsioni erano incerte ho scartato i miei soliti scarponi optando invece per i più caldi Koflach: «Dai, facciamogli fare un ultimo viaggio prima di cambiarli!». Mai pensiero fu più profetico!!

I Koflach ricordano molto gli scarponi da sci, sono uno scafo di plastica all’interno del quale si infila una scarpetta morbida ed impermeabile. Mentre camminavo, a metà del percorso che porta dal Bettaforca (2227m) al Rifugio Quintino Sella (3585m), ho avuto la sensazione come di inciampare. Mi sono fermato e sconsolato ho osservato il mio scarpone: la base dello scafo in plastica era saltata, la suola era staccata e la scarpetta appoggiava ormai direttamente a terra. «Opps… Ho idea che la mia gita sia finita!!».

Più che arrabbiato ero diverto. Qualche settimana fa al Monte Bianco un alpinista era stato soccorso con l’elicottero perchè al rifugio, durante la notte, gli avevano rubato gli scarponi. La stessa sorte sarebbe toccata anche a me?

Le opzioni erano due: tornare indietro cercando un posto dove dormire a valle (sperando di raggiungere la funivia in tempo), oppure tentare di raggiungere il rifugio (con il rischio di ritrovarsi bloccato prima di arrivarci o di non essere poi in grado di ridiscendere il giorno dopo).

«Vabbè, ormai siam qui…» Con un cordino ed ho cercato di bloccare la suola ed ho indossato i ramponi in modo che imbraghassero lo scarpone tenendolo insieme «Speriamo almeno ci sia tanta neve…». Il lungo tratto su nevaio non si è rivelato infatti un grosso problema, diversamente il tratto sulle roccette, lungo la cresta attrezzata, è stato una manata! Passo dopo passo ho arrampicato sulla cresta lavorando due ore con le punte dei ramponi sulla roccia: una ravanata infinita!

Luca, sempre gentile, insieme a Francesca si era attardato a farmi compagnia mentre arrancavo sulle roccette. Alla fine, ultimo della comitiva, sono finalmente arrivato al rifugio ormai avvolto da una nebbia densa.

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«Birillo! Te l’aveva detto Montezuma che sarebbero andati in pezzi!» La mia prima preoccupazione lungo la salita era la lavata di testa che mi aspettavo da parte degli istruttori: fortunatamente ormai mi conoscono da quasi vent’anni e si sono limitati a prendermi in giro (come è giusto che fosse!!).

Il tempo era incerto e non era affatto scontata la salita del giorno successivo, tuttavia mentre li ascoltavo discutere sul da farsi sapevo benissimo che a me non restava altra alternativa se non quella di tornare indietro. Anzi, il mio ritorno rischiava di essere più problematico della loro salita.

Come di consueto tutti insieme abbiamo cenato e fatto festa prima di buttarci in branda. La sveglia il giorno successivo è suonata alle quattro ed anche io mi sono alzato a salutare i compagni che si apprestavano a partire. Le luci dell’alba mostravano un cielo terso e sgombro di nuvole, le giuste condizioni per la salita.

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Rimasto solo al rifugio mi sono rinfilato in branda: al caldo sotto le coperte osservavo attraverso le finestre la magnifica alba che sorgeva alle spalle del Lyskam. Sono rimasto avvolpacchiato fino alle sette e poi ho iniziato finalmente a prepararmi. Simone e Stefano mi avevano fatto promettere di aspettare il loro ritorno per la discesa: «Non fare l’idiota scendendo da solo con quei rottami! O ci aspetti o portiamo via ciò che resta dei tuoi scarponi!!» Spesso i migliori amici sono anche quelli meno amichevoli!

Dopo aver fatto colazione ho inziato a lavorare sulle mie precarie calzature. Dapprima ho fissato quattro viti del legno sui lati della suola, questo per avere dei punti di ancoraggio con cui bloccarla utilizzando le stringhe e gli occhielli dello scafo. Con un paio di cordini ho fissato poi il centro e la punta ed ho coperto il tutto con del nastro americano che gentilmente mi aveva prestato il rifugista. Con un ultimo giro di nastro, visto che non avevo più stringhe per chiudere gli scarponi, ho bloccato la caviglia. Per toglierli sarebbe servito il coltello ma l’incognita restava quanto avrebbero resistito e cosa sarebbe accaduto se anche l’altro scarpone fosse ceduto di schianto.

Il cielo era azzurro ed il sole caldo, così mi sono avventurato sul pianoro del rifugio cercando di testare l’accrocchio. Normalmente, in un uscita come questa, la salita assorbe e focalizza tutta l’attenzione. Io, al contrario, non avevo alcuno scopo preciso ed ero completamente libero di godermi in assoluta libertà quel momento nel cuore delle Alpi.

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Visto che gli scarponi sembravano tenere sono salito in cima ad una grossa cunetta e, semplicemente passeggiando, mi sono ritrovato di fronte il Cervino. Ancora non sapevo se ce l’avrei fatta a rientrare ma il mio solo pensiero era piuttosto semplice: «Devo trovare una tenda decente: andarsene a zonzo da queste parti deve essere un vero spettacolo!».

Per salire ad una cima è necessario partire all’alba, camminare al buio rispettando i tempi e rientrando il prima possibile: è una corsa contro il tempo e contro gli imprevisti. Ma i miei scarponi rotti mi ricordavano una nozione semplice: «Le grandi montagne richiedono tempo». Il Rosa è davvero una gran bella montagna, forse è anche per questo che l’ultima volta ero rimasto bloccato dalla tempesta per tre giorni al Rifugio Margherita. «Si, richiede tempo ma lo vale tutto…».

Nel giro di pochi attimi il tempo è però cambiato, la nebbia ha cominciato a scavalcare la cima del Castore e la luce si è fatta opaca. I miei compagni, che fino a quel momento erano ben visibili lungo la cresta, ora apparivano distanti ed immersi nella foschia.

Da lì ad un ora i primi del gruppo, di gran lunga più veloci e rapidi degli altri, stavano facevano ritorno al rifugio. «Conviene muoversi. Il tempo sta girando e non ho voglia di farmi sorprendere sulla cresta da un temporale» Confessa Oscar mentre sistema il suo equipaggiamento «La cresta attrezzata non è banale ed i tuoi scarponi sono un handicap da non sottovalutare!». La prospettiva di ritrovarmi scalzo a tremila metri nel mezzo di un temporale su una cresta di roccia era qualcosa che, in effetti, non allettava neanche me!

Così, insieme a Simone e Patrizia abbiamo iniziato la discesa. Dovevo fare attenzione a come caricavo il peso ma, in linea di massima, la mia riparazione sembrava reggere nonostante nuove preoccupanti crepe si aprissero lungo lo scafo.

Il guaio era nato perchè “Birillo è Birillo” ma, fortunatamente, proprio perchè “Birillo è Birillo” tutta quella scomoda situazione si è ridotta ad un dimensione più ludica che problematica. Forse non sarebbe opportuno dirlo, ma io mi sono anche divertito parecchio!

Man mano scendevo i miei scarponi andavano via via sempre più in pezzi. Così rattoppati mi ricordavano gli scarponi logori e distrutti di Speke e Burton durante la loro esplorazione africana alla ricerca delle sorgenti del Nilo: avevano qualcosa di affascinante e pittoresco, di assolutamente atipico (come piace a me).

Poco prima di raggiungere di nuovo la funivia ci siamo imbattuti in uno stambecco che, con una certa indifferenza si è lasciato fotografare: era parecchio che non ne vedevo uno.

DSCF6596Al caldo della funvia abbiamo atteso l’arrivo anche tutti gli altri compagni. L’intero gruppo, per lo più formato da alievi, aveva raggiunto la vetta del Castore, 4225m, scendendo in tempo per evitare il grosso della perturbazione: non male per dei neofiti, bravi!

Prima di salutarci Giuliano, Direttore del Corso, si è avvicinato con la macchina fotografica in mano «Birillo, fammeli fotografare» Dopo aver immortalato i miei poveri Koflach (o quanto ne restava) ha bonariamente scosso la testa «Chissà cosa mai gli abbiamo insegnato in questi anni…»

Ecco la cronaca di una magnifica gita al gruppo del Rosa 😉

Davide “Birillo” Valsecchi

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Bernina: atto secondo

Bernina: atto secondo

Il rifugio Marco e Rosa si trova a 3609 metri di quota e questo lo rende il rifugio più “alto” della Lombardia e probabilmente di tutto l’arco alpino orientale. Lassù, sotto il Bernina e di rimpetto alla Cresta Guzza, il rifugio è gestito da un veterano di montagna d’eccezione: Giancarlo Lenatti detto “Il Bianco”. Dalle finestre del Marco e Rosa si può ammirare il Disgrazia ed è forse anche per questo, per avere quella meraviglia sempre davanti agli occhi, che il Bianco ha preso dimora lassù: sua è infatti la prima eccezionale discesa con gli sci dalla nord del Disgrazia!

Quando usciamo dal rifugio la luce del sole inizia a rischiarare l’orizzonte mentre le stelle, che hanno brillato tutta notte coccolate dal vento, scompaiono lentamente.  Franco, a cui la sera prima si era incartato lo stomaco, è di nuovo in forma: tutti e tre ci prepariamo ad attaccare il Bernina.

