Onda d’Ombra

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dscf6043La roccia è fredda e l’aria umida mentre arrampichiamo in ombra. Le dita per il freddo cominciano ad irrigidirsi, a farsi meno sensibili. L’ambiente che mi circonda è assolutamente ed inaspettatamente dolomitico: la nebbia ed il sole scivolano in un alternarsi di luci ed ombre tra grandi ed imponenti torrioni. Curiosamente con le dita infreddolite cerco prese e tacche sempre più piccole, questo sembra scaldarle un poco dandomi la sicurezza che la diminuita sensibilità non mi inganni su qualche roccia instabile. Mi muovo sciolto, lavorando in appoggio con i piedi, in un’arrampicata intensa ma non troppo faticosa. Mi guardo intorno studiando i passaggi, meravigliato da quello che mi circonda: “Questa è una delle più belle salite che io abbia mai fatto”.

Una placca di calcare grigio che risale per oltre duecento metri fino alla cresta sommitale, credo che sulle nostre montagne sia qualcosa di assolutamente raro se non addirittura unico. Sguero me ne aveva parlato a lungo di quelle placche e così, prima che l’inverno irrompa, abbiamo deciso di andare finalmente ad esplorarle. Lui e Giancarlo nelle settimane passate avevano aperto un’altra via in quella zona, affrontando un lungo diedro strapiombante sulla vicina bastionata: fortunatamente io ero piacevolmente dal dentista quel giorno!

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Quando arriviamo alla base della placca ci imbraghiamo distribuendo i vari materiali. Una piccola grotta formata da macigni incastrati segna il punto in cui rimontiamo il primo muretto attraverso una ripida spaccatura. Ci alziamo per trenta metri prima di piegare verso destra per altri trenta attraversando la cengia che porta al centro della prima grande placca. Guero ride, guarda in alto e parte. Io lascio scorrere la corda nel reverso mentre la osservo distendersi libera verso l’alto. La roccia è quasi monolitica, molto più compatta di quanto ci aspettassimo da lontano. Con la dovuta accortezza è davvero poco quello che sembra cedere, mentre richiede grande attenzione il pietrisco che, cadendo dall’alto si è appoggiato sulle placche. “Guero, aspetta un secondo che c’è un mezzo problema”. Un grosso sasso appoggiato sulla placca mi osserva da quando sono in sosta. Lui mi guarda dall’alto ed io lo tengo d’occhio dal basso: quando la corda ha cominciato ad avvicinarsi mi era chiaro il resto della trama. La corda sfiora il sasso che, quasi svegliandosi all’improvviso dal suo lungo letargo, si agita buttandosi spaventato di sotto. Un rimbalzo e poi giù per trenta metri. Come un giocatore di baseball ne osservo la traiettoria. Un’altro rimbalzo e poi impatta andando in pezzi sulla grande roccia che protegge la mia sosta. Le scaglie volano inoffensive tutto intorno mentre mi investe il profumo di roccia infranta: “Okay Guero, problema risolto” gli urlo allegro.

dscf6036Poi Guero, come una nave su un mappamondo, scompare dalla mia vista. Cinquantacinque metri più tardi sento il rumore di un martello su un chiodo: “Ecco la sosta”. La nebbia va e viene mentre la nostra voce rimbalza sulle grandi pareti alle nostre spalle. “Vengo!”. La corda è quasi libera, vincolata in sinuosi passaggi tra gli speroni e protetta sola da qualche friend nei passaggi più duri in diedro. Da secondo posso arrampicare quasi dove voglio e con un po’ di sfacciataggine raddrizzo la via del Guero ingaggiando verticale i passaggi più estetici. Certo, se “birlo di sotto” la corda avrà tutto il tempo di farmi passare la voglia di ridere prima di tendersi e bloccarmi, ma ormai mi sento quasi stregato dal quell’arrampicata. Non ho mai arrampicato su una placca di calcare tanto sconfinata, intensa ma anche docile e generosa. La maggior parte delle placche su calcare che ho affrontato in passato erano traversi su roccia liscia dove ho collezionato una buona ed inquietante serie di lunghi pendoli: la placca è solitamente la mia bestia nera, per questo ero assolutamente rapito dalla bellezza di questa salita.

La sosta è all’uscita sulla seconda grande cengia, un passaggio ben noto ai camosci che la attraversano orizzontalmente. Trenta metri verso destra e siamo alla base del grande canalone che rimonta verso la cima. Il cuore del canale è umido, reso viscido dal muschio e dall’acqua che cola: Guero vuole rimontare il primo tratto per poi tornare in placca verso sinistra. La roccia del canale è logorata dalle intemperie e cede al primo assaggio di Ivan. Una fettuccia, un friend e Guero passa oltre. Poi, sulla sinistra, trova un vecchio chiodo a foglia anni 60 che esce a mano. Incuriositi dal ritrovamento cerchiamo senza fortuna altre tracce di passaggio. Forse un tentativo o forse una salita invernale. Alla base delle placche, tra le rocce del canale sottostante, avevamo trovato i resti di un vecchio scarpone in cuoio e, con il senno di poi, quei due oggetti anni ‘60 potrebbero appartenere alla stessa storia. Purtroppo la montagna ed il tempo sono bravi a custodire i propri segreti, spesso nonostante le lapidi sbiadite sul fondo del canalone principale.

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Altri sessanta metri scorrono davanti a me prima che il suono del martello chiami l’imminente sosta. Quando riparto mi immergo nuovamente in un’arrampicata straordinaria. Distribuisco il peso, tegno piccole ed appaganti prese mentre i piedi si spalmano sugli appoggi in placca. Passaggi di forza che si alternano a passaggi delicati di appoggio: stupendo. Ogni tanto la corda fa fischiare qualche sasso dall’alto ma solo roba piccola, ormai mi sono abituato e mi muovo con la giusta lentezza perchè non colgano di sorpresa. Nel mezzo di un grande placca una lama verticale mi regala una Dulfer da collezione: stupendo! Poi dall’alto sento battere nuovamente il martello: “…o sta rinforzando la sosta oppure ha iniziato a schiodarla… in ogni caso è il momento di lasciar perdere i numeri ed arrampicare schiscio!” Gli ultimi passaggi si fanno sempre meno verticali e solo un diedrino rotto mi ingaggia prima della sosta.

Quando arrivo in sosta, una bella cengia, un bel chiodo ed un friend, Ivan mi sorride malandrino: “Venivi su bene ed ho iniziato a schiodare uno dei due chiodi”. Per arrivare sulla cresta manca solo una decina di metri ed un diedro aggettante. Potremmo aggirarlo verso destra ma, visto che il tempo ce lo permette, rimontiamo questo passaggio nonostante poco si accosti alle caratteristiche del resto della salita.

Sul sentiero di cresta ci sediamo finalmente al sole felici della salita. Monica, l’adorabile moglie di Ivan e sua compagna in numerose salite, guardando le foto delle placche aveva suggerito un nome per la via: “Onda d’Ombra”. I più attenti avranno compreso di quale montagna e di quale zona si tratti. Fortuntamente nessuno ha preso d’assalto con il trapano quelle bellissime ed atipiche placche e si spera che anche in futuro quel vecchio chiodo a foglia rimanga l’unica testimonianza del passaggio dell’uomo in una natura intatta.

Davide “Birillo” Valsecchi

Onda d’Ombra
7/10/2016 – Ivan Guerini, Davide “Birillo” Valsecchi, 5 lunghezze, NoSpitZone

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