Category: Corni di Canzo

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Il Rosso ed il Blue

Il Rosso ed il Blue

Il titolo originale poteva essere “attraverso l’inferno”, ma sarebbe suonato un po’ troppo melodrammatico sebbene il fiume da attraversare si chiami realmente “Inferno”. Se i “vecchi” hanno dato un nome simile ad un fiume c’è un perchè e, arrivandoci vicino, non si può dargli torto. L’Inferno è infatti un torrente secondario della “Valle delle Moregge”, o anche della “Valle del Fiume” come riportato su alcune mappe. L’Inferno corre parallelo alla parte finale del torrente che separa il Moregallo dai Corni di Canzo. Un torrente impervio che forma profonde forre e salti rocciosi in una zona tra le più selvagge di tutta l’Isola. In quella valle le due montagne, come giganteschi guerrieri di roccia, si fronteggiano silenziosamente dando ampia mostra della propria natura più selvaggia. L’ultima volta che ho fatto canyoning in quella zona era l’estate del 2013 (qui qualche foto: Moregallo Canyoning) e tra gli articoli di Cima potete trovare diverse esplorazioni condotte in quella zona. Il tempo, qualcuno dirà l’età, cambia il nostro punto di vista e questo trasforma radicalmente ciò che crediamo di conoscere. In quest’ultimo periodo, con occhi nuovi, sto “riesplorando” quella zona: non più un tuffo nell’ignoto, ma una ricerca più metodica ed attenta tanto dell’ambiente quanto della sua storia. Cercando un collegamento percorribile tra “Caprante ed il Rapanui” ho iniziato ad individuare e  censire i vecchi sentieri abbandonati o quasi dimenticati. Quelli che seguono sono quindi gli appunti due giorni di ricerca.

Blue: Il senso del Paglione per la neve.

Sabato nevicava, poco ma anche in riva al lago. Più in alto invece la neve cominciava ad appoggiarsi sui pendii, complice il freddo becco che in spiaggia segnava “meno uno”. Mollata la Subaru da Carla e Beppe ho iniziato a risalire il Sentiero del 50° Osa. Sotto la parete nord, ad una decina di metri dal sentiero due mufloni femmina mi osservavano immobili tra i fiocchi di neve. Il loro sguardo animale comunicava in modo evidente il messaggio: “Senti, mettiamo d’accordo. Nevica e fa troppo freddo per correre. Noi rimaniamo ferme e tu te ne vai per la tua strada”. Il freddo era tale che la macchina fotografica non voleva saperne di accendersi ed ho cercato di fare il possibile con il cellulare. Loro, di parola, non si mosse minimamente! Superata la parete e la sommità della cava ho puntato verso nord lungo un sentiero in buona misura nascosto dal paglione innevato. La traccia è appena visibile ma lungo il percorso sbiaditi bolli rossi rimarcano il passaggio ormai abbandonato. La vecchia galleria, oggi chiusa, prende il nome di Melgone. La galleria dovrebbe essere del 1926, dalle sue “finestre” un tempo gettavano in acqua le auto rubate. Oggi su quelle pareti c’è una falesia AsenPark (…cambiano le epoche ma la frequentazione rimane pessima hehhe). Al di sopra di questa parete c’è un ampio spazio boschivo quasi pianeggiante. Un vecchio sentiero, sfruttando una vecchia scala in sassi  ed un’inquietante ponticello in cemento abbandonato a se stesso da decenni, sale dal lago fornendo l’accesso alla zona. Probabilmente in passato era l’accesso di servizio per la manutenzione dei pali telefonici e della corrente posizionati nella zona, oggi abbattuti ma ancora visibili. Il fiume Inferno taglia in due questa zona e forma, sempre nel bosco, bastionate rocciose alte una ventina di metri. Una traccia a bolli gialli porta ad un primo rudere, con annessa piccola fonte, risalendo poi ad una seconda casetta, sempre abbandonata ma in condizioni migliori. Il “sentiero giallo” risale poi sul fianco del Moregallo lungo la valle delle Moregge fino a raggiungere la creta uscendo sulla cima. L’ho percorso diverse volte in passato ma non l’ho mai tracciato o pubblicato perchè ha dei passaggi sul paglione decisamente esposti e, nella parte alta, ci sono tutta una serie di varianti d’uscita tutte assolutamente da valutare (leggisi rognose). In questo caso però non mi interessava salire verso la cima del Moregallo dove, tra l’altro, c’era già una buona quantità di neve oltre a quella che stava gia candendo! No il mio obiettivo era individuare, dal lato sud dell’orrido, eventuali punti di passaggio verso l’altra sponda. Quella zona è però molto più ampia ed articolata di quanto ci si possa aspettare. Oltre all’abisso creato dall’orrido ci sono diversi livelli che si intersecano con pareti e canali secondari. Ad un primo studio è quasi impossibile attraversare l’orrido. Le pareti sono troppo alte o complicate. Ci sono tracce di animali che scendono ma non ero disposto ad avventurarmi in discesa sul paglione coperto di neve. Più a monte invece, cercando di intercettare il sentiero che sull’altro lato scende da Oneda fino al fiume, le possibilità erano decisamente migliori. “Soldato che fugge combatte un altro giorno”: visto che non smetteva di nevicare, che il paglione era pericoloso e la visibilità scarsa, ho mollato il colpo e sono tornato al subarone passando dalla galleria (da qui lo strano excursus in pieno lago del GPS). 

