Bruno Detassis

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“Il signore del Brenta” intervista di Nanni Villani (Rivista della Montagna 1983) – Rifugio Alberto e Maria al Brentei, punto di partenza per alcune tre le più belle arrampicate dolomitiche, al centro di un vallone chiuso al fondo dalla figura della Brenta Bassa, quasi raccolta e delicata se confrontata con le impressionanti muraglie del Crozzon e le slanciate figure dei campanili sui due lati. A pochi metri dal rifugio uno strano trespolo, o forse meglio una sorta di leggio, giusto due pezzi di legno inchiodati, ed una specie di sgabello ricavato dallo stesso legno dalle venature marcate. Quale mai l’uso? Due giorni sono trascorsi prima di sapere. L’ho visto per la prima volta proprio seduto lì, il Bruno, le braccia appoggiate al leggio immaginario, nelle mani un binocolo con cui segue passo a passo la salita di due ragazzi spagnoli che quella mattina hanno attaccato la sua «Via delle Guide». «Eh no, ragazzo, traversi troppo a destra»; le parole, quasi bisbiglio, ricreano un legame, meglio una simbiosi uomo-parete sicuramente unica nella storia dell’alpinismo.

Bruno Detassis aprì con Enrico Giordani la «Via delle Guide» sulla parete nord est del Crozzon di Brenta nel luglio del 1935. Nel 1949, prigionia in Germania e guerra nonché una gloriosa carriera alpinistica alle spalle, sarebbe diventato gestore del rifugio Brentei, proprio di fronte al Crozzon, continuando così a ripercorrere idealmente nel succedersi delle estati quella salita, diventata nel frattempo fondamentale banco di proava per intere generazioni di arrampicatori.

Giudicata tra le scalate più impegnative dell’epoca, la via è testimone del formidabile intuito, con traversate ed aggiramenti che non sminuiscono l’eleganza della via stessa e sfruttano appieno le linee naturali di salita offerte dalla montagna, che ha contrassegnato l’iter alpinistico di un personaggio come Bruno Detassis, grande e importante al di là delle pareti che lo videro primo salitore, perché figura che mal sopporta gli stretti abiti del semplice grande alpinista. «Vivevo in una città pedemontana, facevo il fabbro e l’idraulico, e la passione per la montagna, fin dall’inizio, aveva una radice nella libertà dei miei istinti. lo andavo per prati e per boschi, mi interessavo alla storia della montagna, e ne attaccavo le pareti provando un versante e poi l’altro: comunque ho sempre ammirato andare in cima dalla via più facile, gli altri versanti venivano dopo. Passando dal primo al quarto grado noi facciamo quasi tutte le cime del mondo: vorrei vivere migliaia di anni per poterle salire tutte senza superare il quarto grado. Il resto è acrobazia, che io ammiro e che rappresenta l’evoluzione».

«Ho fatto la guida tra una licenza e l’altra, perché sono stato militare quasi quarant’anni. No, scherzo: comunque ho fatto la prigionia, e nella guerra del Quaranta ho fatto tutti i fronti, un po’ con Castiglioni e un po’ con la Tridentina». «Facevo la professione e nelle giornate libere andavo per conto mio. Ho fatto la guida proprio perché potevo rimanere in montagna, per la mia passione per la montagna. Se no, avrei fatto il fabbro». Nelle giornate libere, come lui stesso le definisce, Detassis risolve alcuni de maggiori problemi alpinistici degli Anni Trenta, in particolare nel gruppo del Brenta, pur non disdegnando frequenti puntate, spesso con Castiglioni, per la pubblicazione di guide, nelle Pale di San Martino e nel gruppo della Marmolada.

Nel 1933 supera, sempre con Castiglioni, la parete nord est della Cima Tosa, e un anno più tardi, in due giorni, con Ulisse Battistata ed Enrico Giordani, fa sua la parete nord est della Brenta Alta, per una via che proprio in questi ultimissimi anni è stata riscoperta al punto da essere considerata uno dei più interessanti itinerari alpinistici delle Dolomiti, su roccia ideale e di difficoltà sempre assai sostenute. Il 1935 è l’anno della già citata «Via delle Guide», cui segue nell’agosto del 1937, con l’altro fortissimo arrampicatore trentino Giorgio Graffer, il superamento del pilastro della parete est della Cima Tosa, la maggiore impresa di Detassis sotto il profilo delle pure difficoltà tecniche, di ordine estremo specie nella parte iniziale della salita. Dato fondamentale, tutti i percorsi sono svolti con minimo impiego di chiodi, all’insegna di una arrampicata libera tirata spesso al limite.

