Mattia ed io avevamo un conto aperto con i Corni di Canzo e la parete Fasana: la via Attilio Piacco. Alcune settimane fa avevano percorso metà della via prima di smarrirne la traccia. Desiderosi di portare a termine quella salita siamo tornati nuovamente tra le onde della Fasana.
L’Attilio Piacco è una via del 1967 aperta da Giorgio Redaelli e Roberto Dotti. Nel 1973 Giorgio Tessari ed Antonio Rusconi tracciarono una variante d’uscita che, a metà del diedro centrale della via, taglia verso sinistra. Nel 1979 Giorgio Tessari, nel volume “Valmadrera, montagne e itinerari alpinistici”, descriveva la via in questo modo: “Via molto bella, con tratti in artificiale; è manchevole di parecchi chiodi e conta una sola ripetizione”. Nel volume “L’isola senza nome” (2005) la via viene descritta come “…via completamente attrezzata ma è comunque utile materiale da incastro e qualche chiodo. Consigliabile”.
Che Tessari sia arrivato al diedro è cosa certa, chiunque abbia scritto “completamente attrezzata e consigliabile” probabilmente da quelle parti non c’è mai stato e per certo oltre il diedro non si è mai spinto: lassù non è rimasto nulla, solo sassi che ballano, e rogne! “L’isola senza nome” è un libro bellissimo ma prendete le relazioni tecniche delle vie con estrema cautela!
Questa è la storia del nostro ultimo assalto alla Fasana:
Attacchiamo a mezzogiorno. Il primo tiro dell’Attilio Piacco è sulla sinistra, risale una spaccatura verticale e prosegue poi per una cengia ora invasa dall’erba. Era stata soprattutto l’erba a darci i maggiori problemi la scorsa volta e per questo rimontimo dal primo tiro della vicina Cris che, sebbene sia un tiro più complicato, corre sempre su roccia buona e pulita. Nel secondo tiro le due vie in parte si sovrappongono: la Cris devia verso sinistra mentre la Piacco risale dritta.
Probabilmente la seconda sosta originale della Piacco era dentro il diedro, tuttavia per raggiungere il diedro dobbiamo risolvere il rebus che ci ha fermato la volta precedente. Raggiungiamo infatti la sosta del primo tiro di una via moderna che abbiamo recentemente scoperto essere la “Cornibus”. Ancora una volta ancorati a questa solida e moderna sosta abbiamo cercato di capire come i primi salitori abbiano superato quel tratto.
La Cornibus rimonta una placca raggiungendo una grossa fessura obliqua e ben appigliata che risale poi fino al diedro. La placca però “butta in fuori” verso sinistra e non permette alcuna protezione né la possibilità di piantare chiodi. Pensare che nel ’67 abbiano rimontato in libera un tratto di 6c+ appare improbabile. L’unica soluzione originale può essere stata solo la fessura a sinistra che, passante sotto una pancia aggettante, rimonta e si ricollega alla fessura obliqua soprastante che ne è la prosecuzione.
L’altra volta Mattia aveva provato a rimontare da quella parte e piazzando tre chiodi aveva superato la pancia che, tuttavia, dista in traverso ancora quasi tre metri dall’unico solitario vecchio chiodo ancora visibile in tutto quel tratto.
Per sicurezza esploriamo anche la cengia erbosa di destra che scende obliqua verso uno spigolo. Anche lì nessun traccia dei vecchi chiodi o segni della vecchia via. Si potrebbe rimontare anche da quella parte ma pare assurdo che la relazioni neppure accenni ad un simile traverso in discesa. No, la via originale passava a sinistra ed è incredibile quante opzioni, difficoltà ed incertezze possano addensarsi in meno di cinque metri quadrati di parete.
“Completamente attrezzata. Consigliabile” recitava la guida: viene da ridere a pensarci. Fermi allo stesso punto morto dell’altra volta abbiamo deciso di fare un tentativo su quel passaggio, per noi durissimo, della Cornibus. Mattia parte, riesce ad alzarsi, si tira dritto ma quando è il momento di scavalcare la pancia della placca non trova nulla che gli possa dare lo spunto per riuscire a rimontare: se cadesse farebbe un pendolo di un metro e mezzo piombandomi addosso sulla sosta o sbattendo sul terrazzino.
Proviamo tutti i trucchi che le nostre corde ci permettono ma sembra non esserci modo di raggiungere lo spit della Cornibus che appare sempre tremendamente lontano. Siamo sul punto di mollare il colpo quando decidiamo di fare un ultimo rocambolesco tentativo. Calo Mattia verso una piccola nicchia erbosa dove, con il coltello, recupera una piccola pianticella che, foglie comprese, sarà poco più di una trentina di centimetri. Mattia, ridendo, infila quest’improbabile “bacchetta” nell’elastico del “frog” e tenta di nuovo il passaggio. In equilibrio precario si allunga quanto più possibile con quell’accrocchio fino a quando il frog “tocca” la piastrina dello spit agganciandosi automaticamente. Appeso al cordino fissato al Frog Mattia mi guarda e ride forte “Fatto!!”. Io davvero non so se essere felice o preoccupato!