Rosso: La Volpe e la Bella Donna.

Dopo aver provato da Sud non restava che riprovare da Nord. Visto la giornata di sole ho parcheggiato il Subaru appena sopra la prima stanga di Oneda e mi sono addentrato nei selvaggi territori della valle delle Moregge. Il sentiero che porta al fiume è esattamente inquietante come lo ricordavo. Paglione e roccia friabile slavata dal passaggio dell’acqua: al mix questa volta dovevo aggiungere ghiaccio e nevischio. Potevo gestire la situazione, tuttavia è evidente che quel sentiero sia decisamente sconsigliabile ai più, specie in discesa dove i passaggi obbligati ti forzano nel vuoto di salti ragguardevoli. Nota bene: il paglione ghiacciato ha i suoi difetti ma tiene più di quello bagnato: quindi in primavera o in estate la situazione non migliora. Una volta giunto sul fiume ho iniziato a cercare eventuali passaggi che mi permettessero di raggiungere il “sentiero giallo” sull’altro lato. La ricerca si è subito dimostrata fruttuosa. Il passaggio degli animali è stato il primo indizio. Poi su una pianta ho trovato uno sbiadito nastrino colorato (un trucchetto che usano molti di coloro che, come me, esplorano vecchi sentieri). Poi, finalmente, su un sasso la conferma in un pallido bollo rosso. Scendere dal sentiero giallo è abbastanza fattibile, un EE severo ma giusto. Risalire verso Oneda è invece qualcosa di più di un EE. In salita le difficoltà risultano più gestibili ma il pericolo di grandi e terribili cadute rimane immutato.  Il collegamento “caprante – rapanui” quindi esiste, ma quello fin qui trovato richiede di salite fino ad Oneda, scendere al fiume lungo un percorso piuttosto agghiacciante, risalire fin sopra il Melgone prima di raggiungere la base della parte Nord e ridiscendere al Rapanui. Un’escursione affascinante quanto impegnativa, non certo il percorso ideale per andare a bersi una birra in spiaggia tirandosi dietro le nanerottole… La mia “missione” è quindi ancora incompiuta. Visto che avevo ancora tempo ho pensato di farmi un giro più a monte, cercando di spingermi al di sotto l’affascinante muraglia del Ceppo della Bella Donna. Qui dapprima mi sono imbattuto in un inaspettato “albero di natale”, addobbato di palline, stelline e pupazzetti, sulla sommità di un precipizio decisamente “fuori dal mondo”. Poi, intercettato un’altro vecchio sentiero, ho iniziato a risalire sulle pendici occidentali dei Corni di Canzo. Qui ho dapprima incontrato le orme di una volpe sulla neve. Poi, più avanti, mi sono imbattuto anche nella sua impellicciata autrice. La vista sulle Valle delle Moregge, incrostata dall’ultima neve, è davvero suggestiva. La parte alta del sentiero, che non è segnato salvo qualche magro ometto di roccia, culmina su ripidi pendii erborsi ancora innevati. I canali hanno già scaricato, gli accumuli sono duri ma c’è ghiaccio ovunque. Inoltre nel cuore della valle, quasi sempre in ombra, fa decisamente freddo ed il vento dal lago non aiuta certo. Così, visto che non ero equipaggiato a dovere per guadagnare il passaggio verso l’innevata bocchetta di Moregge ( …dove a Gennaio si sprofondava nella neve fino ai fianchi e facceva un freddo dannato!! Vedi La tazza di Dumbo) ho fatto ritorno sui miei passi, felice di aver avuto successo nel collegare “rosso e blue”. Felice che la mia ricerca sia ancora piacevolmente incompleta.

