La scorsa settimana avevamo salito la via Fasana, una via storica e difficile che tuttavia mi ero goduto alla grande nonostante la fatica e la tensione. Forse anche per questo ora difettavo di determinazione, non ero coinvolto e motivato come avrei dovuto essere. Forse più semplicemente la via, questa volta in gran parte in placca, era al limite delle mie capacità e per questo ho iniziato a subirla fin dal primo tiro. Forse, invece, il mio sesto senso aveva intuito qualcosa o forse ero proprio io a gufarmela. Non lo sapremo mai.
Mattia ed io, come di consueto, abbiamo fatto rendezvous al Rifugio SEV verso le due. Il piano era attaccare la via CRi oppure, se il tempo fosse stato cattivo, chiuderci nel rifugio per una birra ed un tagliere di affettato (in fondo dovevamo ancora festeggiare per la Fasana!).
La via Cri, Crisitana e Ruggero insieme, fu aperta Cristiana Del Buono e Ruggero Dell’Oro nel 1978 e risale sul lato sinistro della Parete Fasana: 95 metri di sviluppo verticale su tre lunghezze (che poi si sono rivelate essere quattro) con difficoltà in gradi 6b, 6a+ e 6a+. I gradi vanno poi rapportati alla roccia dei Corni e quindi già sulla carta la via era per me un sonoro calcio in culo.
Qualcuno dice poi che sia la via più ripetuta dei Corni: vista la quantità di erba e roccia che ci è rimasta in mano i Corni sembrano davvero dimenticati da tutti! Rispetto alla Fasana qui ci sono un buon numero di protezioni fisse, questo sebbene molte le abbia trovate io, secondo di cordata, accuratamente nascoste nell’erba!
Come vi ho già detto sentivo di non arrampicare bene, di non avere fiducia nella roccia e questo, vergogna per me, si è tradotto in un sacco di passaggi risolti in artificiale. Al contrario Mattia era bello carico come sempre ed ancora una volta si è dimostrato esponenzialmente più bravo e sicuro di me (comincio a fare fatica a tenere il suo passo anche da secondo!).
I primi tre tiri (che vi racconterò quando avrò anche le foto scattate da Mattia) sono stati superati con relativa scioltezza (da Mattia!) portando la nostra cordata fino alla terza sosta ed all’ultimo tiro. Tutto sommato, nonostante qualche mia imbarazzante soluzione a base di cordini e rinvii, la salita stava andando bene.
Il cielo, che la mattina era abbastanza chiuso, sembrava reggere e a noi mancava solo un ultimo tiro per raggiungere la cresta e percorrere in discesa il sentiero del Corno Centrale. Quando Mattia attacca il tiro finale rimbomba in lontananza un tuono. Oltre la Grigna, oltre il Due Mani, laggiù in fondo all’orizzonte lontane e cupe nuvole fanno la loro minacciosa comparsa. Io e Mattia ci guardiamo: «Magari non passano neppure il lago ma diamoci comunque una smossa».
Mattia affronta e supera il passaggio chiave ed avanza poi sulla spalla di roccia e quindi nello sfasciume prima della sosta. “Bhe, ormai è fatta” penso tra me “ormai siamo fuori”. Mattia recupera le corde, mi mette in tiro ed inizio ad arrampicare mentre altri tuoni, questa volta più vicini, si fanno sentire. Come una scimmia mi attacco ai rinvii e tiro cercando di salire il più in fretta possibile.
Il passaggio chiave, un giro di 6a+, supera salendo sulla destra una fessura aggettante per poi chiudere nuovamente a sinistra da sopra. Avevo quindi una delle due mezze corde, la rossa, rinviata due metri a destra mentre l’altra, la gialla, rinviata sul chiodo successivo quattro metri in verticale sopra di me.
Mi alzo più possibile cercando di capire come affrontare il traverso quando mi si scatena addosso il pandemonio. La pioggia comincia a cadere battente trasformandosi in grandine. Sono ad 80 metri dal suolo e quando guardo in alto la faccia mi si riempie d’acqua. Poi arrivano i tuoni ed il loro inquietante rimbombo nell’anfiteatro della grande parete: ”Porca puttana!”.
Ancor prima che possa rendermene conto sono fradicio ed anche la roccia ormai è completamente bagnata. Cerco “di starci dentro” e con un colpo di culo ed un mezzo magheggio riesco a raggiungere il rinvio di destra. La grandine batte da tutte le parti e la vedo accumularsi nei risvolti e nelle spalline della camicia.
“Reggi Birillo, reggi!” continuo a ripetermi. Devo affrontare il ritorno del traverso sulla sinistra ed alzarmi fino al rinvio successivo. C’è una specie di lama smussata per le mani ma i piedi dovrebbero lavorare in aderenza su una placca ormai fradicia. Respira: devo solo riuscire a fare due passi per raggiungere la verticale oltre la pancia, poi posso anche rimanere appeso, ma quei due passi devo riuscire a farli.