Attraversare la fessura si rivela abbastanza agevole e Mattia raggiunge finalmente la base del diedro. La roccia è abbastanza buona, ci sono alcuni chiodi ed è possibile piazzare qualche friend. Finalmente Mattia raggiunge la sosta di quello che è il terzo tiro. Il tiro originale probabilmente partiva dalla prima sosta e si fermava oltre il diedro: una lunghezza tale che oggi forse sarebbe davvero improponibile!
La sosta nel diedro è probabilmente quella della variante Tessari perché sono poi visibili alcuni chiodi che partono verso sinistra. Due spit con delle curiose e vecchie pastrine Cassin come non ne avevo mai viste prima: sottili ed allungate avevano solo un piccolo foro del dieci ed erano collegate tra loro da un vecchio cordino marcio che abbiamo sostituito con una fettuccia sottile.
Fino a questo punto la salita è difficoltosa ma tutto sommato apprezzabile e proteggibile. Sono solo le due del pomeriggio e quindi abbiamo teoricamente abbastanza tempo per affrontare quello che, sulla carta, dovrebbe essere l’ultimo tiro.
Sopra la sosta il diedro termina in un tetto che nella relazione è segnalato come A1 ed è quindi da superare in artificiale. Il problema è che nel passaggio ci sono solo due vecchi chiodi, uno dei due balla ed tutto ritorto. In una fessura è invece curiosamente incastrato di traverso un Nat che ha tutta l’aria di avere preso il volo di qualcuno. Altro in zona non c’è.
Mentre faccio sicura appoggio una mano sulla placca accanto alla sosta. Una scaglia di roccia grande come un vassoio si stacca e tutto quello che posso fare è scodellarla nel vuoto. La guardo precipitare sibilando per sessanta metri prima di schiantarsi in mille schegge nel ghiaione (fa un certo effetto!!). Questa è la roccia con cui, purtroppo, dobbiamo fare ci conti dopo che negli ultimi tre tiri è stata discretamente buona.
Mattia, leggero come non mai, riesce comunque a passare e, superato il tetto, si imbatte nella seconda sosta della via originale: tre chiodi uniti da un canapo. La sosta è un mezzo disastro: due chiodi sono buoni per rinviare mentre uno è decisamente pericolante. Su quella sosta non c’è la possibilità né di recuperare il secondo né di calare il primo: è un vero schifo ed ormai non ci resta che proseguire. “Completamente attrezzata e consigliabile… sto cazzo!!” è il nostro pensiero comune.
Mattia si mette alla ricerca dei chiodi successivi ma trova ben poca roba. Sopra la testa ha una cengia sporgente di rocce malferme e deve spostarsi a sinistra per rimontare un secondo tetto. “Secondo logica appena qui sopra dovrebbe esserci l’uscita o per lo meno una sosta decente. Non possiamo far altro che passare e vedere…”. Questo era il nostro solo piano possibile.
Come ai tempi della Croce rossa iniziamo ad operare “raccontando a voce” ogni gesto cercando di sincronizzarci e rassicurarci il più possibile. Mattia sfrutta tutto il materiale a nostra disposizione, ribatte tutti gli esigui chiodi in loco ed integra con i nostri. Il suono di alcuni chiodi è alquanto sinistro: tutto pare instabile lassù!!
Mattia trova anche la famosa clessidra riportata nelle relazioni: un vecchio cordino marcio la attraversa ma il lato esterno della roccia è tutto scheggiato e sembra che la clessidra sia ormai ben più piccola e fragile di quanto fosse in origine. Sostituiamo il cordino ma non c’è molto da fidarsi…
Mattia finalmente passa il tetto ma, ahinoi, oltre non c’è la tanto sospirata sosta: solo un vecchio e solitario chiodo con un anello. Mattia è ormai fuori dalla mia visuale e mi racconta a voce ciò che ha difronte: mancano ancora una decina di metri e l’unico modo per uscire è superare uno spigolo ed una successiva placca. Forse si potrebbe anche rimontare dritti seguendo un diedro fin sotto il tetto finale ma siamo in un deserto: non c’è più neppure un chiodo, nulla di nulla!
Noi abbiamo finito tutti i rinvii, le fettucce ed i friend. Mattia ha orami solo quattro chiodi all’imbrago ed il vero ed enorme problema è che le corde, dopo i due tetti e lo spigolo, hanno smesso di scorrere: dalla mia parte sono lasche mentre Mattia è costretto ad afferrarle e tirarle a sé ad ogni passo. Abbiamo speso quasi tre ore e mezza in quel tiro e siamo davvero nei guai.
Se ci fosse stata una sosta lassù Mattia avrebbe potuto farmi sicura ed io, salendo, avrei recuperato tutto il materiale per affrontare gli ultimi dieci metri e l’uscita. Invece eravamo nei casini: Mattia per via delle corde bloccate non poteva proseguire e per la natura precaria degli ancoraggi non poteva scendere. Completamente attrezzata e consigliabile: bella cazzata! A saperlo in tre ore e mezzo avremmo rispittato tutto lo stramaledetto tiro!