Nota Bene: i sentieri qui riportati sono “abbondanati” da tempo. Non compaiono sulle mappe, non hanno segnaletica consistente, sono spesso in condizioni precarie o instabili. Percorrerli, allo stato attuale, significa praticare “archeologia acrobatica” più che escursionismo. Le indicazioni qui riportate hanno prevalentemente valore storico. Non infilatevi nei guai che da quelle parti sanno essere “grossi”….

Davide “Birillo” Valsecchi

La tazza di Dumbo

La tazza di Dumbo

Le nanerottole si sono svegliate in contropiede, anticipano ogni mia intorpidita mossa: ho la coordinazione e la rapidità di un bradipo che nuota mentre cerco di preparare la colazione. La più grande vuole andare all’asilo ed io, disperatamente, cerco di spiegarle che è ancora troppo presto, che l’asilo rimarrà chiuso finchè il sole non illuminerà il Resegone. Ma il tempo è una faccenda dannatamente complicata. Entro in cucina: “Alexa: buongiorno, musica rock, volume 4!” La mia versione domestica ed edulcorata di Hal9000 mi saluta dolce e mi propone una selezione casuale di musica rock anni ‘90: in fondo anche lei l’ha capito che sono vecchio dentro! Parte “Zoombies” dei Cranberries, datata 1994. La mia mente riesuma per un istante i ricordi della gita scolastica a Parigi in quarta liceo. Già, ero rimasto da solo, bloccato nel vagone sbagliato, lontano da quello della mia classe. Già, ma era il vagone di una classe di sole donne del linguistico di Lecco. Già, io avevo una zaino pieno di cose da mangiare ed un barattolo di Nutella: 10 ore di viaggio notturno. Come un buon pescatore avevo messo l’esca all’amo aspettando che la preda abboccasse: Valentina, credo questo fosse il suo nome. Beata e spensierata gioventù. “In your head, in your head. Zombie, zombie, zombie-ie-ie. What’s in your head, in your head. Zombie, zombie, zombie-ie-ie, oh”. Sono passati 26 anni, i ricordi vanno e vengono come una scintilla mentre, con una nanerottola aggrappata alla gamba, cerco di mettere caffè nella caffettiera. “Cosa c’è nelle tua testa Zombie?” Dolores O’Riordan è morta nel 2018, annegata nella vasca da bagno dopo una sbronza colossale. Lei non c’è più e vive nelle sue canzoni,  noi siamo ancora qui e vaghiamo senza scopo: chi è lo Zombie? Verso il caffè in un tazza ed aggiungo una quantità esasperata di zucchero (“…perchè Cassin nelle spedizioni portava un chilo di zucchero per ogni giorno di spedizione!”). Porto alle labbra il caldo nettare quando la nanerottola più grande fa la “bocca a quadrato”, chiude gli occhi, inclina la testa ed innalza al cielo un lamento furioso che più che un pianto sembra un richiamo atavico a qualche forma di comunicazione pre-umana insita nel mio genoma. “Andrea, che c’è ora?” Sua madre compare alla porta, mi squarda ed all’istante coglie il senso di quell’universo agitato che mi sfugge: “Hai preso la sua tazza di Dumbo. Non devi prendere la sua tazza di Dumbo”. Rovescio il mio caffè in una tazza anonima, sciacquo Bumbo nel lavandino e lo restituisco alla sua legittima proprietaria che, con sguardo di rammaricata disapprovazione, fa appello a tutto l’affetto che prova per il suo papà nel disperato tentativo di perdonarlo per il suo imperdonabile errore. Sospiro. Vivo con tre femmine e quattro gatti: me la sono cercata. Mi allungo sul mio caffè, esito un istante, poi ne prendo un sorso socchiudendo gli occhi. “Alexa: mi vuoi bene?” “Ti voglio bene come ad un amico” Friendzonato dalla domestica digitale: quanta amarezza. Tre ore dopo sono in mezzo alla neve, sulla cima del Ceppo della Bella Donna mentre il sole scompare alle spalle del Corno Centrale. L’ombra avanza, fa un freddo cane e soffia un vento tagliente da Nord. La neve è coperta di scaglie gelate ma è farinosa: affondo fin sopra il ginocchio addentrandomi nel bosco in cerca di una traccia verso casa. Saluti dal Quinto Corno!