Libero la corda dal rinvio ed attacco. Riesco a fare uno dei due passi, sposto il peso, poi i piedi sulla placca scivolano e pendolo di un metro e mezzo perdendo poi un altro metro in discesa. Il pendolo è senza danno, innocuo per me, ma per la mia progressione è una mezza tragedia: sono di nuovo sotto la fessura aggettante, il rinvio sulla destra è stato tolto e tutto, compreso me, è tremendamente bagnato. “Gesù Cristo” sibilo tra i denti (e posso garantivi non era una bestemmia): non ci sono più solo i tuoni, ora si vedono bene anche i fulmini!
Se fossi passato in dieci minuti (forse) avremmo potuto metterci al riparo mentre invece ero di nuovo al punto di partenza: messo molto peggio! Provo ad attaccare dritto ma non c’è verso di guadagnare i quattro metri che mi servono. In mezzo al casino provo a dare voce a Mattia, gli faccio bloccare una delle due corde e traffico con un prusik nel tentativo di rubare qualche metro. Le corde dinamiche si allungano però come elastici e nonostante tutti i mei sforzi non guadagno niente, perdo solo energia.
Ero quasi fuori dannazione, se avesse iniziato a piovere cinque minuti più tardi sarei stato già in cima, a ridere, ed invece ero inchiodato lì: 80 metri sopra e 10 sotto, zuppo ed infreddolito.
Con le energie comincio a perdere lucidità ed è qualcosa che uno sente e fa davvero paura, forse persino più di quei dannati fulmini che continuavano a cadere. Mi rinvio nuovamente sul chiodo a cui sono bloccato e mi spingo in fuori in modo da poter guardare oltre e vedere Mattia. Fortunatamente lui è in parte riparato sotto un piccolo tetto di roccia ed ha infilato il K-Way. Nonostante il frastuono discutiamo sul da farsi ad urla e gesti.
Una silenziosa parte di me vorrebbe superare quei quattro metri con un paranco (l’amico Poldo) ma sotto quella grandine ed in quelle condizioni sarebbe solo una scelta sciocca e difficile. Lentamente, per non grattare le corde, Mattia mi cala fino alla sosta sottostante. Mi ancoro e, immobile sotto la pioggia, aspetto che Mattia inevitabilmente si cali in doppia.
La pioggia, osservata dall’alto della parete, è uno spettacolo magnifico e terribile: un infinità di stelle cadenti che precipitano nel vuoto. Uno spettacolo magnifico davvero se non avesse iniziato a tremarmi una gamba ed il freddo (e forse anche un po’ di paura) non si stesse facendo strada in me.
Quando Mattia mi raggiunge lo guardo e semplicemente gli chiedo scusa. Lui mi guarda e ride «hehe, da sopra sembrava stessi arrampicando dentro la doccia!». Insieme ridiamo e fradici attrezziamo la lunga doppia da 60 metri. Avevo sempre desiderato fare una calata lungo la parete Fasana ma non mi sarei aspettato fosse una tale ritirata: c’est la vie…
In breve siamo nuovamente a terra, inzuppati ed infreddoliti ma finalmente al sicuro. Raccogliamo le corde, insacchiamo tutto l’equipaggiamento bagnato ed iniziamo a scendere: “Accidenti che battaglia!”. Al bivio ci salutiamo, lui verso Valbrona ed io lungo la dorsale verso Asso. Continua a piovere e ci salutiamo in fretta, ridendo, con una bella stretta di mano: in fondo non è andata poi male, lui è arrivato in cima ed io ricorderò davvero a lungo i dieci metri che mi sono mancati.
Mentre scendevo attraverso il bosco, ormai non più impensierito dal temporale che ancora si agitava sopra la mia testa, mi è tornato alla mente un racconto di Fabrizio. Il mio socio siciliano un annetto fa, alle primissime esperienze con la montagna, andò a comprare calzettoni ed uno zainetto in un negozio sportivo a Milano. La commessa, visto il suo entusiasmo, gli aveva chiesto con fare civettuolo dove intendesse andare con quell’attrezzatura. Lui, con una punta d’orgoglio, aveva risposto fermo: “Corni di Canzo”. La commessa, con fare deluso e smorfioso, pugnalò il mio buon Fabrizio rispondendogli: “I Corni di Canzo? Ma sono una montagna da nulla…”
Beh, piccola stronza dal culo basso, se tu avessi preso i calci in culo che ieri mi hanno assestato i Corni forse capiresti qualcosa in più di questa magnifica “montagna da nulla”!!
Davide Birillo Valsecchi