La maggior parte dei polacchi che dormivano al rifugio si addentrano verso la Svizzera ed il giro delle Belleviste: davanti a noi solo un paio di cordate ci precedono mentre con calma “pascoliamo” sulla neve ammirando l’alba. Il vento soffia ancora forte e solleva grandi scaglie di ghiaccio che, scosse nei raggi di sole, volano come risme di fogli di carta lanciati per aria: la giornata è strepitosa!

“Bagai, va bene far turismo! Ma il Bernina è dall’altra parte! Se proseguiamo andiamo in Svizzera!” Presi dalla voglia di esplorare ci eravamo allungati quasi alla sella prima di rimettere i nostri passi in direzione delle rocce del Bernina.

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Sulla neve però viaggiamo forte e siamo tutti in forma: senza difficoltà risaliamo veloci fino al primo ed unico crepaccio aperto raggiungendo di gran carriera le cordate che ancora tentennano nell’attaccare la roccia. Dopo la neve si deve affrontare la parte rocciosa della salita: sull’attacco troviamo qualche tratto di verglas (ghiaccio sottile) che copre alcuni tratti, nulla di preoccupante sebbene la traccia sulla neve (abbiamo scoperto dopo) portasse leggermente a sinistra della via attrezzata con fittoni ad anelli.

Superando un piccolo caminetto appoggiato siamo ritornati in cresta e sulla via. Lì c’è un primo passaggio di secondo grado rimontando  una placca appoggiata e ben appigliata. Arrampichiamo con i ramponi ai piedi facendo sicura sui vari ancoraggi presenti.  Giovanni, che sulla neve è un trattore, sulla roccia invece tentenna un po’ e per questo proteggiamo anche alcuni tratti che potrebbero essere fatti in conserva.

Subito dopo si raggiunge un prima punta sulla cresta a cui segue un piccolo traverso sulla neve che porta al punto chiave della salita: una salita verticale di terzo grado che si sviluppa per una trentina di metri d’altezza. Prima di raggiungere questa parete si deve superata una crestina di neve alla fine della quale si trovano delle comode catene su cui attrezzare la sosta. Le catene sono a strapiombo sul vertiginoso  canalone est ed è quindi importante assicurarsi bene e sfruttarle al meglio: allongiati alle catene togliamo i ramponi ed attacchiamo la roccia.

Con una certa invidia lascio che sia Franco a salire da primo e a godersi quel tratto d’arrampicata non particolarmente difficile ma decisamente appagante. Sabato era il suo compleanno e tirare da primo sul Bernina a 64 anni è di certo una bella soddisfazione. Il presidente se la cava alla grande nel passaggio chiave! Grande Presidente!

Superata la parte verticale vi sono ancora una decina di metri prima di raggiungere la parte sommitale della cresta e proseguire verso la cima italiana del Bernina: i 4020 metri della Punta Perrucchetti (o La Spedla). Dalla punta italiana vi è una cresta che attraversa quasi orizzontale fino ai 4049 metri della vetta Svizzera del Bernina. Normalmente la cresta è coperta di neve ma noi la troviamo completamente asciutta e rocciosa. Dubbioso inizio a fare i miei calcoli.

Raggiunta la cima italiana Franco ed io facciamo il punto recuperando Giovanni alla sosta. Arrampicando in tre siamo stati lenti, forse persino troppo lenti. Sulla roccia serve essere affiatati e veloci, sia sui passaggi che nelle manovre. Dal mio punto di vista eravamo arrivati fin lì in piena sicurezza ma mettendoci troppo (erano ormai quasi le nove e mezza). Indicando il folto gruppo di alpinisti che emergeva dalla svizzera e dalla Biancograt ho chiesto a Franco:  ”Che facciamo? Quando quelli arrivano qui diventerà parecchio affollato. Andare e tornare significa aggiungere un ora e finire diretti in fondo alla fila. Non so: ci servono un paio di doppie per scendere da qui e forse un’altra per uscire dalla ferrata.” – la mia mente ricordava ancora bene le scariche di sassi del giorno prima – “Io chiuderei qui, sulla cima italiana, e comincerei a tirarmi verso casa: la strada è lunga.”

Franco mi guarda, ride, toglie il guanto e mi offre la mano destra da stringere: ”Benvenuto in cima, vicepresidente! Guarda che posto magnifico!!”. Io e Franco ci intendiamo sempre! Anche Giovanni accetta di buon grado l’idea e tutti e tre ci stringiamo per una foto di gruppo (che è ancora sulla macchina fotografica di Franco al momento in cui scrivo).

La scelta si dimostra azzeccata perché tutto intorno a noi si animano “numeri da circo” capaci di far accapponare la pelle. Un tipo, uno di lingua tedesca, fionda diritto giù per il canale est e solo grazie a qualche intervento divino evita di finire giù nelle spaventose crepacciate. Non so cosa abbia combinato, so solo che l’ho visto partire a pelle d’orso sulla neve: un capo della corda legato in qualche modo alla vita mentre l’altro capo risaliva , libero, lungo la parete verso l’anello di calata venti metri più sopra. Non so se abbia sbagliato la doppia, se abbia fatto casino assicurandosi  alle catene o se sia stato il suo socio a cappellare calandolo.

Quello che so è che in quel tratto esci da una doppia su roccia per affrontare un traverso su neve, il che significa mettersi in sicurezza, liberare la doppia e indossare di nuovo i ramponi, aspettare il compagno, legarsi in cordata ed attraversare protetti: se cappelli rischi di finire in un buco o di farti cinquecento metri di dislivello su di uno scivolo verticale di neve che porta dritto ad una bara di ghiaccio.

Noi, al sicuro oltre quel passaggio, osservavamo dal basso come il “circo” si riprendeva a stento a quello spavento attrezzando una specie di recupero in un tripudio di urla e strilli multilingua. Credo che il tipo, venti metri sotto le catene ed appeso alla neve con lo sputo, abbia visto davvero la strega questo giro: solo qualche santo in paradiso gli ha salvato la pelle!

Ma ancora altri numeri da circo della giornata dovevano andare in scena. Oltre ai sassi che volavano ovunque c’era una folla di gente che, vestita da super-eroi, avanzava con il passo preoccupantemente incerto. Raggiungiamo un valtellinese con il figlio ventenne, un tipo con una bella faccia da montanaro ed una bella barba lunga. I suoi vestiti erano anche meno “fighi” e più consumati dei miei: sembrava un boscaiolo d’alta quota e per questo mi è stato subito simpatico. Viaggiando quasi sempre in conserva continuava a ripetere al figlio in dialetto stretto: “Dai in fretta! Andiamo via, andiamo via!”. Ed aveva dannatamente ragione!

Superato il Marco e Rosa discendiamo la ferrata arrivando fino all’uscita ed al problematico tratto finale. Il “Barba” ha calato il figlio e d’esperienza ha superato la scala raggiungendo sicuro la neve. Noi invece stavamo attrezzando una doppia sui pioli della ferrata per raggiungere la scala-ponte quando è partito un altro terrificante numero da circo bulgaro.

Una cordata a tre di polacchi aveva infatti optato per un calata diretta sul canale atterrando sul bordo del crepaccio che separa appunto il canale dalla roccia. Io non ho capito cosa abbiano combinato, sta di fatto che uno dei tre parte a pelle d’orso lungo il canale circondato da blocchi di neve grandi come lavatrici che gli sbattono addosso. La corda a cui è legato scorre come se non dovesse fermarsi mai lasciandolo correre impotente sulla pancia verso il basso. Finalmente la corda va in tensione mentre altri blocchi di neve rovinano a valle trascinandosi dietro a rotoloni anche uno zaino e delle racchette.

Il Barba ed il figlio, che stavano già scendendo all’indietro lungo il canale, si sono visti arrivare addosso parte di tutto questo macello senza però rimanerne, fortunatamente, troppo coinvolti nella scarica. Lo zaino rotolava come una palla verso i crepacci a valle e, misteriosamente, si è improvvisamente fermato prima di precipitare tra le pareti di ghiaccio.

I due soci di quello spanciato sulla neve erano dentro la crepacciata sommitale, mezzi sommersi dalla neve crollato avevano trattenuto il compagno solo facendo da contrappeso sul bordo del crepaccio. “Dai Marco, dai!!Veloce!! Via Via!” urlava il barba al figlio mentre come schegge schizzavano fuori dal canale.

Io ero esterrefatto: non ho mai visto combinare tante puttanate tutte insieme in un giorno solo! Davvero! Fortunatamente nessuno dei tre si è fatto male, ma solo Dio sa perché! Se tutti e tre avessero cominciato a rotolare giù per il canale nulla avrebbe potuto impedirgli di lasciarci la pelle! Noi finiamo la nostra doppia, infiliamo i ramponi (sempre ben assicurati!!) e seguendo l’esempio del Barba ce la diamo a gambe a tutta forza!

A valle, ormai al sicuro sul passo Marinelli, incontriamo due ragazzi conosciuti la mattina lungo la salita. Io due, giovanissimi ma ben preparati, erano partiti da Campo Moro la notte e si erano fatti il Bernina in giornata: davvero bravi! Chiacchierare con loro è stato come tirare una boccata d’aria buona in mezzo a tanta follia.