Testimonianza del livello di preminenza e polivalenza raggiunto da Detassis nell’alpinismo pre-bellico è la partecipazione (1937, con Pirovano) dell’arrampicatore trentino alla lotta per la conquista della parete nord dell’Eiger. «Cassin, e altri, lavoravano negli arsenali. Avanguardisti. Poi gli davano quindici giorni di ferie pagate, che gli altri non avevano. lo non so se è vero, immagino. Dall’altra parte c’era Hitler, e così è venuta fuori la lotta per l’Eiger, vera lotta per nazioni. L’alpinista andava per fare, ma dietro c’erano i giornali, la letteratura… Comunque, se uno partiva per l’Eiger lo faceva con passione, preparazione, intelligenza, e partiva solo se pensava di poter ritornare».

Oggi piove, niente produzione. Una noia sottile e stagnante gonfia il rifugio, perché, se ognuno prova delle sensazioni diverse arrampicando sulla medesima via, a voce le sequenze dei passaggi sono sempre le stesse, nel racconto il quinto può anche diventare quarto, i chiodi pioli per la solita scala da galline, e la pioggia continua a cadere. Spunta invidiatissimo un mazzo di carte. Forse solo al Brentei, tra tutti i rifugi delle Alpi, la pioggia può essere occasione di quelle da non perdere. Perché spesso capita che un vecchio, i lunghi capelli, così come la barba, più grigi che bianchi, ad incorniciare una faccia dalle rughe scavate e dal colore sano di chi in montagna ne ha viste proprio tante, incominci a parlare e raccontare, e non solo sul filo dei ricordi, ma anche nel segno di una filosofia di vita che gli permette, anche con persone di cinquant’anni più giovani, di discutere e consigliare, di capire e giudicare.

Non a caso Detassis dimostra sempre una sensibilità per l’evoluzione dell’alpinismo, si parli di scale di valutazione, di tecnica e di allenamenti, quanto di spinte e motivazioni, che ne fa un interlocutore da ascoltare sempre con attenzione, poiché dotato di una chiarezza e un’attualità che stupiscono». «L’alpinismo è un grande libro da seguire con un punto di domanda al fondo della pagina, perché dietro comincia l’altra pagina». «Si pensa di fare agonismo, ma è difficile farne nell’alpinismo: alpinismo è ideale e passione, e vale prima di tutto per se stessi. Alpinista è anche chi va sui sentieri ed in cima proprio seguendo i sentieri. Quando uno ha ottant’anni si accorge degli errori fatti, della fortuna che ha avuto ad essere qui a parlare in questo momento, e può dare l’esempio ai giovani». «Prendiamo le rivalità: le rivalità muoiono. Ma in tutto c’è rivalità, anche tra le pentole di smalto e quelle inox. Una dice: ‘perché io sono di smalto e tu sei invece così bella?” E così anche nell’alpinismo, e se tu sei stato più bravo di me a passare dove io non sono riuscito, bene, questa è la via del progresso. Ma questa è già acrobazia, perché si tenta da vie sempre più difficili». «lo ho fatto anche molta ginnastica nel tempo libero. Oggi i giovani dicono che bisogna allenarsi, che bisogna tenersi su con un dito. lo battevo la mazza dodici ore al giorno, ed anche la gente dei miei tempi si teneva su con un dito. Non c’è novità, al massimo c’è quella del magnesio, ché noi dovevamo asciugarci sui pantaloni». «Non accetto nell’alpinismo il cronometro, perché non fa tener conto della prudenza: e i giovani oggi non mi sembra credano molto all’importanza della prudenza. Se nell’alpinismo si vuole portare la testa a casa, perché è la testa che comanda, ci vuole il calcolo. Però non bisogna screditare i giovani, perché in un senso o nell’altro rappresentano l’evoluzione: dopo sarà la montagna medesima a prendere o a scartare».

La modernità del personaggio alpinisticamente parlando, diventa più spiegabile se si pensa che Detassis, pur compiendo come già ricordato le imprese più prestigiose della propria carriera negli Anni Trenta, ha continuato ad arrampicare fin dopo i sessant’anni, ed è rimasto nel giro del grande alpinismo fin quasi agli Anni Sessanta, quando guidò nel 1957, forte della presenza di Cesare Maestri, la spedizione trentina al Cerro Torre in Patagonia.

