A.B. Normal

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dscf6946“I’d sail across the ocean, I’d walk a hundred miles, If I could make it to the end, Oh just to see a smile” Gli Iron Maiden urlano nelle casse della mia sveglia che l’infanzia è finita (Childhood’s End). Il piede di Bruna comincia finalmente a sistemarsi e lei si è svegliata prima delle sette per allenarsi in salotto. Mentre si accanisce con gli addominali io mi presento in pantofole, con una tazza di caffè e l’aria smarrita di Vincent Vega: mi sono appena svegliato e sono stanco solo a guardarla!

Quando esce per andare al lavoro anche io imbraccio il mio zainetto: “Bene Birillo, andiamo a farci un giretto”. Sono rimasto chiuso in casa per via dell’influenza e del mal di schiena, ora ho solo voglia di sfogarmi, di immergermi nel mondo e concedermi un avventura. Senza un piano ben preciso mi ritrovo in via Stelvio a Lecco, all’attacco del sentiero dei Pizzetti. Risalgo rapidamente la serpentina che rimonta la prima rampa e devio sulla punta del Pilastro Pensa per dare un occhiata alla grande ed imponente parete del San Martino.

“Secondo me di là si passa…” Accanto alla croce osservo le balze rocciose che sopra la parete rimontano fino alla cresta attraverso cenge e boschi “Io dico che un modo per passar su dritto forse lo trovo…” Non dovrei, ma la fantasia corre ormai da sola ed ogni mio vano proposito di raggiungere il sentiero del GER sfuma miseramente. Appena faccio un passo fuori dal sentiero mi imbatto in un camoscio che, sotto di me, mi guarda stupito dal basso: “In fondo un camoscio è un Tasso con le corna…”  

dscf6931Inseguendo le tracce degli animali rimonto un primo salto: la roccia è abrasiva e densa di lame ed appigli marcati. L’inizio è incoraggiante. Piego verso destra rimontando un secondo salto, ma questa volta sono grossi massi incastrati sporchi di terra e pieni di rovi. Con cautela guadagno una bella cengia erbosa e quello che trovo davanti quasi mi fa scordare i trecento metri di vuoto che incombono lì vicino.

Un diedro aggettante strapiombante rimonta in diagonale per sette o otto metri, il cuore del diedro è una fessura concrezionata di una bellezza straordinaria. Una piccola pianta nel primo quarto ed un’enorme clessidra nel centro, poi fessure e concrezioni prima del piccolo tetto d’uscita. Sono rapito dal quell’incontro: “Gli arrampicatori inseguono le difficoltà con il trapano senza rendersi conto della bellezza incontaminata che dona la natura, il solo grado che davvero abbia importanza”.

Scatto qualche foto mentre vengo assalito dai dubbi: “E se poi qualcuno viene e la spitta prima che tu possa salirla?”  Per un’istante penso al Burka, all’idea di nascondere la bellezza per proteggerla dalla barbaria e dalla brama degli uomini. Ma penso anche al medio-evo culturale che questa precauzione, forse in buona fede, finisce per generare. No, la bellezza è fuggevole per propria natura, non c’è modo di salvarla da chi non è disposto a comprenderla: forse l’unica cosa saggia è condividerla, conservarne il ricordo in modo che non vada sprecata.

dscf6952Una piccola cengia si sfila sotto la parete e mi permette di passare oltre raggiungendo la cresta. “Solitaria Esplorativa”. Rido affettuosamente pensando alle parole di Ivan ed al suo “gioco arrampicata”. Forse poche altre espressioni sono state tante fraintese: io di certo non ho il suo livello o la sua esperienza, ma in questo “gioco” la “posta” resta uguale per tutti.

La roccia è bella ed invitante, una fessura offre una strepitosa dulfer fino a delle grandi lame traverse che attraversano una placca pulita e ruvida. Speranzoso mi alzo di tre o quattro metri, la placca sembra abbattersi in una serie di onde ma anche le lame e gli appigli vivi sembrano sparire. Mi alzo quanto posso ma prima di entrare in appoggio sulla placca mi fermo. Per raggiungere i grossi massi sopra la placca devo fare un paio di movimenti in aderenza prima di allungare le mani oltre il culmine per uscirne. “Birillo, se non trovi niente per uscire la fai a pelle d’orso la discesa?” Alla base della placca una bella clessidra mi sorride ma io non ho fettuccia, corda o compagno con cui farne buon uso. Provo ad aggirare la placca sulla destra ma trovo solo blocchi e terra. A malincuore disarrampico con attenzione i quattro metri consolato solo dalle parole di Giancarlo Bolis “Mica è stupido, se non riesce a passare scende e prova da un’altra parte!”. Una fessura verticale sulla sinistra  sembra offrire un’alternativa ma all’uscita mi attendono ancora le incognite della placca.

