«Corni di Canzo: questa è stata la prima via tracciata e la parete stessa ha preso, non a caso, il nome di Fasana. Scalata storica e difficile, non sono poche le persone che, dopo averla ripetuta, hanno avuto dubbi sulle difficoltà effettive. Per chi vuole viaggiare nella storia è meritevole di una visita sebbene negli ultimi anni non si abbiano notizie di ripetizioni. Attenzione particolare alla roccia del primo tiro.»
E’ con grande gioia che vi racconto una delle salite più intensamente desiderate tra le possibili ai Corni di Canzo: la leggendaria via Fasana, la prima storica via che solca l’abisso dell’omonima parete. Era il 30 Giugno del 1910 quando Eugenio Fasana, figura altrettanto leggendaria dell’alpinismo nazionale, compieva quella prima storica salita, probabilmente madre di gran parte dell’alpinismo nel gruppo dei Corni.
«Lascia perdere: nessuna protezione, roccia marcia e sassi che si muovono ovunque. Lascia stare, nessuno fa più quella via». Questo era il consiglio che, a ragion veduta, gran parte degli alpinisti più esperti di me avevano su quella via. Nonostante ciò quella via era qualcosa che davvero desideravo nel profondo.
Quando Mattia mi ha scritto “dai, proviamo la Fasana” ho perso il sonno fino al giorno della salita e, imbragato all’attacco, provavo una reverente soggezione per quella maestosa mostruosità (103 anni ed un giorno dopo Fasana). La parete infatti è un oceano di onde, un susseguirsi di increspature di roccia liscia e strapiombante. Seguendo i dettami del tempo, che rifuggivano la parete aperta, la via corre in un’angusta spaccatura ed in un lungo e verticale camino attraversando tutti i 100 metri d’altezza.
Fin dal primo tiro la roccia si mostra cedevole e friabile. Mattia, che ha tirato da primo tutta la via, si muove con leggerezza saggiando la resistenza di ogni minuta presa ed appoggio. I pochi punti saldi sono spesso lisci o al contrario, per questo da subito si è costretti a lavorare in opposizione con le spalle al lato destro della spaccatura. Un grosso friend alla partenza e poi due vecchi chiodi rinviati con una fettuccia, ancora un friend e, sul passaggio in cui la spaccatura si fa aggettante sul vuoto, infiliamo un chiodo ad U a protezione. Una serie di lame verticali e cedevoli e poi, fissando un altro chiodo, affrontiamo un un passaggio delicato verso sinistra raggiungiamo la moderna sosta a fix della via che corre al fianco.
Decidiamo di piazzare lì la sosta perché ancora non sappiamo come sia la quella vecchia (che ipotizziamo dentro il camino) e soprattutto perché, riparato a sinistra, il secondo di cordata può fare sicurezza senza il rischio di essere investito da eventuali sassi in caduta: qui letteralmente si muove tutto!! Ogni volta che Mattia, per prudenza, lancia qualche sasso instabile oltre la parete lo vedo volare nel vuoto ascoltandone il sibilo ed il successivo schianto.
Nel primo tratto del camino la roccia si dimostra un disastro anche peggiore del precedente. Il fondo è invaso dalla terra e dai detriti, il bordo destro è un’aggettante placca liscia che protende nel vuoto mentre il lato sinistro non offre alcun appiglio. L’unico modo per proseguire è dando fondo alla tecnica da camino guadagnando in opposizione ogni metro (“faticosa arrampicata ad incastro” recitava la relazione).
Finalmente, sopra un franoso terrazzino, troviamo la sosta originale a cui hanno aggiunto una modernità ormai anticata: due fix del dieci ancorati ad un vecchio fittone. Accorciare il primo tiro si è dimostrata una buona scelta e Mattia mi recupera fino alla sosta. Ora arriva il difficile, il passaggio chiave della via.
Fortunatamente in quel tratto la roccia torna ad essere sana (sul lato sinistro) mentre il camino si chiude in una profonda e stretta fessura che si incassa da destra verso sinistra. Il lato destro è una lama che sporge in fuori mentre il lato sinistro cresce e poi spancia. Non ci sono protezioni fisse in questo passaggio e Mattia mostra il meglio di sé dando prova di grandissima tecnica e controllo. Nella fessura piazziamo tre friend recuperando l’ultimo ed alzandolo poi oltre i primi. Mattia “aderisce” di schiena al lato destro recuperando altezza a piccoli passi in completa opposizione: in quel passaggio puoi solo spingere, non c’è nulla a cui attaccarsi.
L’uscita del camino è altrettanto curiosa. La roccia, infatti, sembra torcersi ed un castello di massi incastrati declina in un’ansa di roccia liscia e compatta. Mattia ha affrontato il passaggio “spalle al muro” lavorando d’incastro fin dove possibile e compiendo poi una abile “girata”. Io invece, che avevo superato con grande soddisfazione il camino, ho affrontato l’uscita viso alla roccia: in pratica mi sono ritrovato con le braccia aggrappate a rocce instabili ed i piedi in appoggio su placca liscia!
La terza sosta, che la relazione indicava in un vecchio albero mugo, deve essere venuta a mancare negli anni perché, oltre ad una nicchia di sfasciumi, non c’era poco e nulla a cui ancorarsi sotto la friabile fascia sommitale della parete. Mattia, aggirandosi tra i detriti, ha combinato un alberello e due chiodi risolvendo comunque mirabilmente la questione.
Salire verso sinistra, puntando quindi alla più vicina cresta sud, significa avventurarsi in un mondo di roccia marcia, gialla e malferma sopra un salto verticale di cento metri. La via, seguendo l’esperienza del buon Fasana, si alza infatti verso destra attraversando grossi massi e riparando sul ripido prato che scivola dal fianco della cima lungo il lato nord est del Corno Centrale. Qui una grossa pianta offre un valido supporto per la sosta ed un ottimo sentiero per capre il disimpegno dalla via.
Mentre salivo dalla seconda sosta verso la terza, prima di affrontare il camino, Mattia dall’alto mi ha gridato: «Davide fai un po’ di foto! Qui ho idea che non ci torniamo più!». Stretto tra le pareti di roccia, chiuso in quel punto d’osservazione unico, guardavo già con trasporto speciale il Moregallo e più dietro il Coltignone e le Grigne. No, ha ragione Mattia, probabilmente non passeremo più da quell’angolo tanto agognato di mondo: troppo rischioso, troppi sassi, troppo pericolo. Tuttavia l’emozione che ha saputo darci quell’attraversata lungo l’argine delle onde della Fasana è qualcosa di difficilmente descrivibile, qualcosa di intenso che rimarrà vivo a lungo.
Noi siamo indigeni dei Corni, eredi di un passato che ha gettato le basi per il nostro presente. Per noi quel tratto di roccia ha un valore speciale: lassù, oltre quel camino, siamo stati all’altezza delle nostre montagne, all’altezza di chi ci ha preceduto ed indicato la via. Ripassando sotto quella grande parete non sospireremo più “forse un giorno”, ma un intenso e nostalgico “quella volta” da conservare con affetto ed emozione.
Grazie Signor Fasana, grazie Mattia, grazie a tutti voi!
Davide “Birillo” Valsecchi