La porta del rifugio si apre di colpo, ed una strana figura ne esce con passo deciso. Un paio di scarponi ai piedi, una tuta blu da meccanico, uno spesso paraorecchie in lana moda Anni Quaranta. Nella soleggiata mattina di inizio agosto, la goffa sagoma si avvicina al casotto di arrivo della teleferica collegata al fondovalle, si rannicchia all’interno del piccolo carrello tra bottiglie vuote e lenzuola sporche, e in un attimo sparisce velocissima lungo il filo. Il tempo è prezioso, specie quando si è superata una certa età, ed ogni tanto Bruno si concede — ma non sarà anche il richiamo all’ebrezza del vuoto? — una discesa a valle degna di un numero da trapezista.

Figlio di un sindacalista irridentista, Bruno arriva all’alpinismo molto giovane: inizia ad arrampicare a dodici anni, a quindici sale per la prima volta il Campanile Basso. Sul Basso, una delle poche cime del Brenta dove non traccia una nuova via, compie comunque la prima invernale con Serafino Serafini nel febbraio del 49, pochi mesi prima di salirvi per la centesima volta.

Solo sulla Cima Tosa, quasi a compensazione, apre cinque nuove vie nell’arco di ventinove anni: nel ’33 la parete nord est e la sud sud ovest con Castiglioni, nel ’37 con Graffer il pilastro della parete est, nel ’52 col fratello Catullo e Marino Stenico la parete ovest, infine, dieci anni dopo, con i fratelli Catullo e Giordano, ennesima via sulla parete nord est.

Come già ricordato l’attività in proprio si alterna con la professione di guida esercitata a partire dai venticinque anni, ed è ulteriormente arricchita da imprese quali la prima traversata scialpinistica delle Alpi. Molti grandi alpinisti, terminata l’epoca delle grandi imprese personali, si sono allontanati dalle cime quando queste hanno smesso le sembianze di strumento con cui appagare la propria sete di conquista, avventura ed anche affermazione. Bruno Detassis è invece uomo di montagna, e dell’ambiente alpino ha assimilato con gli anni elementi sempre diversi, realizzando un rapporto continuo e completo. Così oggi, ad oltre settant’anni, se la montagna stessa non è più impresa, pur sempre rappresenta terreno non avaro di soddisfazioni; basta imparare ad apprezzare quelle che egli stesso definisce le «piccole cose», che sono le forme e i colori della montagna e le storie degli uomini che la frequentano, la cui scoperta giornaliera impone sensazioni sicuramente meno violente di quelle dei giorni delle grandi salite, ma non meno intense.

Una vita senza rimpianti? — «Un rimpianto ce l’ho, ostia. E che dovevo scrivere di più e invece ho scritto poco perché è difficile. Oggi ho uno che fa un libro per me, un teologo, l’unico teologo con cui vado d’accordo perché loro hanno una mentalità e io un’altra. Lui scrive per me, però bisogna vedere cosa scrive, se no finisce nel fuoco anche quel libro lì. La montagna cosa ti dà? Vento e tormenta, traversate, ghiaccio e camini. Tu imposti così un libro su pareti ghiaccio e camini: “ho allargato le gambe, le ho strette, ho alzato la mano…” Se tu non fai un romanzo la montagna non vale niente, e la verità della montagna non c’è più. Se io ti dico: “ostia, in quel bivacco lì ho patito, etc. etc.”, hai ragione di dirmi: “stai a casa, cosa vai a patire”. Cerco di fare un libro della vita, mettendo anche la parte alpinistica che ha appartenuto alla mia vita. Ma è difficile che un grande alpinista, quello che ha vinto certe difficoltà, sappia scrivere. Come me molti altri arrivano da una manovalanza di cultura. Per scrivere ci vuole la penna, perché devi trasmettere agli altri quello che pensi, e non è facile. Messner sì che è bravo, ma ha una cultura, ed è già fuori da noi o almeno da me. Ti fa il libro di verità e il libro di commercio. Basta, ho già parlato troppo. E vedete voi giovani vedete come siete? Non pagate neanche da bere».


Dolomiti Anni Trenta

  • Sotto un sole che fu
    “Cose e fatti di Dolomiti Anni Trenta” di Roberto Mantovani
    (Rivista della Montagna 1983).
  • Gino Soldà
    “Un vicentino sulla Marmolada” intervista di Stefano Ardito
    (Rivista della Montagna 1983).

  • Bruno Detassis
    “Il signore del Brenta” intervista di Nanni Villani
    (Rivista della Montagna 1983)

  • Luigi Micheluzzi
    “Il primo sesto grado italiano sulle Dolomiti” di Enrico Camanni
    (La rivista della Montagna 1983).

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