Al rifugio Carate ci fermiamo per una birra ed un po’ di affettato. Ormai erano le sei di sera, era tardi ma non c’era più da preoccuparsi. Raggiunto il bosco sottostante tiriamo fiato osservando il tramonto sullo Scalino: solo lo scorso anni Franco, Renzo ed io avevamo fatto lassù una magnifica salita. (Renzo quest’anno di anni ne compie 69!!)

Nonostate i brividi e gli imprevisti la nostra salita è stata di grande soddisfazione, il Bernina è davvero uno scenario straordinario ed il Disgrazia, che ammiccava compiacente, è stato una costante tentazione. (…al prossimo giro, al prossimo giro!)

Quello che però posso dirvi è che le nostre montagne, soprattutto quelle più famose e conosciute, stanno subendo una trasformazione forse epocale. Stanno cambiando in modo radicale e spesso salite un tempo semplici ora stanno diventando ragguardevoli.

Parallelamente si stanno affollando di “mine vaganti”: al netto del coefficiente umano durante la nostra salita non avremmo incontrato quasi nessun significativo pericolo o difficoltà. Se invece facciamo il conto delle porcate a cui abbiamo assistito c’è da essere felici di essere ancora tutti d’un pezzo. Quindi mi raccomando: attenzione, attenzione, attenzione!!

Vi saluto: sono in viaggio per la Carnia!

Davide “Birillo” Valsecchi

Bernina: atto primo

Bernina: atto primo

“Okey, andiamo a dare un occhiata al Bernina.” Mi ero ripromesso di tirare il fiato per un po’ ma, quasi come sempre, i miei buoni propositi sono caduti nel vuoto. Dopo una bella sgambata con Fabrizio e Stefano in Val Malenco mi sono svegliato con le spalle dolenti per il sole, pronto per ripartire ancora.

Alle prime luci di domenica mi aspettavano in strada Franco e Giovanni: destinazione Rifugio Marco e Rosa, quota 3609m ai piedi del Piz Bernina. A Pusiano si aggrega alla nostra comitiva anche Giusy con l’intento di accompagnarci fino al Rifugio Marinelli Bombardieri,  2830m.

Mentre salivamo a Lanzada e a Campo Moro non potevo che pensare agli AsenPark (Mortez, Ganjalf e Bona) che tutta la salita l’hanno affrontata dopo un rigoroso avvicinamento in bicicletta: davvero un gran giro! Mos Bagai!

Attacchiamo: la corda è come sempre rigorosamente nel mio zaino e ci metto un po’ a scaldare un ginocchio dolorante dal giorno prima. Quando entro in temperatura, però, non c’è stanchezza o dolore che regga, quando ingrano non ci sono più incertezze o buoni propositi che reggano: quando “vai” è davvero uno sballo, quando “ci sei” ti senti il cuore pulsante dell’universo. Rendesi conto di essere vivi è tremendamente pericoloso!!

Superiamo il Rifugio Carate, 2600m, circondati da una folla di gitanti. Scavalchiamo la Bocchetta delle Forbici addentrandoci nelle ”vestigia” del leggendario ghiacciaio dello Scerscen: “la montagna circolare”. Il ghiaccio si è ritirato in modo ormai allarmante, tuttavia immaginare come tutto quello spazio, nei tempi andati, fosse invaso dal ghiacciaio è davvero impressionante: forze, moli ed “ere” che difficilmente una mente umana può comprendere appieno. Ancora più impressionate è pensare che quando tutto il ghiaccio sarà scomparso quella valle sarà invasa dal verde che, già ora, brilla “ribelle” tra le rocce: se mi dicessero che tra duecento anni quella valle, ora così ostile alla vita, diventerà foresta non stenterei a crederlo.

Superato il Rifugio Marinelli arranchiamo tra gli sfasciumi fino al passo Marinelli Occidentale, 3050m di quota. Qui Giusy ci saluta festosa ed inizia la parte più impegnativa del percorso. Il primo lungo traverso sul ghiaccio non desta grandi problemi ma quando iniziamo ad avvicinarci alle prime importanti crepacciate infiliamo i ramponi e stendiamo la corda.

Il Marco e Rosa sta lassù, in cima tra le nuvole ed un tempo che spesso si fa incerto. Facendo attenzioni alle frequenti scariche di sassi che vengono giù dalla bastionata rocciosa del Piz Argent raggiungiamo la base del Canalone del Cresta Guzza dove c’è il primo crepaccio, la prima vera difficoltà, da superare attraversando alcuni soliti ponti di neve.

Il canalone si fa subito ripido ed impegnativo, a metà salita sono ferme un paio di cordate dall’atteggiamento poco convinto. Franco, che guida la nostra cordata, prende tempo cercando di capire cosa intendano combinare.  Oltre alle difficoltà della montagna sono gli esseri umani la peggiore tra le rogne in cui ci si può imbattere da queste parti!!

Il passaggio è delicato: dal ripido canale si deve attaccare una ferrata d’alta quota che risale verticalmente lungo le rocce. Normalmente è già di per sé una significativa sfida alpinistica ma negli ultimi anni è diventato soprattutto l’attacco a rappresentare il maggio problema. Il ritiro del ghiaccio ha creato un grosso e profondo crepaccio che separa il canalone dalla roccia, il continuo “muoversi” della neve sradica regolarmente ogni tipo di ancoraggio fisso.

Una delle due cordate si avventura su per il canalone (che appena sopra supera i 45° ed è attraversato da una grossa crepacciata) mentre una coppia di polacchi tergiversa sull’attacco. Dopo aver atteso a lungo decidiamo di raggiungerli e precederli.

Tra la neve e la roccia è stata posta una scala metallica a pioli a modi ponte: da un lato è legata con un cordino ad un piolo metallico mentre sull’altro è ancorata ad un palo fisso nella neve. Dalla prima parete della ferrata scendono, a modi ghirlanda, una serie infinita di cordini e spezzoni di corda che, abbandonati, cercano di sopperire in qualche modo alla catena e agli altri ancoraggi fissi ormai scomparsi.

Sui fianchi del canale continuano a venir già sassi come se piovesse e quando ci ha sorvolato un elicottero dalla Cresta Guzza è venuto giù di tutto! Fortunatamente la traccia è fuori dalle traiettorie ma la sensazione generale è davvero poco piacevole: “Gente, togliamoci in fretta…”

Passo a primo di cordata, mentre Franco mi fa sicura attacco il ponte-scala ed arrampico sul primo tratto di ferrata. Infilo qua e là i rinvii che ho com me e su un solido piolo attrezzo la sosta per recuperare con la piastrina i mei soci fin dove la ferrata si fa più sicura. “Che faccio? Butto giù la corda e recupero anche il primo dei due polacchi?” chiedo ai miei compagni. Franco sospira comprensivo ma deciso “Perdiamo un’altra mezz’ora se li aspettiamo. Abbiamo già perso un ora buona nel canale per colpa delle altre cordate. Non hanno chiesto niente ed hanno visto come si fa: ora tocca a loro”.

Ho l’anima troppo generosa per vivere tra gli esseri umani, specie in montagna: sono un solitario per questioni di sopravvivenza. Faccio un cenno ai polacchi mentre, seguendo il nostro esempio, preparano la corda per affrontare anche loro l’attacco della ferrata “arrampicando”.

La ferrata, impegnativa ma ora in ottime condizioni, prosegue senza troppe difficoltà fino al momento in cui Franco inizia ad urlare come un forsennato “SASSI!! SASSI!!”. Io e Giovanni stavamo chiacchierando tranquillamente quando una fila di piottoni ci vola sopra e di lato stagliandosi come neri fantasmi nel cielo che ci sovrasta. Mi rintano in un anfratto della roccia cercando di nascondermi sotto il casco e lo zaino mentre schegge volano da tutte le parti: per otto secondi piove roccia e se credete che la cosa non sia terrificante cominciate a contare!

Incassato nella mia nicchia urlo a mia volta pensando ai due poveri cristi che quaranta metri più sotto rischiano di essere nel bel mezzo della scarica. Quanto tutto si acquieta è un susseguirsi urla ed imprecazioni: “Ci sono! Ci sei! Io bene, tu come stai?”. Passata la paura è il momento della rabbia: “Ma Franco come hai fatto a farli partire?!? Sei dall’altra parte? Cazzo è successo?“ Franco mi urla a sua volta rispondendo “No, non sono stato io: è un tipo più sopra sul traverso che ha fatto partire i sassi. Io ho urlato quando li ho visti passar via verso di voi”. Mi sembrava strano che Franco combinasse un simile casino. “Ma il tipo ha urlato? Io non ho sentito nessuno tranne te…”. Franco fa una smorfia che la dice lunga “…forse ha detto qualcosa, ma non proprio convinto…”.

In quell’istante se il tipo non fosse stato trenta metri sopra di noi lo avrei preso a testate prima di schiantarlo a pezzi contro la roccia: cazzo, non puoi far partire una scarica simile su una ferrata e fare spallucce senza aprire bocca! Ci ammazzi la gente in quella maniera! Per lo meno urla, avvisa del pericolo che arriva! Bhe, incazzato sono andato a prenderlo!