Davide “Birillo” Valsecchi 

  • Corno Orientale e Corno Centrale dal Ceppo della Bella Donna

  • Cima Moregallo e Cresta Occidentale dal Ceppo della Bella Donna 

Per il Versante Sud

Per il Versante Sud

Causa il LockDown di Natale – ognuno deve fare la sua parte! – passo il tempo su vecchi libri, investigando nel passato mentre tengo teso l’orecchio alle nanerottole che dormono. Il mio piano è riordinare finalmente il materiale raccolto e proseguire con la “WikiPedia” dedicata all’Isola Senza Nome: un progetto iniziato anni fa ma per lungo tempo interrotto a causa di problemi tecnici e/o pigrizia del sottoscritto.  Tuttavia, sfogliando una pubblicazione del Saglio del 1957, è emersa una nota storica molto interessante che ho pensato di condividere subito. Chi ben conosece il sentiero EE che attraversa il Corno Centrale da Est a Ovest rimarrà piacevolemente sorpreso – o quanto meno così è stato per me – nel leggere questo breve trafiletto (quantomeno per le date ed i nomi!).

Corno Centrale – Per il Versante Sud, ore 1:10; facile. – E’ la via percorsa nel 1896 da A.Andina e R.Ferrari. – Dal rifugio (NDR: all’epoca era il rifugio era l’Alpe Pianezzo, non la SEV), seguendo quel sentiero pianeggiante che si porta sul verde sperone settentrionale del Corno Centrale, s’abbassa ai piedi della Parete Fasana e, costeggiati i Pilastri, si raggiunge il crinale erboso un poco al di sopra della Bocchetta di Leura (ore 0.40). Dalla Bocchetta ci si alza per la cresta verso la base dei Pilastri e l’inizio di quella caratteristica spaccatura che li separa dal Corno Centrale. Per una scarpata erbosa si riesce alla breve bastionata del versante meridionale e la si risale, senza via obbligata e speciali difficoltà, fino alla vetta (ore 0.30-1.10)  

La breve bastionata è il tratto roccioso oggi attrazzato con catene, quello che ciclicamente è soggetto a piccoli grandi crolli. Francamente il vero “Passaggio a Sud” sarebbe quello che, superata la Torre Desio, permette di rimontare obliquamente dal canalone Sud sfruttando il “traverso delle capre” giungendo appena sopra l’uscita della via delle Caverne. Questo è il solo modo per salire effettivamente da Sud senza affrontare itinerari alpinistici.  Si tratta però di una “ravanata” per chi conosce il posto più che di un vero sentiero. Il Saglio, nella sua pubblicazione, probabilmente descrive quindi quello che oggi è il sentiero EE della Cresta Est. Una traccia oggi molto frequentata e che, grazie a queste poche righe, appare come pressoche ignota finchè A.Andina e R.Ferrari, nel lontano 1896, decisero di “passar sù”. Quasi me li immagino, senza sapere nulla di loro, mentre osservano il Corno Centrale dalla cima del Corno Orientale:  “Secondo me di là si passa… andiamo?”.

Piccole grandi perle di alpinismo indigeno…

Davide “Birillo” Valsecchi

Qui sopra un estratto della carta sentieristica dei sentieri (fonte OpenStreetMap) mentre sotto un dettaglio del “Traverso delle Capre” (o sentiero delle caverne) sul versante sud del Corno Centrale (che, probabilmente per sensati motivi, non compare nella sentieristica).

Nella Notte Buia

Nella Notte Buia

La notte del 23 di Dicembre, quando la normalità avvolgeva la quotidianità del periodo natalizio, le montagne si illuminavano grazie alle consuete fiaccolate. Quella storica e super-affollata sul Cornizzolo, quella alla Croce di Megna, al Palanzone ed al San Primo. Oltre a queste le luci della Crestina Osa sul Moregallo, quelle del Soccorso Alpino sul Corno Rat, gli AsenPark sulla Cassin al Medale e tante altre ancora. I Corni di Canzo invece rimanevano al buio. Le fiaccolate dei monti vicini erano più famose ed invitanti. La cima del Corno Occidentale è stretta ed esposta sui lati, specie con il buio e la neve. Anche la salita per il caminetto, ma soprattutto la discesa, può essere piuttosto ostica con la roccia bagnata o il ghiaccio. Non è decisamente una passeggiata alla portata di chiunque.

