Lo confesso: nella sua “semplicità” è stata un’emozione intensa. Per tutta la settimana il tempo è stato incerto e mercoledì la neve ha coperto le cime di gran parte delle montagne oltre i mille metri. Contro ogni aspettativa le previsioni giuravano e spergiuravano che giovedì sarebbe stata una bella giornata d’Aprile e, incredibilmente, così è stato: un sole stupendo in un cielo azzurro.
Anche io ho scommesso sul bel tempo e così, giovedì mattina, sono pronto all’impegno. Risalendo lungo l’interminabile e ripida dorsale di Cranno punto ai Corni di Canzo rimanendo sorpreso dalla quantità di neve che via via vado incontrando. Supero il piano di candalino, la coletta dei Corni ed arrivo agli immacolati prati di Pianezzo: non una traccia infrange il candore della neve che brilla nella luce del mattino!
Attraverso il bosco fino alla colma di Pianezzo dove si trova il crocifisso di legno affacciato sulla valle Ravella. Da qui inizia la parte più difficile: la salita al corno occidentale innevato.
Risalgo in ghiaione che ora appare come un’uniforme distesa bianca e comincio a muovermi tra le roccette puntando verso la cresta. La neve si è accumulata e sprofondo oltre il ginocchio affondando le braccia oltre il gomito alla ricerca di appigli per i passaggi più difficili. La neve è scolpita in onde e sulla roccia corre un sottile strato di ghiaccio trasparente.
Mi muovo piano e mi fermo spesso a studiare la salita. Sono solo, senza corda, senza compagno e senza attrezzatura particolare salvo i miei guati: devo fare il doppio dell’attenzione usando il triplo della prudenza. Attorno a me ripidi canaloni mentre sul lato sud la parete offre un tuffo che supera i cento metri: imperativo è non scivolare e muoversi “protetti”.
La salita è impegnativa, lavoro con le gambe e le braccia ma soprattutto mi impongo di lavorare bene con la testa. Studio i passaggi, la neve, il ghiaccio, la roccia ed il vuoto. Siamo “solo” sui Corni di Canzo ma la sfida è coinvolgente ed il rischio concreto.
Ripensavo ai grandi del passato ma anche agli alpinisti della nostra zona che su queste montagne si erano fatti le ossa o addirittura avevano perso la vita. Ricordi di un alpinismo lontano che rivive concreto mentre affondo le mani nella neve in cerca di appigli. Cresta dopo cresta, passaggio dopo passaggio, finalmente raggiungo la croce sulla cima: 1370 metri, niente di eccezionale eppure quante emozioni!
Scatto qualche foto e piano piano mi porto sopra il caminetto che sale sull’altro versante del Corno Occidentale. L’ho percorso tante volte sia in salita che in discesa accompagnandoci bambini ed adulti ma ora, guardandolo pieno di neve ed affrontandolo in discesa, non mi sembra così elementare come lo ricordavo.
Ci vorrebbe un pezzo di corda, forse, ma mi limito a scendere con prudenza. Ben saldo con le mani alla roccia lascio che gli scarponi esplorino la neve in cerca di un sostegno solido ricordandomi, quasi come un mantra, che “si arrampica con le gambe e non con le braccia”. Alla fine, circondato dalla neve che mi viene appresso, anche il caminetto è superato.
Fradicio, nel sole che ormai scioglie la neve, mi avvio verso il corno centrale. Mi piacerebbe salirli entrambi e dalla forcella avanzo verso il corno costeggiando la cresta ed apprezzando la differenza tra i due speroni di roccia che caratterizzano i Corni di Canzo.
La salita è più facile della precedente ma ormai il sole è alto, è mezzogiorno e la neve inizia a sciogliersi, la roccia brilla di ghiaccio che si stacca e di acqua che cola in ogni dove. Rifletto sul da farsi studiando la via di salita ma il problema sembra essere la discesa: se scalda ancora c’è il rischio di scivolare scendendo sulla neve molle e la roccia bagnata. Mi avvicino ancora e poi, davvero a malincuore, accetto il fatto di essere da solo e di non avere le condizioni per salire: “Non luogo a procedere: non puoi fare lo stupido sui Corni!”
Con un po’ di rammarico ritorno al rifugio della SEV ed inizio a “circumnavigare” il corno centrale costeggiando la roccia e la vertiginosa Parete Fasana. Giungo al Corno Orientale continuando il mio viaggio attorno alla roccia, in uno scenario innevato scopro pareti e canali sconosciuti studiando vie e percorsi commemorati da vecchie targhe ed oggi probabilmente quasi dimenticati. Il rammarico per non avere raggiunto la cima scompare di fronte alla voglia di scoprire che mi ha trasportato fin qui.
Scendo poi verso il Terzalpe e da lì verso casa. Il Gps dice 19 km e 7 ore di cammino ma non è in metri o in minuti che si misura la mia soddisfazione per un’inconsueta giornata ai Corni.
Davide Valsecchi
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