Quando lo raggiungiamo scopriamo che è un altro polacco, l’ultimo rimasto attardato di un piccolo gruppetto. Ribollivo ancora di rabbia ma guardandolo, solo e spaesato, si capiva che non sapeva più da che parte fosse girato. Nonostante conosca milioni di insulti in diverse lingue mi sono limitato a dirgli: ”Next time SHOUT! Shout like running out of Hell! PLEASE!”. Il tipo ci ha guardato accennando ad un sincero e dispiaciuto “Sorry”. Sono davvero troppo buono per vivere tra gli esseri umani: abbiamo scortato quello “stupido figlio di puttana” fino al rifugio…

Quando finalmente raggiungiamo il Marco e Rosa i miei due soci si infilano al caldo del rifugio. Io sull’ingresso sistemo la corda ed il resto dell’equipaggiamento riponendo ogni cosa in un’apposita sacchetta. Tergiverso. Passano quasi venti minuti e poi, finalmente, dalle roccette emergono due figure: camminano stravolti ma sono “integri”. Chiudo lo zaino e finalmente mi infilo nel rifugio: dopo dieci ore di marcia è tempo anche per me di scaldarmi…

Davide “Birillo” Valsecchi

Monte Rosa: atto terzo

Monte Rosa: atto terzo

Quando dormo in quota il sonno è agitato dai sogni più incredibili. Alla Gnifetti, 3647m, avevo sognato di essere membro dell’equipaggio di un battello sul lago di Como. Il Capitano ed il Capo Macchina mi accordavano il permesso di imbarcarmi sul Liemba, la motonave del 1913 con cui qualche anno fa ho attraversato il Tanganika in Tanzania. Nel sogno ero felicissimo ed attraversavo il battello salutando i miei compagni di viaggio prima di partire ancora alla volta dell’Africa.

Quando la mattina mi sono risvegliato in mezzo al ghiacciaio del Lys, nel cuore del Massiccio del Monte Rosa, trovavo il sogno quantomeno curioso. I giorni successivi li avevo trascorsi alla Capanna Margherita, 4556m, bloccato in cima alla Punta Gnifetti dalla nebbia e dal vento.  Lassù i miei sogni erano stati confusi, caotici e tortuosi. Ricordo di aver visto la Terra dallo spazio osservando il sole sorgere alle sue spalle: la quota e le lunghe ore d’attesa confondevano la mia mente trascinandola in mondi incredibili.

Quando la sera ci eravamo buttati in branda il cielo era sereno e la notte sembrava promettere finalmente bel tempo. Ancora avvolto nelle coperte osservavo le prime luci dell’alba rischiarare il cielo quando un fracasso infernale ha iniziato ad animare il rifugio: l’armata rossa si era messa in moto!

Nel rifugio oltre a me e Giovanni, bloccati lassù da due giorni, c’erano i tre rifugisti e sette alpinisti russi accompagnati da una guida svizzera.  Alle cinque e mezza i più giovani del gruppo si erano equipaggiati ed avevano iniziato ad arrampicarsi sul tetto della Capanna per osservare l’alba. Abbarbicati sulle scale ghiacciate erano totalmente indifferenti ai sottostanti 2600 metri di precipizio della parete Est: urlavano entusiasti  per l’arrivo del nuovo sole mentre i rifugisti, furiosi, cercavano di convincerli a scendere urlando a loro volta.

Io, meno romanticamente, ho infilato la giacca a vento e mi sono “allongiato” ad una scala di sicurezza uscendo da una finestra. All’orizzonte solo montagne, laghi e pianure: in ogni direzione niente ci eguagliava in altitudine, nessuno in Europa era così in alto in quel momento. In tutto il nord Italia siamo stati i primi a vedere il nuovo giorno, ad ammirarne la sua possenza!!

I russi urlavano agitando le braccia al cielo ed anche io non potevo che ammirare a bocca aperta  la magnificenza che ci circondava e che per due giorni si era celata nell’ostilità della nebbia. Sotto di noi, impressionante e maestosa, correva verso valle la Cresta Signal e la Parete Est. In passato, dalle nostre montagne, avevo osservato innumerevoli albe e tramonti ammantare di rosso il Monte Rosa: quella era la prima volta che godevo di tale spettacolo direttamente dal palcoscenico!

«Andiamo Giò! Andiamo! Il giorno è nostro!» Di gran carriera abbiamo ingollato la colazione ed indossato l’equipaggiamento, dopo aver salutato tutti siamo schizzati fuori dal rifugio immergendoci nel grande bianco che finalmente risplendeva nell’azzurro del cielo.

Ovunque la neve era intatta e modellata dal vento: nessuna traccia umana aveva ancora solcato quel mare bianco!«Andiamo Giò! Andiamo! Il giorno è nostro!»

Galvanizzati da quello scenerio e forti dei due giorni di acclimatamento abbiamo attaccato la punta Zumstein (4563m) dopo aver attraversato tutta la grande piana al di sotto della Punta Gnifetti (4556) da cui eravamo scesi.

Facendoci sicurezza l’un l’altro abbiamo superato il ponte di ghiaccio sul piccolo crepaccio che da attraversa la cresta. Evitando le ampie cornici abbiamo iniziato a risalire la cresta cercando di proteggerci dalle violente raffiche di vento che si abbatevano lateralmente su di noi.

Giunti quasi alla vetta non restava che rimontare la stretta cresta camminando in equilibrio per cinque o sei metri fino a raggiungere la grande roccia su cui è posta una croce ed una madonnina.  Quando Giovanni si è fatto avanti per affrontare quel tratto obbligato di cresta il vento ci scuoteva come bandierine facendo vela sugli zaini.

Costretto a reggermi in ginocchio con la becca della picozza puntata ho urlato a Giò facendogli capire che il vento era ormai un problema. Anche lui, più avanti, non se la passava meglio cercando di trovare il tempo giusto per rimontare la cresta senza che le raffiche lo facessero cadere sull’altro lato. A distanza di sei metri l’uno dall’altro ci facciamo segno e lui ridiscende raggiungendomi. «Naaa, è vero, manca poco e niente ma con sto vento quel passaggio può diventare una rogna seria. Se quella madonnina vuole che si vada a farle visita dovrà cominciare a darsi meno arie!!»

Insieme abbiamo riso e guardandoci intorno abbiamo deciso che quello che avevamo poteva essere abbastanza, che sarebbe stato ingordigia chiedere di più dopo quanto patito nei giorni precedenti. Facendoci nuovamente sicura sul ponte di ghiaccio siamo ridiscesi nella piana sottostante ed abbiamo iniziato letterlmente a vagare: corda tesa e nodo a palla vagabondavamo senza meta attraverso il ghiacciao guidati solo dalla meraviglia della scoperta.

Vagare nel bianco: quello che giorni prima poteva diventare il nostro incubo ora era la nostra più assoluta e completa liberazione. Impagabile, bellissimo.

Davide “Birillo” Valsecchi

Monte Rosa: atto secondo

Monte Rosa: atto secondo

La Capanna Margherita è posta sulla cima della Punta Gnifetti, a 4556 metri di quota è il rifugio alpino più alto in Europa. La sua fama è leggendaria così come lo è la sua posizione a strapiombo sull’impressionante parete est del Rosa: 2600 metri  di dislivello, la più alta delle Alpi e per morfologia l’unica di tipo himalayano.

Quando arrivi al Margherita la quota ti picchia in testa come una campana, spesso chi ha provato a dormire lassù racconta di nottate da incubo in preda ai disagi del mal di montagna: è il tetto della Alpi, il mio socio Giovanni ed io eravamo bloccati lassù a causa del mal tempo.

Per dormire avevo messo al posto del cuscino una grossa coperta in modo da potermi sdraiare senza rimare completamente orizzontale. Io dormo ovunque e neppure la Margherita è stata un eccezione. Per riposare ho però dovuto  impegnarmi, rilassarmi  e focalizzarmi sulla respirazione fino a cadere nel sonno. Nonostante tutto si fa comunque parecchia fatica a recuperare e si percepisce come il corpo sia provato costantemente dalla quota e dalla scarsa acclimatazione.

A parte i tre rifugisti Giovanni ed io, per via del brutto tempo, eravamo gli unici occupanti della Capanna. Alle sei del mattino tutta la struttura vibrava scossa dal vento, nonostante la sua gloriosa storia sembrava tremare e vacillare sotto i colpi del mal tempo. Appoggiato alla parete la sentivo viva, inquieta e tormentata. Poi un lambo di luce mi scuote dal sono. Penso sia la frontale di Giovanni ma aprendo gli occhi non vedo nulla. Poi un altro lampo, appena fuori dalla finestra. Nessun rumore, solo scoppi di luce.

Poi le luci si fanno più intense ed acquisiscono voce. Smonto dalla branda e scendo da basso. I gestori del rifugio sono già all’opera: il generatore si è fermato e stanno trafficando per aggiustarlo. Altre lampi e altri scoppi risuonano all’esterno. I gestori mollano in fretta il generatore e schizzano nuovamente nel rifugio come inseguiti dai diavoli: “Non uscite! Non uscite! Arriva l’inferno laffuori!!”

Gli scoppi diventano crepitii, colpi secchi e schianti. Il rifugio e tutta la montagna circostante sono bersagliati dai fulmini: siamo nel cuore della tempesta, là dove i fulmini nascono quando li osserviamo dal fondo valle!