Mia mamma diceva sempre che sono un “Bastian Contrario”, probabilmente sono come l’indiano arrabbiato del “Piccolo Grande Uomo” e cerco solo di lavarmi con la sabbia ed asciugarmi con l’acqua. Sta di fatto che nel 2014 decisi che non sarei andato alle fiaccolate a cui andavano tutti, non sarei salito sulle montagne che salivano tutti. Le mie montagne sono i Corni di Canzo e quindi avrei portato “luce nel buio” lassù. A darmi man forte, mentre trascinavo sulla cima una vecchia batteria d’auto ed uno sgangherato faretto, c’erano mio fratello e il marito di mia sorella. L’anno successivo si unirono alla stramba idea anche altri membri dei Tassi del Moregallo. La batteria divenne sempre più piccola e leggera mentre il faretto fu sostituito da ghirlande a led via via sempre più tamarre. Divenne un nostro rito: qualcuno si occupava di portare su le luci, qualcuno ripercorreva la ferrata. Il nuovo bivacco invernale del Rifugio SEV offrì il riparo in cui festeggiare sfuggendo al tagliente e gelido vento che spesso soffia dal nord del lago. A salire in cima al Corno eravamo sempre – fortunatamente – in pochi, ma grazie alla Sev, che negli ultimi anni teneva aperto il rifugio preparando la trippa, anche a Pianezzo si festeggiava in allegria.

Tuttavia lo scorso anno, il 23 Dicembre del 2019, qualcosa è cambiato: ero terribilmente malato, con la febbre alta e bloccato nel letto. Per la prima volta non potevo essere in squadra, dovevo lasciare che i Tassi se la cavassero da soli senza le “padanti e petulanti” raccomandazioni di “Nonno Gufo Birillo”. Già, ero ammalato: quando poi è scoppiata la pandemia la mia natura scaramantica non ha mai smesso tormentarmi per il “cattivo presagio” di quel rito a cui ero venuto meno. Già, perchè il 2020 è stato un anno davvero strano.

Assillato da mille timori avrei desistito anche quest’anno se non si fossero mossi con decisione mio fratello e Simone: “Solo noi, siamo tutti congiunti e siamo il gruppo della prima volta”. Non potevo tirarmi indietro: “Okay, ma senza luci: la notte deve passare senza vederci”. Così, per rispettare il coprifuoco delle 22, siamo partiti più presto del solito. Alle 17:40 eravamo già in cima, la neve non aveva dato grandi problemi ed eravamo saliti con rapidità, quasi con “urgenza”. Lo spettacolo era insolito ed a tratti disorientante: le strade di Lecco erano affollate dalle luci della auto in colonna per lo shopping prima del lockdown, le montagne erano invece buie e silenziose. La fiumana umana del Cornizzolo non c’era, nè le luci sospese della Osa. La croce di Megna era buia, così il Barro, il Palanzone, il SanPrimo. In quel momento, per un istante, non ho più avuto paura ma solo rabbia: avrei voluto avere con me fari immensi per urlare alla notte che passerà, passerà senza spegnere le nostre luci. Ma una pioggerellina soffiava da Nord mentre noi tre, soli, riempivamo i bicchieri di carta in cui bere il the evitando il collo della bottiglia. Un brindisi senza abbracci, neppure tra fratelli. No, non servono fari: la notte passerà solo se avremo pazienza, prudenza e disciplina, passerà solo se useremo la notte stessa per proteggerci dai mostri che nasconde. Dobbiamo restare in silenzio, vigili ed invisibili. Forse, attendendo l’alba, anche noi dovremmo diventare mostri. Perchè è una mostruosità allontanare chi ci è caro, negarsi a coloro a cui si è legati dall’affetto. Perchè è una mostruosità trovarsi lassù, soli noi tre, senza gli altri che sono sempre stati con noi. Ma l’alba arriverà e torneremo uomini, torneremo liberi, torneremo ad abbracciarci. Questa notte non passerà mentre sono malato in un letto: questa notte spezziamo il cerchio e diamo luce ad un nuovo ciclo.

Questa notte siamo tenebra, tenebra in difesa della luce.

Buon Natale a tutti voi!