“Forse se non avessi le scarpe da trekking…” Ma in certi casi un “se” equivale ad un “no”. Mi abbasso nuovamente cercando ancora più a sinistra dove la cresta è più esposta ma sembra più lavorata. “Forse si passa” mi alzo sfruttando una bella lama e mi imbatto in qualcosa di strano: un accrocchio di tubi di plastica bianca un tempo tenuti insieme da nastro adesivo nero. Ci sono pezzi di tubo da tutte la parti e tutto fa pensare che l’accrocchio sia venuto a basso dall’alto. “Chissà che diavolo era?!”.

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Ancora una volta mi scontro con un passaggio in placca viva verso sinistra. Ho una buona presa per la destra e la tentazione di rimontare è forte quanto il rischio. “No Birillo! Usa la testa!”. Così desisto e sulla destra mi infilo in spaccata tra enormi blocchi incastrati dall’aria poco rassicurante: “Basta non toccarli…” Mi sfilo verso un diedrino appoggiato pieno di terra ma munito di una piacevole pianticella.

Quella che doveva essere una gitarella distensiva è ora una salita vera e propria nell’ignoto. Da dentro un canale guadagno nuovamente la cresta da dove cerco di orientarmi e decidere la mia rotta. Posso continuare a seguire la crestina oppure ridiscendere nel canale e attraversare in obliquo verso la cresta principale del San Martino: “Non infilarti in un cul de sac, tieniti aperte più soluzioni!” Devo fare attenzione, restare concentrato: ormai sono troppo solo e troppo in alto per fare errori.

Seguo la crestina cercando di rimanere nel lato più protetto verso il canale: con calma e pazienza traccio la mia linea e finalmente arrivo in un boschetto d’uscita da dove ormai riesco a vedere i pali gialli della teleferica. “Dai che ci siamo!!”. Poi l’inaspettato: un ometto di sassi!

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Lo osservo con meraviglia. Sto esplorando: forse dovrei essere contrariato che qualcuno abbia impilato dei sassi per testimoniare il proprio passaggio sminuendo il mio? Forse sì, forse no, ma c’è qualcosa di atavico negli ometti di pietra, qualcosa che ha la forza di unire il cammino di sconosciuti attraverso una storia comune. Le difficoltà sono finite, non fa differenza, ma sono genuinamente felice di seguire quell’ometto ed incontrare i suoi compagni.

Trovo un sentiero ed una palina: cammino allegro e veloce raggiungendo l’arrivo della teleferica, le casette sopra la chiesetta bianca del San Martino. Non c’ero mai stato e mai avrei pensato di trovarmi davanti persino un campo di bocce con tanto di recinzione ed asse per la battuta!

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Mi godo il panorama mentre la foschia cala sul Crocione: senza visibiltà è ormai inutile proseguire verso il Ger in cerca di foto. Curiosamente mi suona il cellulare ed al telefono è proprio Ivan: “Davidone, dove sei?” Io gli racconto il mio giretto e lui mi descrive una via, la via delle Poiane, che dovrebbe essere vicino a dove sono salito io. Chiacchieriamo un po’, poi mi rimetto in marcia verso il Rifugio Piazza, scendendo lungo la parte alta dei Pizzetti e tornando al punto dove avevo lasciato il sentiero.      

Trovo dei segni ed un numero “10” scritti con della vernice rossa ormai sbiadita. I segni probabilmente indicano verso sinistra l’attacco della via mentre io, senza vederli, ho puntato direttamente a destra rimontando sull’altro lato. Alla fine, studiando lo schizzo della Via delle Poiane, scopro di aver rimontato la cresta destra di quella parete a due gradoni che la via risale direttamente. Per questo salendo non ho trovato chiodi imbattendomi poi negli ometti d’uscita.

In effetti per me è stata una bella fortuna perchè, conoscendomi, trovare un chiodo o i segni di un’altra via avrebbero condizionare pericolosamente tanto le mie scelte quanto la mia concentrazione. Senza niente sono stato libero di andare dove più preferivo e dove più mi sentivo sicuro, libero di tracciare una nuova via, l’ennesima “irripetibile” che è esistita solo nei momenti in cui la percorrevo.

Davide “Birillo” Valsecchi

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