Per tre ore la Margherita è un bersaglio: la gabbia di faraday ed i parafulmini che la compongono vengono  flagellati dalle scariche elettriche. Noi all’interno, tenendoci a debita distanza dalle finestre, siamo al sicuro: tutto ciò che ci circonda è senza scampo! Sembra di essere sotto un bombardamento, senza generatore siamo quasi al buio e senza riscaldamento. Siamo lassù in cinque, siamo sereni ma la preoccupazione sfiora tutti.

Di provare a scendere non se parla nemmeno e le ore, ancora implacabili, scorrono lente e veloci al contempo. Se vogliamo tornare a casa dobbiamo vincere la nebbia scendendo fino alla Gnifetti attraverso il ghiacciaio del Lys. Dobbiamo essere laggiù per le quattro o le funivie saranno ferme e dovremmo comunque attendere un altro giorno per rientrare.

Alle dieci finalmente il generatore riparte. La situazione migliora ma la nebbia ed il vento non sembrano dare tregua. Durante la notte ha nevicato ed ora tutto è coperto da un soffice strato di neve: non c’è alcuna possibilità di trovare le tracce della pista attraverso il ghiacciaio.

A mezzogiorno infiliamo l’equipaggiamento ed usciamo. “Facciamo almeno un tentativo Giò, andiamo a vedere com’è”. Il vento è calato, il cielo si è aperto in una leggera schiarita e per un breve istante si è intravvisto anche il blu del cielo. Legati iniziamo la discesa scendendo la prima rampa che dalla Punta Gnifetti porta al pianoro sottostante.

Riusciamo ad abbassarci di una cinquantina di metri di quota. Scendiamo con cautela cercando di sfruttare le momentanee schiarite per orientarci. Quando la luce filtra attraverso la nebbia  lo spettacolo è incredibile. Un opaco ed uniforme scenario bianco si costella all’improvviso di particolari, di onde e creste di neve accarezzate da nuvole di polvere bianca trasportata dal vento. La luce brilla danzando tra le ombre animando l’universo bianco che ci circonda. Poi, in un attimo, tutto torna piatto, immobile, uniforme e senza vita.

Il vento non è più così forte, non si sta più così male. Io e Giovanni siamo due sagome colorate, le uniche forme di vita che si agitano in quello sconfinato bianco. Ci muoviamo lentamente, rimarcando le nostre tracce nella neve mentre il vento inizia già a mangiarle. Proseguiamo fino a delle rocce che sembrano delimitare il crinale del primo salto. Da queste parti dovrebbe esserci un primo crepaccio ma noi non vediamo nulla. Forse stiamo già iniziando a vagare, forse non siamo dove crediamo di essere, forse abbiamo già iniziato a smettere di esistere e siamo parte del nulla.

Non provo nè freddo nè paura, non provo neppure ansia: è una sensazione quasi piacevole, forse siamo davvero sul confine. Giunti in quel punto io e Giovanni ci avviciniamo senza quasi parlare, ci guardiamo intorno senza che ci sia nulla da vedere. Quello è il punto del “non-ritorno”: se decidiamo di andare oltre non potremo più tornare al rifugio e potremmo solo proseguire fino alla Gnifetti oppure iniziare a vagare, vagare fino a che ne avremo la forza.

Alle nostre spalle il vento rendeva la nostra traccia sempre più labile e sottile. Io e Giovanni ci siamo guardati in faccia tra gli sbuffi di vento. Non c’era molto da dire: “Non possiamo farcela, non così. Torniamo lassù”. Ci giriamo e percorriamo a ritroso i nostri passi risalendo per la ripida rampa che porta al rifugio. La traccia è ormai scomparsa, non ci resta che salire in verticale ed imbatterci nuovamente nel rifugio.

“Siamo di nuovo qui, mi sono affezionato alla tua cucina!” Scherzo con il rifugista varcando di nuovo la soglia. E’ il momento dei dubbi, delle incertezze e forse dei rimpianti. Forse non dovevamo salire, forse avremmo dovuto desistere o scendere prima. Forse si schiarirà, forse riusciremo a scendere, forse, forse, forse… L’unica certezza è il dolore alla testa, quel fastidio intenso che pulsa sotto l’occhio destro e rimbalza nei denti. L’unica certezza è che devi inghiottire lentamente, mangiare piano, mangiare contro voglia e bere tanta acqua mentre il tempo immobile scorre lento e veloce.

Alle due è chiaro che nemmeno oggi riusciremo a scendere, che non vi è modo di prendere la funivia e che trascorreremmo un’altra notte in quota. Il tempo scorre mentre osserviamo il vuoto oltre la finestra. Poi qualcosa cambia, si vedono i contorni delle rocce, poi le creste di neve e poi appare l’orizzonte.

Il cielo sembra aprirsi mentre una cappa di nebbia persiste sotto di noi. Inaspettatamente dalla nebbia emergono otto figure che avanzano nella neve verso il Margherita. Vederli è quasi uno shock: si poteva passare? Abbiamo sbagliato? Siamo dei brocchi? Siamo stati vittime delle nostre paure?

Sono le prime persone, oltre i tre rifugisti, che vediamo da quando siamo giunti al rifugio. Io e Giovanni corriamo ad accoglierli ansiosi di conoscere la loro storia. Ad eccezione della guida alpina svizzera sono tutti russi, guide alpine russe per la precisione! Attacco bottone in inglese con uno di loro chiedendogli delle condizioni meteo a valle e della loro salita. Avevano aspettato un schiarita ma visto che il tempo non miglioravano erano partiti comunque: “Non ho visto nulla salendo, tutto era nella nebbia: siamo saliti usando il GPS della guida svizzera. Diversamente non si poteva fare.” Il russo e la moglie hanno un’agenzia internazionale per trekking d’alta quota in tutto il mondo. Lui, nello specifico, ha personalmente salito tutte le “Seven Summits”: Everest  (8,848 m), Aconcagua  (6,961m), McKinley (6,194 m), Kilimanjaro (5,895 m), Elbrus (5,642 m), Vinson  (4,892m) e Puncak Jaya (4,884m).

Li osservo sbigottito mentre con totale indifferenza per la quota stappano bottiglie di vino rosso. Insisto con un ultima domanda che, per me, è la più importante: “Ma era fattibile senza GPS?”. Il russo ride: “No, no. Senza Gps era troppo pericoloso. Rischi di perderti e morire.” Mi risponde ridendo ”Io ero preoccupato che lui avesse le batterie di scorta!!” aggiunge indicando la guida svizzera che, bicchiere alla mano, estrae dalla tasca delle batterie stilo e ribadisce con orgoglio “Io ho le batterie ed anche un secondo GPS d’emergenza!”.

In sfregio al mio mal di testa accetto un bicchiere di rosso e brindo con loro. I mei sensi di colpa e le incertezze si sciolgono con le nubi che ci circondano. Mentre il sole tramonta appaiono all’orizzonte, come per uno slancio del destino, le Grigne, il Resegone ed i Corni di Canzo: si avvicina l’ora di tornare a casa, l’ora di tornare tra il piacevole abbraccio dei miei monti.

Fine Atto Secondo

Davide “Birillo” Valsecchi

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Monte Rosa: atto primo

Monte Rosa: atto primo

Giovanni voleva salire in cima al Lyskamm Orientale, un’affilata montagna di 4527 metri nel massiccio del Monte Rosa. Io conosco poco e nulla delle Alpi Occidentali e per questo ho accettato ben volentieri di fare cordata con lui. Come spesso accade ero più interessato alla “scoperta” che alla cima.

Le previsioni indicavano sabato come “coperto” mentre domenica avrebbe dovuto essere “buona” con un peggioramento nelle ore serali. La quantità di alpinisti che, loro malgrado, hanno scoperto quanto questa scommessa metereologica fosse inesatta sono stati parecchi. Tuttavia  credo siano stati davvero in pochi quelli che sono riusciti a fare tanto casino come me e il mio socio.

Quando abbiamo raggiunto Alagna Valsesia grossi goccioloni cadevano dal cielo ma, sempre stando alle previsioni, tutto ero come doveva essere. Quando, risalendo con la funivia, abbiamo raggiungunto Punta Indren il cielo era ancora chiuso, salendo dapprima al Rifugio Mantova e quindi alla Gnifetti si è via via aperto mostrandoci la bellezza delle montagna circostanti. La notte si preannunciava serena e così sembrava promettere il giorno successivo.

Io e Giò ci abbuffiamo e filiamo diretti in branda come due diligenti scolaretti. Quando la mattina suona la sveglia erano le tre e c’era già un’ammucchiata di persone che assaltava la tavolata della colazione. Scambiamo quattro chiacchiere con gli altri alpinisti ed infiliamo l’equipaggiamento. Con un certo disappunto tutti abbiamo constatato come il tempo non fosse un granché ma, essendo ancora buio, c’era la speranza migliorasse.

Al buio abbiamo iniziato a seguire la pedonata  (grande come un’autostrada) che risale per il ghiacciaio del Lys fino all’omonimo colle. Dopo mezzoretta di cammino, senza alcun preavviso, un rumore di neve che scivola su altra neve avanza rabbioso dal lato a monte. “Okkio Giò!” ho gridato al mio socio preparandomi a correre. Aspettavo di vedere l’onda di neve apparire dall’oscurità ma il rumore è proseguito oltre e senza che nulla apparisse nel cono di luce della mia frontale. “Cominciamo bene: molla alle quattro del mattino?!?”