Davide “Birillo” Valsecchi


2019

2018

2017

2016

2015

2014

I Rifugi dei Corni di Canzo

I Rifugi dei Corni di Canzo

Nel lontano Maggio 1960 i Volontari di Valmadrera diedero inizio alla costruzione dell’attuale Rifugio S.E.V. a Pianezzo. Costruirono una teleferica di circa 300 metri, i cui basamenti sono ancora visibili sotto la Parete Fasana, con cui si trasportavano i sassi di calcare perchè fossero frantumati producendo la sabbia, un montacarichi e un acquedotto per portare l’acqua al cantiere dalla sorgente del Ceppo della Bella Donna. Dopo quattro anni, la Domenica del 13 settembre 1964, il rifugio fu finalmente inaugurato. Maggiori informazioni sull’attuale – e beneamato – Rifugio sono disponibili sul sito della SEVhttps://rifugiosev.it/

Tuttavia prima di quella data altre due costruzioni avevano ricoperto il ruolo di “Rifugio” ai Corni di Canzo. In rete è apparsa qualche settimana fa – pubblicata da Davide Fadigatti‎ – una bella foto d’epoca di una di queste strutture: un’immagine davvero sorprendente! Nel riproporvela qui aggiungo anche un estratto della Guida alle Prealpi Lombarde realizzata da Silvio Saglio nel 1957 per il Touring Club Italiano e per il CAI Milano. In questa pubblicazione, infatti, vengono infatti menzionati i due antichi rifugi, oggi baite private.

RIFUGIO DEI CORNI o DI PIANEZZO e RIFUGIO POLALBA Il Rifugio dei Corni o di Pianezzo sorge a m. 1225 sul versante settentrionale dei Corni di Canzo, in bellissima posizione dalla quale si domina gran parte del L. di Lecco e dei monti che lo rinserrano,  È una baita trasformata in rifugio; di proprietà privata, con 8 letti e 3 cuccette, acqua di sorgente, aperto dai primi di maggio a fine settembre con spaccio di bevande e di alcuni generi alimentari. Il Rifugio Polalba è situato a m. 900 sul versante della Valbrona, in una conca circondata dai castani, dai faggi e dai larici; dispone di 8-10 posti letto, ed è aperto tutti i giorni nei mesi estivi e al sabato e domenica negli altri periodi dell’anno.

NDR: Nella guida del Saglio non vi erano molte fotografie, la maggior parte delle illustrazioni erano disegni a mano.

ACCESSI:

DA CANZO m 887 si attraversa l’abitato in direzione NE, quindi si scavalca il Torrente Ravella e ci si porta alle Fontane di Gaium m 481 (ore 0.15; osterie). Risalento il torrente, si lascia a destra la strada per San Miro al Monte e si prosegue a sinistra per la comoda carreggiata, che s’innalza selciata e con larghe curve (accorciatoie) nel rado bosco, verso una specie di sella, al di là della quale si raggiunge la prima Alpe Grasso m 725 (pittorescamente inquadrata dai Corni di Canzo) e  l’Alpe Bertalli m 779 (ore 0.45-1), raggruppamento di case, abitate tutto l’anno. Si abbandona allora la carreggiata e, prestando attenzione alle segnalazioni, ci si alza, per un costolone e per il fondo di un valloncello, verso l’estremità pianeggiante del crestone occidentale dei Corni, detto Piano di Candalino m 1067 (ore 0.45-1.45) e ci si affaccia all’azzurro bacino del Lago di Lecco e alla verdeggiante Valbrona. Si prosegue lungo la dorsale, lasciando a sinistra il sentiero che conduce all’ Alpe di Pianezzo e si marcia per sentiero pianeggiante in direzione del Rifugio dei Corni o di Pianezzo m 1225 (ore 0.15-2).

DA VALMADRERA m 237 si prende la strada che si stacca a NO dalla piazza principale e sale a Gianvacca. Di qui si prosegue in direzione di Mondònico; al primo bivio si svolta a destra e, per un viottolo sostenuto da un muro a secco, si contorna un poggio e si riesce sulla sassosa traccia che rimonta la Valle della Boa tra la boscaglia fino ad una spianata (1 ora). Dai ruderi di un cascinale si continua lungo il fondovalle, sì sorpassa una presa d’acqua e, giunti sotto alcuni roccioni, ci si sposta lungo il ripido fianco occidentale per un faticoso sentiero che s’inerpica verso un pianoro, in cui sfociano ampie colate di detriti. Si evitano questi sfasciumi per la traccia segnalata che volge a destra, si passa ai piedi del roccione strapiombante detto Tetto della Porta (che può offrire un buon riparo in caso d’intemperie) e, piegando ancora a destra tra blocchi calcarei, si risale la parte superiore di una valletta, dominata a sinistra (E) dalla parete del Corno di Canzo orientale, onde giungere, fra cespugli sempre più radi, alla Bocchetta di Sambrosera m 1125 c. (ore 1.30-2.30) che separa la massa del Moregallo dal Corno di Canzo orientale, mettendo in comunicazione diretta la Valle della Boa con la Valle delle Moréggie, che sbocca nel Lecco di Lecco di fronte alla Punta dell’Abbadia. Sul valico, non nominato dalla tav. 32 I SE (Lecco), ma indicato dalla pietra di confine dei comuni di Mandello (M) e Valmadrera (V), si trovano alcuni massi erratici di granito ghiandone, che dimostrano l’enorme sviluppo dello scomparso ghiacciaio abduano, il quale invadeva nell’era quaternaria tutto il bacino del Lago di Como, lasciando emergere nel mezzo solo la vetta del Monte San Primo e, come scogli, i Corni di Canzo.  Dal valico si pianeggia attorno alla testata cespugliosa della Valle delle Moréggie, quindi si sale a un’ampia sella erbosa e, scavalcata l’arrotondata propaggine del Corno di Canzo centrale, si arriva al Rifugio dei Corni o di Pianezzo m 1225 c. (ore 0,45-3.15).