Resta solo una cosa da fare ma è piuttosto estrema. Mattia pianta tre chiodi nella cengia in cui si trova e si slega lasciando che io recuperi, una alla volta, le due corde. Non è preoccupato ( o quanto meno non lo mostra) ma ora è lassù, da solo sulla parete senza più alcuna corda. Tocca a me ora: inizio a “raccontargli” a voce alta tutto quello che faccio. Recupero le due corde, le lego ed attrezzo la doppia. Lascio la fettuccia, lascio il moschettone a pera e tutti i cordini di rinforzo. “Mattia, inizio a scendere!” gli urlo. “Okkey, prendi le frontali dagli zaini prima di risalire” mi risponde “Faccio in fretta, tieni duro!” “Bhe… sono nelle tue mani adesso…” Lo dice ridendo ma è la stramaledetta verità.
Scendo morbido ma veloce per i sessanta metri che mi dividono dal suolo. “Sono a terra!” “Okkey, anche le corde sono a terra!” Raggiungo gli zaini, infilo le due corde nel mio, recupero le frontali, gli scarponi e tutto il materiale che non ci siamo portati in parete. “Mattia, guarda che vado! Aspettami!” (dove diavolo potrebbe andare?!).
Lo zaino pesa una tonnellata ma ho le ali al culo. Mentre risalgo le catene del versante sud devo impormi di rallentare: non devo cadere, non devo inciampare! Raggiungo il grande prato ed inizio a sporgermi qua e là oltre la cresta per cercare Mattia. Poi finalmente lo vedo e lui vede me!
Per stemperare la situazione gli faccio una foto ed iniziamo di nuovo a scherzare. Raggiungo il punto esatto della cresta sopra di lui e gli calo un capo della corda a cui si assicura. Il prato è inclinato, potrei sfruttare la cresta e fare da contrappeso facendogli sicura a spalla ma comincio ad averne abbastanza della “moda vecchia” per oggi. Ci sono dei fittoni usati in inverno per calarsi sul prato ma, lavorando tutti nel senso opposto, mi sono pressoché inutili.
Dieci metri più in basso c’è una piccola pianta con un tronco abbastanza robusto. La fascio con cordino e rinvio con un moschettone ed un barcagliolo la corda che va verso Mattia. All’altro capo mi lego io e risalgo il prato. Ho steso tutti i 60 metri della mezza: Io e Mattia siamo ora entrambi legati alla pianta, infilo un altro moschettone nell’imbrago e fisso la corda di mattia con un mezzo barcaiolo. Una pianta ed il mio contrappeso: questo è il massimo a nostra disposizione.
Quando finalmente Mattia riemerge dalla cresta ricominciamo a ridere e ci lasciamo cadere entrambi sull’erba del prato. Finalmente, dopo sette ore tra le onde della Fasana, siamo fuori! Il panorama tutto intorno a noi non è mai stato tanto bello!
Tiriamo fiato, mangiamo qualcosa ed iniziamo a scendere. Salvo le corde tutto il nostro materiale è ancora appeso a modi souvenir in parete: “Domani mattina torniamo quassù, ci portiamo quello che serve e ci riprendiamo ciò che è nostro!”
Il giorno successivo siamo di nuovo in marcia verso i Corni, nello zaino 60 metri di statica, equipaggiamento spelo, fix, piastrine e trapano. Oggi non intendiamo andarci leggeri: dopo tanto affetto ed impegno profuso per quella parete è ora di mostrarle di cosa siamo capaci quando ci arrabbiamo!
Nel caldo sole del mattino abbiamo attrezzato una solida sosta con una catena e, dopo quattro frazionamenti, Mattia ha raggiunto la terza sosta iniziando a recuperare tutto il nostro equipaggiamento. Risalendo sulla corda, con maniglie e crol, Mattia ha cercato tracce della via ma con scarsissimo successo: in quel tratto di roccia instabile sembra non essere rimasto più nulla.
A testimonianza della nostra avventura sulla Piacco abbiamo lasciato un nastro colorato nel punto in cui la roccia diventa davvero pericolosa ed cedevole. Abbiamo disarmato rimuovendo le piastrine ma i fix, qualora a qualcuno servissero, sono ancora dentro.
Se volete affrontare l’Attilio Piacco fatelo a testa bassa e denti stretti, portatevi un pianta spit ed aspettatevi di tutto da quella parete. Fino al terzo tiro è abbastanza fattibile se siete consapevoli quello che vi aspetta, spingersi oltre significa addentrarsi nei meandri più oscuri ed incerti dell’alpinismo esplorativo ai Corni di Canzo.
Dopo aver ripetuto in una stagione la via Fasana, la Cris e l’Attilio Piacco abbiamo deciso che il nostro ciclo sulla grande parete Fasana si è concluso: speriamo che la nostra esperienza possa essere d’aiuto e di ispirazione a chi verrà dopo di noi. In bocca al lupo!
Davide “Birillo” Valsecchi