Dopo quel preoccupante rumore ho studiato con vivo e rinnovato interesse la neve: nonostante l’ora la sua consistenza era effettivamente già uno schifo. “Sarà l’ondata di caldo di cui avevano parlato…”. Le possibilità di puntare al Lyskamm si stavano già facendo remote. Poco più avanti incontriamo una cordata che scendeva: “Oilà, buon giorno. Come mai tornate già?”. Il tipo è un trentino e mi risponde schietto: ”Eravamo in tenda al colle, è scesa la nebbia ed hanno cominciato a lampeggiare i fulmini. Avevamo in mente una salita ma non si può fare in queste condizioni. Torniamo a valle perché le altre cime le abbiamo già fatte. Ciao.”

Dopo la prima altre due cordate battono in ritirata. Io e Giovanni  ci avviciniamo per un consiglio di guerra. “Il Lyskamm è andato, però la visibilità è ancora abbastanza buona e la traccia chiara. Saliamo fino al Colle del Lys e diamo un occhiata: se le condizioni lo permettono ci facciamo una sgambata fino al Margherita”. Questo fu il responso del nostro concilio prima dell’alba.

Così, a testa bassa, abbiamo iniziato a macinare passi raggiungendo e superando le cordate che ci precedevano. Al colle del Lys la visibilità si è abbassata ancora un po’ ma Giò conosceva bene quella traccia e mi descriveva diligente ogni bivio che incontravamo. Quando raggiungiamo il Colle del Lys una tenda rossa sfidava il vento che iniziava ad soffiare più intenso. Le due picozze all’ingresso indicavano come gli alpinisti al suo interno avessero desistito dall’uscirne: forse non avevano tutti i torti!

Io e Giò ci sentivamo bene, io non conoscevo assolutamente nulla di quel posto ma Giò navigava bene per entrambi e così abbiamo proseguito. Dal Colle del Lys si discende leggermente per poi affrontare una successiva risalita. In quel tratto incontriamo alcuni “trenini” che, guidati dalle guide, scendono dalla Capanna Margherita. Sono tutti stranieri e piuttosto infreddoliti. Salutiamo e tiriamo oltre. Per arrivare il rifugio dobbiamo solo risalire una prima rampa, superare il piattone successivo e piegare verso est sull’ultimo strappo che porta alla punta Gnifetti ed alla Capanna Margherita. In mezzo ci sono un paio di grossi crepacci aperti ma ben visibili, il resto sembra solidamente chiuso.

Quando superiamo la prima salita il tempo però cambia: la neve, per effetto del vento che stava rafforzando, si  trasforma in piccole palline ghiacciate. Queste simpatiche palline inizialmente rotolano allegre poi, catturate dalle folate di vento, si alzano e bersagliano con forza e rabbia qualsiasi cosa incontrino. Nel corso di pochi minuti le folate di vento si fanno più intense e dolorose. Per cinque o sei secondi sembra di essere dentro una sabbiatrice pesante: nascondiamo il tronco dietro lo zaino mentre le gambe vengono percosse dalla neve. Una dannata punizione!!

Giò ed io facciamo di nuovo consiglio mentre il vento urla sulle nostre parole:”Bene, andiamo al Margherita e tiriamoci fuori da questo schifo!”. Nel punto in cui eravamo proseguire (in fretta) per il rifugio era senza dubbio la soluzione migliore.

Poco più avanti incontriamo due vicentini che, immobili nel vento, continuano a guardarsi intorno spaesati. Quando li raggiungiamo il rumore del vento è tale che dobbiamo urlare per sentirci. “Non siamo sicuri, non siamo sicuri!” continuavano a ripetere indicando punti nella nebbia che, lentamente, stava trasformando la luce del mattino nel temibile “white-out”. Giovanni li ascoltava scuotendo la testa. Io, non conoscendo la zona, non potevo aiutarlo in alcun modo. La traccia, travolta dal vento, era ormai quasi scomparsa e la situazione stava diventando preoccupante.

I due vicentini continuavano a gesticolare totalmente indecisi sul da farsi. Ho afferrato Giò per la giacca e gli urlato vicino alla faccia “La sai?”. Lui a sua volta mi ha afferrato urlandomi semplicemente “La sò!”. Per me andava bene.“Okay, allora togliamoci da qui!” Dopo l’ennesima scarica di neve e vento ho afferrato uno dei vicentini “Noi andiamo di là. Ci si vede: in bocca al lupo!”. Non era più il momento di fare conversazione…

La mia era una scommessa al buio sull’esperienza di Giovanni: nella tormenta e nell’ignoto, lui davanti ed io dietro. Alle nostre spalle, quasi inghiottiti dalla nebbia, i due vicentini seguivano le nostre tracce: anche loro stavano scommettendo alla cieca su di noi.

Arrancavamo in salita, ormai avevamo passato i 4500 metri. Erano le otto e venti del mattino, la traccia era ormai andata ma come per magia Giovanni ha trovato le bandierine del Margherita. Entrando nel atrio del rifugio ridevo felice come un bambino, eravamo coperti ed imbiancati dal ghiaccio ma eravamo a destinazione. “Bravo Giovanni! Bravo!” Ho assestato una sonora manata al mio socio abbracciandolo felice. Avevo scommesso bene!

Poco dopo anche i vicentini varcano la soglia ed insieme entriamo nel rifugio. La Capanna Margherita è il rifugio di vetta più conosciuto al mondo ed è quello posto alla maggior altitudine d’Europa (4556m). Ha novanta posti letto ed è una meta ambita e relativamente accessibile. Quando entriamo è totalmente e sconsolatamente deserta: siamo i primi a raggiungerla!

I tre rifugisti hanno raddrizzato le panche da sopra i tavoli e ci hanno servito del the caldo. La quota iniziava a farsi sentire ma cercavo di contenerne gli effetti mentre un tarlo iniziava rodere la mia mente: “Bene, ora siamo al rifugio. Ora come scendiamo?”

Poco dopo di noi un secondo gruppo di vicentini ha varcato la soglia. Come i loro compagni avevano perso l’orientamento ed avevano “pascolato” fino alle pendici della Punta Zumstein prima di trovare la strada per la Margherita: la loro faccia la diceva lunga su come se l’erano passata!

Ma la vera stella della mattina è l’ingresso di una guida italiana: capelli bianchi, profondi occhi azzurri ed accento indigeno. Con lui un cliente italiano con cui discuteva di gare di fondo. ”Perfetto” Lui sarebbe stato il nostro faro lungo la via di ritorno. Più rilassato ho appoggiato la testa sul tavolo, ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato.

Quando ho riaperto gli occhi la guida se ne era andata e nel locale ristorante del rifugio erano rimasti solo i vicentini che, nemmeno troppo implicitamente, aspettavano noi per scendere. “Cazzo! Cazzo! No!” E’ stato il mio primo pensiero!

“Merda! Che prila! Mi sono perso la Guida!” Io e Giò rindossiamo l’equipaggiamento ed usciamo. Erano le dieci del mattino, il vento era diventato ancora più forte, iniziava a nevischiare e  la nebbia si era infittita. Dormire non mi aveva aiutato molto: avevo una pericolosa “voglia di scendere” e razionalmente sapevo quanto tale istinto fosse insidioso.

Appena fuori del rifugio Giovanni aggancia una falsa traccia che corre lungo la cresta verso sud. Entrambi ci accorgiamo di essere andati oltre la curva che verso destra scende ai piedi della rampa della Punta Gnifetti. “Siamo andati oltre, abbiamo perso la svolta. Dobbiamo tornare indietro” mi urla Giovanni mentre torniamo sui nostri passi: dannazione, avevamo toppato alla prima curva! Non era un gran inizio!

Propongo a Giovanni di rientrare: “Andiamo dentro, aspettiamo le undici e vediamo se sto vento cala!”. La quota e l’incertezza cominciavano a darmi davvero fastidio. Probabilmente al di sotto della vetta il vento era meno forte ma tutti i miei campanelli d’allarme era accesi. Non conoscevo assolutamente quel posto e durante la salita non avevo avuto modo di imparare un granché per via della scarsa visibilità. Il mio controllo sulla situazione era pari a zero e tutto il peso delle scelte stava per cadere sulle spalle di Giovanni.

Quando rientriamo nel rifugio i vicentini non ci sono più: riuniti in un gruppetto da cinque si erano fatti forza e si erano buttati nell’ignoto. Probabilmente mentre eravamo sulla cresta avevano imboccato la svolta giusta ed iniziato la loro perigliosa discesa. Per quanto ne sappia dovrebbero avercela fatta: quanto brutta se la siano vista non saprei dirvelo.

“Se la nebbia ti blocca a metà strada ed inizi a girare in tondo sei fregato, Birillo. Qui sei al caldo, sei al sicuro. La testa ti fa male e le tue scelte sono fragili. Lascia questo posto e te ne pentirai.” Questo era il pensiero che mi tormentava mentre la quota pulsava dietro gli occhi.

“Giò, ti offro il pranzo mentre decidiamo sul da farsi” Ordiniamo un paio di zuppe calde ed iniziamo a mangiare. Ingollo lentamente ogni cucchiaiata ma la zuppa sembrava far fatica a star giù. Stavo davvero uno schifo e non avevo molti assi da giocarmi. Così mi sono avvicinato al rifugista: ”Oilà, ciao. Sai mica dirmi che dicono le previsioni?” Lui mi risponde mezzo incazzato: la Svizzera promette bello mentre l’Italia minaccia tempesta. Nemmeno lui capisce che diavolo voglia fare il tempo, tutto ciò che sa è che tutte le prenotazioni sono state disdette e che lui non da consigli a nessuno.