DALL’IMBOCCO OCCIDENTALE DELLA GALLERIA DEL MELGON  (lungo la carrozzabile Malgrate-Onno, quasi a metà strada fra queste due località), si rintraccia, al disopra della scarpata, un piccolo sentiero che s’inerpica lungo quel costolone che fa da sponda orientale alla Valle delle Moréggie. Si segue questo sentiero nel bosco ceduo, trascurando le diramazioni di sinistra, poi si scavalca la testata di un valloncello secondario e ci si mette nel solco principale, allo scopo di innalzarsi a mezza costa, con ampio giro, assecondando gli anfratti del Moregallo, fino alla testata del vallone (ore 2.30), dove passa l’itinerario precedente che conduce al Rifugio dei Corni o di Pianezzo m 1225 c. (ore 0.45- 3.15).

DA CANDALINO m 545 (frazione di Valbrona) si risale per mulattiera la Valle Griarolo fino all’ Alpe Oneda m. 720, dove si prende quel sentiero che si svolge lungo la boscosa dorsale che il Corno di Canzo centrale spinge verso il Sasso della Cassina e il Lago di Lecco; oppure si prende la mulattattiera che attraversa la Valle del Gagetto e, passato il Rifugio Polalba, si continua in direzione dell’Alpe di Pianezzo m 1197, al disopra della quale s’incontra l’itinerario 193, che viene da Canzo e conduce al Rifugio dei Corni o di Pianezzo m 1225 c. (ore 2).

Rifugio SEV – 1964

Nota: le fotografie sono state pubblicate da ‎Davide Fadigatti‎ sulla pagina Facebook “Sei di Valmadrera se”.

Eroe Scarso

Eroe Scarso

Non riesco a vedere da dove vieni ma so da cosa stai scappando. E ciò che conta, piccola, non è chi sia il più cattivo ma chi ti impedisce di cadere dalla tua scala. Quando ti amo come piace a te, provo quello che provi tu ora: faccio ciò che faccio solo per compiacere la tua folla. E soffro, ma non smetterò, perché questo non è un posto per un eroe, questo non è un posto per un uomo migliore, questo non è un posto che un eroe possa chiamare casa.

Ogni volta che chiudo gli occhi, ti penso dentro. Penso a tua madre, che ha rinunciato a chiedersi perchè: perché menti, e tradisci e provi ad ingannarla. Non riesco a vedere da dove vieni ma so da cosa stai scappando. E ciò che conta, piccola, non è chi sia il più cattivo ma chi ti impedisce di cadere dalla tua scala. Perchè questo non è un posto per un eroe, questo non è un posto per un uomo migliore, questo non è un posto che un eroe possa chiamare casa.