“Evviva” mormoro. Nella mia testa c’era però il ricordo della sera prima, il sereno cielo azzurro sopra le montagne. In fondo non aveva nessun senso rischiare la pelle scendendo senza aver visto nulla del Monte Rosa: fanculo il vento, fanculo la nebbia, io voglio vedere qualcosa di queste montagne!

In tutto questo c’era un fattore curioso: alla macchinetta del parchimetro avevamo inserito quattro euro di troppo ed avevamo pagato un giorno in più. Non l’avevamo fatto apposta: avevamo letto male le istruzioni. Era semplicemente successo ed in quel momento era un fatto.“Giò, tu lavori domani?” Lui scuote la testa “No, attacco martedì”.

L’ultima funivia partiva alle quattro e mezza. Se fossimo stati in grado di scendere fino alla Gnifetti (cosa tutta da verificare!!) c’era il rischio di perdere l’ultima corsa e di dover trascorrere comunque la notte al rifugio più a basso ritardando di un giorno il rientro.

Una stramaledetta montagna di rischi ed incertezze mentre eravamo piacevolmente al caldo nel cuore della Capanna Margherita (con un mal di testa terribile ma nssun problema serio). Il rifugista accende lo stereo e partono a suonare i Creedence Clearwater Revival (un segno del destino!). Nel rifugio non è rimasto nessuno a parte noi: “Giò, ma a noi chi ce lo fa fare di rischiare il culo scendendo ora? Dormiamo qui e scendiamo domani?” Giò ha riso, non aveva mai dormito al Rifugio Margherita: quella era un ottima occasione.

A cuor sereno mi sono accordo con il rifugista per due brande nella stanza numero 5 (il mio numero fortunato). La mia scommessa era che entro sera, magari verso il tramonto, il cielo si acquietasse come il giorno precedente e che il successivo le condizioni fossero abbastanza buone da scendere con relativa sicurezza. Quello che non sapevo era che quella scommessa sarebbe stata la sola che in quel giorno avrei clamorosamente perso: il peggio doveva ancora arrivare!

Fine Atto Primo.

Davide “Birillo” Valsecchi

mappa ghiacciao del Lys

Strahlhorn (4190m) Cresta Nord-Ovest

Strahlhorn (4190m) Cresta Nord-Ovest

Quando arriviamo a Saas-fee veniamo dirottati in una specie di terminal d’aeroporto dove dobbiamo lasciare la macchina. Dal 1951, anno in cui fu costruita la strada che porta a valle, nel paese non può circolare alcun tipo di veicolo a motore ad eccezione dei piccoli veicoli elettrici del servizio pubblico. “Fantastico” verrebbe da pensare, se non fosse che il socialismo più estremo si è trasformato nel più costoso dei capitalismi: il mio vecchio e logoro portafogli piange disperato consapevole che questa è la Svizzera e che da tutta questa faccenda non ne usciremo senza una severa “pettinata”.

Tra le nuvole appaiono però il Dom (4.545m) e l’ Allalinhorn (4,027m), la grandiosità della scenario che emerge dal grigio degli impianti da sci è tale da travolgere ogni incertezza o rimpianto. Caricati gli zaini in spalla ed indossato l’equipaggiamento d’alta quota, attraversiamo il paese fino a raggiungere la funivia del Felskinn: in meno di cinque minuti schizziamo da 1792 a 2991 metri di quota (Badaboom!!).

Scaricati direttamente sul ghiacciaio iniziamo la traversata che in una quarantina di minuti ci porterà al rifugio Britannia (3030m) ed al cospetto della nostra meta, lo Strahlhorn (4190m) e la Cresta nord-ovest.

A capo della nostra compagine c’è Giovanni e con lui Sandro, consigliere del Cai Asso, e suo nipote Gottfried di Bolzano. I due hanno alle spalle alcune belle salite sui quattromila Alpini ed alcuni trekking in Nepal; entrambi hanno una certa età, Sandro ha passato i sessanta e Gottfried si avvicina alla cinquantina, e poca dimestichezza con le manovre di corda. Lo Strahlhorn (ed il meraviglioso scenario circostante) diventano quindi la scelta migliore: una salita non tecnica ma fisicamente molto impegnativa ed estremamente appagante!

Lungo la salita al rifugio sento una familiare voce femminile, quando arriviamo al Britannia, con grande sorpresa, scatta la “rimpatriata”: troviamo infatti Michela, della Scuola di Alpinismo Alto Lario, in compagnia di Lorenzo, accompagnatore di media montagna, ed un’amica alle prime esperienze con la quota. Se avessimo provato ad organizzare un simile rendezvous non ci saremmo probabilmente mai riusciti!

La serata al rifugio passa in allegria: Lorenzo, disperatamente alla ricerca di una sigaretta, tiene banco tutta serata raccontandoci delle sue ultime salite e delle montagne Austriache dove ha lavorato a lungo come guida. Lui e Gottfried parlano perfettamente tedesco e questo rende la nostra permanenza in rifugio una gioiosa passaggiata. La notte, nonostante la quota, io ronfo alla grande mentre i miei soci si rigirano afflitti chiudendo occhio purtroppo solo qualche ora.

Quando alle tre di notte arriva la sveglia il Britannia si rianima di alpinisti che preparano l’attrezzatura e si affrettano a fare colazione. Metto il naso fuori dalla porta e una magnifica luna piena illumina il ghiacciaio dell’Allalingletscher tramontando velocemente alle spalle del Rimpfischhorn. Al buio iniziamo la nostra “discesa” sul ghiaccio (il rifugio è abbarbicato su un cucuzzolo roccioso) attraversando poi il ghiacciaio e la zona crepacciata (abbondantemente coperta di neve) risalendo quindi verso il valico dell’Adlerpass.

Quando indossiamo i ramponi formiamo le nostre cordate: Giovanni e Sandro, io e Gottfried. Poco dopo l’alba, trascorse ormai 3 ore e mezzo di lungo cammino sul ghiaccio, raggiungiamo finalmente il passo e la nostra salita entra nel vivo affrontando la Cresta nord-ovest.

Da subito lo scenario diventa incredibile (dalla cima è infatti possibile ammirare oltre 30 cime superiori ai 4000metri!). A dare magnifica mostra di sé è dapprima il Cervino, seguito dal Lyskamm, dal Rosa e da un tripudio di altri “giganti” che vanno dal Bianco all’Oberland!

La cresta è in condizioni ottime ed incontriamo lungo il nostro cammino solo una facile crepacciata abbastanza chiusa con solidi ponti. Con noi risalgono lungo il grande dosso nevoso due cordate svizzere, guidate da due guide alpine, un paio di cordate di italiani ed una di americani. Gli svizzeri, come da tradizione loro, si legano in gruppi numerosi (arrivano ad essere in sette su un corda!!) camminando ad un metro e mezzo l’uno d’altro.

Quando raggiungiamo la stretta cresta finale resto basito nel vederli camminare in quel modo lungo la stretta striscia di neve che sovrasta i due abissali strapiombi: per quanto “ganza” possa essere una guida nessuno può trattenere sei persone che scivolano in quel tratto! Oltre la cresta, ormai alla croce sommitale, ci attende la cordata a tre di Michela e Lorenzo che ci scattano questa bella foto durante il passaggio. In fila Giovanni, Sandro, Birillo, Gottfried ed alle spalle il “trenino” svizzero.

Sulla vetta, uno stretto cucuzzolo di neve e rocce, Giovanni si sbizzarrisce organizzando la foto con il gagliardetto. Io mi guardo intorno e con rapido senso pratico sentenzio: «A me della foto importa poco: piuttosto, se uno di voi tre ribalta a basso tirate giù tutti, me compreso! Io sto qui, bello seduto, a farvi sicura mentre vi scatto la foto!». Seduto su una grossa roccia (a cui avevo cautamente girato la corda) ridevo insieme a Lorenzo e Michela su quanto fosse vero quel pensiero. Quando poi, qualche minuto dopo, sono sopraggiunte le due cordate svizzere la cima ha pericolosamente mostrato tutti i limiti della sua scarsa capienza.

Scattando la foto ai miei tre soci non ho potuto che gioire della loro felicità e soddisfazione per la cima. Da sinistra: Giovanni, Sandro e Gottfried. Davvero bravi!

Lungo la discesa, superata la cresta, ho fatto una delle mie solite pirlate! La quota è una strana bestia ed influisce in modo davvero imprevedibile ed importante sul fisico. Non importa quanto in alto siate già stati in passato, oltre i tremila metri possono capitarvi le cose più strane. L’esperienza può solo rendervi più consapevoli ma a priori non vi mette al riparo da nulla.

Mentre salivo, infatti, all’improvviso, quasi senza motivo, il cuore è partito a battere all’impazzata come un tamburo. Ho semplicemente “preso atto” della cosa, ho respirato in modo più profondo rallentando e cadenzando ulteriormente i miei passi. Nel giro di qualche metro tutto era risolto. Nessun problema, quindi.