Testo e musica: Short Change Hero – The Heavy
Wikiloc: eroe scarso


Onda Immobile

Onda Immobile

«La Cassin non sbuca in vetta, ma esce sulla destra seguendo una cengetta, prima della quale ci si slega. Parto io, mi segue Diego, chiude il Beppe. Subito sento un rumore sordo, una botta attutita. Mi giro: siamo in due, il Beppe non c’é. Scendiamo a rompicollo. Dico a Diego di andare da Zaccheo per dare l’allarme mentre io perlustro il ghiaione al piede della Medale. Lo trovo quasi subito. Giuseppe Verderio, classe 1944, da allora riposa nel cimitero di Vimercate.» Dicono che l’alpinismo sia “la conquista dell’inutile”, io con il tempo avevo iniziato a credere fosse un modo garbato di dire “inutile conquista”. Per quasi un decennio ho ritenuto che l’arrampicata fosse qualcosa di futile e pretestuoso: “Perchè passare dove la roccia è verticale quando puoi andare in cima passando dai prati dell’altra parte?”. L’uomo aveva raggiunto la Luna, conquistato tutti gli ottomila: c’era stato un “compressore”, poi le bombole d’ossigeno, poi elicotteri ed i trapani a batteria. L’alpinismo e l’arrampicata erano morti e sepolti, trasformati in una caricatura buona giusto per le “reclam” degli orologi senza limiti o dell’acqua gasata in bottiglia di plastica. Non era qualcosa che meritasse più la mia attenzione. Poi mia madre morì ed ogni mia certezza vacillò di colpo: dopo due furiosi anni spesi in giro per il modo, mi ritrovai ancora inquieto e senza scopo sotto le grandi pareti dei Corni, davanti alla grande Onda del Corno Orientale. Tra i tre (a volte quattro) è quello più basso, quello la cui cima si raggiunge “in piano”, quello che nasconde la propria grandezza tra le ombre. Là, su quella roccia verticale, mi raccontavano ci fosse una via dedicata a mio nonno, che morì tra la braccia di mia madre adolescente, in un giorno d’inverno, mentre camminavano insieme tra la neve in montagna. Non arrampicavo più da oltre dieci anni, da quando ero tornato dal Pakistan: la mia era un’idea senza senso, ma avrei provato a riempire il vuoto e placare la rabbia salendo quelle pareti dimenticate da tutti. Fu così che scoprii la storia di Giuseppe e Giancarlo. “Le leggi che governano le formiche governano anche le stelle”. La gravità è una di queste leggi: una forza capace di muovere i pianeti, catturare la luce, distorcere il tempo. Nella buia solitudine del Corno Orientale la gravità si allea con la parte più buia del proprio spirito, quell’infinita tristezza che senza sosta cerca di trascinarci verso il basso. Lassù, tra quella roccia che sembra un mare agitato, la gravità ci spinge al limite, stravolge le percezioni, tanto dello spazio quanto del tempo. All’improvviso, sotto la Grande Onda, il mondo verticale appare orizzontale, guardare in alto significa semplicemente guardare in avanti. Sotto la Grande Onda ogni certezza si affievolisce fino a scomparire: “In fisica con il termine onda si indica una perturbazione che nasce da una sorgente e si propaga nel tempo e nello spazio, trasportando energia o quantità di moto senza comportare un associato spostamento della materia”. La sorgente di quell’onda immobile si trova dentro di noi? Lassù la gravità ti trascina da dietro verso il basso mentre davanti a te la Grande Onda sembra precipitarti addosso: quando finalmente raggiungi la vetta, dopo interminabili ed incerte ore appeso, hai il “mal di terra”, ti sdrai sul prato cercando di riallineare le tue percezioni ed il tuo equilibrio prima di ricominciare finalmente a camminare come un essere umano. Disteso finalmente ti abbandoni esausto alla gravità lasciando che ora sia l’intera grande parete a sostenerti, a darti equilibrio. Per un istante sei finalmente senza peso: la gravità e la grande onda ti hanno travolto, colpito e saggiato. Con la loro forza hanno trascinato verso il basso tutto ciò che non era più parte di te. Dolore, rimpianti e tristezza sono precipitati nel vuoto, per un istante sei nuovamente libero ed accanto a te, in quel mondo nuovo, ti sono di ancora vicine le persone che hai portato con te, oltre la gravità, oltre la grande Onda. «Scarpe? Roccia? Finché si ha bisogno di scarpe e di roccia per salire, non si conosce nulla di quest’arte. Il vero arrampicatore non ha bisogno di artifici, nemmeno di roccia». Se Giancarlo non avesse raccontato la sua storia, sua e di Giuseppe, forse oggi, come molti altri, sarei ingenuamente convinto che l’arrampicata abbia solo lo scopo di salire sulla roccia. Sotto la grande Onda si compiono grandi “viaggi”, tra questi la Verderio resterà probabilmente uno dei viaggi più leggendari, probabilmente irripetuto ed irripetibile, nella tradizione dell’Isola Senza Nome. Grazie.

«Ha ripreso a nevischiare. Foto ricordo. Siamo soli. La via dedicata alla memoria di Giuseppe Verderio adesso è davvero finita. E’ il nostro ultimo legame terrestre. Il nostro piccolo monumento.»

Davide “Birillo” Valsecchi

50° Via G.Verderio –  ARRAMPICARE AI CORNI: TUTTE LE PUNTATE

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