Durante la discesa, invece, il buon Gottfried mi ha offerto un salamino di carne di maiale e camoscio che preparano dalle sue parti. Dopo il primo morso la golosità ha vinto e me lo sono scofanato tutto di botto: non l’avessi mai fatto!!

La digestione è il centro nevralgico di tutto il nostro corpo umano. Quando lo stomaco o gli intestini si incartano è come entrare in stallo con un aeroplano: tutto precipita! «Ahi ahi ahi, hai fatto la pirlata, Birillo!» Questo è stato il mio primo pensiero quando un filo di mal di testa ha cominciato ad assalirmi «Eppure non sei di primo pelo, queste cose dovresti saperle accidenti!».

La discesa, già di per sé incredibilmente lunga e logorante, è stata una simpatica odissea per me. Alle undici attraversavamo il ghiacciaio sotto un sole cocente. Io avevo un desiderio latente di vomitare, un caldo aberrante e non riequilibravo liquidi in nessun modo. Piano piano ho perso tutte le energie ma, con il senno di poi, è stato divertente e persino istruttivo verificare come la testa, nonostante qualche svarione, abbia tenuto (alla fine si impara sbagliando sul facile).

Altre volte mi ero sperimentato una simile situazione ma in quelle occasioni mi ero  più vulnerabile e questo, tutto sommato, mi divertiva nonostante continuassi a darmi del pirla con una certa veemenza. Dall’Adlerpass al rifugio sono quasi sei chilometri di ghiacciaio più un ripida salita sulla morena fino al Britannia: praticamente un deserto rovente che ho vissuto come un “viaggio” assestante, un sogno che lentamente diradava man mano che si abbassava la quota.

C’è stato un momento, piuttosto divertente ora, in cui come una vecchia suocera continuavo a ripetermi: «Ma è mai possibile fare tutte queste fatiche?! Questo è solo masochismo e stupidità! Fanculo la montagna, io appendo gli scarponi al chiodo, mi compero una playstation e al diavolo tutto! Non si può far ‘sta vita da stramaledetti ogni volta!!».

Fortunatamente il mio fisico ha la capacità di riprendersi abbastanza in fretta a patto che io dorma, anche solo per qualche minuto (condizione non sempre possibile, purtroppo). Una volta raggiunto il Britannia, superato quindi tutte le difficoltà, sembravo Pisolo: ovunque mi appoggiassi mi abbioccavo recuperando un pochino di forze. Complice l’abbassamento di quota tutto, piano piano, si è rimesso in bolla. Quando finalmente quel salamino (che accidenti era buonissimo!!) ha smesso di andarmi su e giù ero nuovamente in forze e dallo stato “demolito” sono tornato alla condizione di “accettabilmente stanco”. (sono una bestiolina curiosa alle volte…)

Io sono stato in diverse occasioni oltre i cinquemila metri (ed ho preso anche qualche calcio in culo a seimila) ma tutta questa storia solo per ricordarvi (e ricordami) quanto la quota sia un ostacolo importante ed invisibile, anche su salite semplici. La quota ti frega, ti frega quando non ti lascia riposare, ti frega quando ti disidrata, quando ti affatica oltre le aspettative. Se non ci fai attenzione la quota ti frega e se lo fa quando meno dovrebbe sono davvero casini seri.

Comunque sia, non ho intenzione di appendere gli scarponi al chiodo! Anzi… Riguardando le foto non posso che essere felice di questa salita che più comunemente viene affrontata in primavera con gli sci: un ambiente davvero incredibile!! Probabilmente vi ritroverete a maledire quell’interminabile discesa ma lo spettacolo che lo Strahlhorn riesce ad offrire è davvero impagabile.

Ancora complimenti a Sandro e a Gottfried: ottima salita!

Davide ”Birillo” Valsecchi

A spasso sul Cassandra

A spasso sul Cassandra

Alle tre e mezza di notte suona la sveglia, salto giù dal letto come un automa ed inizio a prepararmi affidandomi al pilota automatico. Ho dormito forse quattro ore dopo aver passato la giornata in giro per la Grigna con Fabrizio: «chissà se ce la faccio oggi?»

L’occasione è particolare e la cordata è davvero inedita: tutti e tre, infatti, ci conosciamo da anni e siamo parte della stessa sezione CAI, tuttavia sono state pochissime le occasioni per salire in quota insieme. Questa è la prima volta che ci “leghiamo” tutti e tre insieme.

Giovanni ha un paio di anni in più di me, ha alle spalle grandi salite su neve ed in curriculum può vantare l’Aconcagua, il gigante di 6.960m nelle Ande, ed altre numerose ascensioni nel gruppo del Monte Bianco e del Rosa. Stefano, più giovane di un paio d’anni, vanta altrettante salite importanti sulle Alpi, è un aiuto istruttore della Scuola Alto Lario e recentemente ha superato con successo le selezioni del Soccorso Alpino. Due “forti” ed un “Birillo”: secondo vuoi chi dei tre si è infilato nello zaino la corda?!

Come vi dicevo l’occasione è particolare: Stefano infatti è stato operato qualche mese fa ad una spalla ed ora ha un paio di viti al titanio he si prendono cura della sua ballerina articolazione. Per via dell’intervento ha dovuto rinunciare a gran parte della stagione ed è ancora nella fase finale della riabilitazione.

«Dai, io mi metto in mezzo ed andiamo a fare due passi sulla neve» L’uscita di oggi era nata così: con la voglia di aiutare Stefano a fare un giro in quota interrompendo il suo digiuno forzato. Il Cassandra in giornata è una bella sgambata ma le difficoltà tecniche, non particolari, gli permettono di affrontare la salita senza sforzare il braccio e la spalla.

Alle sei arriviamo a Chiareggio ed alle sette siamo al rifugio Porro: erano oltre dieci anni che non vedevo il ghiacciaio del Ventina. L’ultima volta ero in compagnia di Simone, Ciano ed Iceman che, facendo lo spiritoso con il Génépì, aveva preso una sbronza colossale proprio alla Porro.

Il ghiacciaio è arretrato ancora in modo impressionante rispetto ai miei ricordi e camminiamo parecchio sul fondo della morena prima di raggiungere il ghiaccio. Imbrago, ramponi, caschetto, nodi palla… montiamo tutto l’ambaradan e ci incamminiamo sul ghiaccio. Crepacci, salvo la crepacciata terminale, è difficile trovarne sul Ventina ma in fondo ne basta uno, anche non troppo fondo, per mettersi nei guai. Sul ghiacciaio ci siamo solo noi ed è davvero piacevole andarsene a zonzo con la corda ben tesa mentre avanziamo sereni nelle luci del mattino.

Fa un caldo terribile ma la neve tiene ancora bene e la giornata luminosa risplende in tutte le cime che ci circondano. Io sono in fondo alla cordata, accuso un po’ la fatica per il giorno precedente ma mi godo la salita cercando di tenere a bada la sete. Stefano, per sicurezza in mezzo, si sente informa e la spalla non gli da noia. Giovanni, che tira la cordata, si abbandona in un passo cadenzato da “spaccamontagne” macinando il ghiaccio.

A mezzo giorno siamo al Passo Cassandra (3097m), abbiamo alle spalle poco meno di 1500 metri di dislivello per 9km di sviluppo: non male per una mattinata in amicizia! Al colle non resta che decidere sul da farsi: la cresta che porta alla cima del Cassandra è in gran parte ormai priva di neve e soprattutto la parte iniziale, la più ostica, è piena di sfasciumi.

«Io mi metto qui buono e vi aspetto. Con la spalla è troppo rischioso per me passare tra le rocce. Non posso rischiare di scassarla ora». Proclama Stefano mettendosi bello comodo al sole ed al riparo dal vento. Lasciarlo da solo sarebbe di per sé inaccettabile ma le condizioni della cresta non danno molte possibilità neppure a me e Giovanni. Passar sù, tribolando magari un po’, ce la si potrebbe anche fare: il vero difficile sarebbe poi scendere tra gli sfasciumi quando anche la poca neve rimasta avrà cominciato a mollare.

«Naaaa…» gli rispondo «Questa settimana sono finito ad arrampicare in mezzo alla grandine ed ai fulmini, gradirei evitare altre rogne se possibile! Più che la cima io ora vorrei piuttosto una birra gelata!!». Giovanni ride ed annuisce allegro, la decisione è presa: per oggi basta così.

Pascoliamo un po’ tra le rocciette scattando qualche foto e godendoci il panorama. Il sole, che durante la salita pesava come un macigno sule nostre teste, ora è piacevolmente caldo nella brezza della cresta.

Giriamo i tacchi ed iniziamo la discesa vagando spensierati in quella distesa bianca che scende a valle. Il ghiacciaio ed i sui pendii creano scenari e prospettive affascinanti mentre ne attraversiamo le forme. Rapidi e veloci ci infiliamo alla Porro: birra, pizzoccheri ed un fiume di racconti, di ricordi, di montagne e di salite ancora da fare.

Per Stefano questa è (finalmente) la prima uscita dopo l’operazione e siamo tutti davvero felici abbia, piano piano, iniziato a riperdere. Insieme ci siamo proprio divertiti e chissà che questa salita non sia l’inizio delle avventure di una nuova cordata per la nostra sezione.

Alla prossima!

Davide “Birillo” Valsecchi

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