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«A detta degli apritori la via volle essere un invito a raggiungere, per tutti i frequentatori della valle, un felice equilibrio con la natura, libero da qualsiasi desiderio eroico, competitivo e di conquista».

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La Grande Cengia Verde

La Grande Cengia Verde

“What have been seen cannot be unseen”. Quasi tutte le mattine, da quando vivo a Valmadrera, esco di casa e mi incammino verso la mia “Subaro Impreza 2001”, l’auto più vecchia e scassata di tutto il parcheggio. Alzo lo sguardo e butto l’occhio verso le pareti del Coltignone che, sull’altro lato del lago, troneggiano davanti ai miei occhi. Quasi tutte le mattine guardo quella muraglia di roccia e mi chiedo “Ma ‘sta cengia verde?”. Trasversalmente sulla parete vi è un’evidente linea verde che, seguendo un’ancestrale movimento geologico, disegna un cammino di piante attraverso la roccia. “Come si fa a non vedere una cosa simile?”. Chiedo spesso a qualche amico, ma la risposta è quasi sempre la stessa: “Birillo, che senso avrebbe passare di lì?”. Quale è il senso? Dannazione, non la vedi? Perchè è lì stampata, in bella mostra davanti agli occhi. Nella mia mente percorro quella cengia in un tripudio di corde e fettucce che, appese alle piante, tracciano un fotonico traverso degno della Prima Guerra Mondiali. Perchè? Perché è lì…Dannazione! Perchè è lì e non posso fare a meno di vederla! Forse ho la stessa sindrome degli orsi: dicono infatti che i plantigradi siano abituati a seguire pedissequamente invisibili sentieri nella foresta e che per questo, quando si confondono con le strade dell’uomo, finiscano per cacciarsi nei guai in città. Così non mi resta che rimuginare attendendo il giorno, che potrebbe tranquillamente non arrivare mai, in cui andrò lassù a vedere di persona.

Per certo conosco alcune persone che, nei tempi andati, hanno intersecato la cengia risalendo integralmente quelle pareti. Tuttavia non conosco nessuno che l’abbia mia percorsa tutta o almeno in parte. Magari esistesse! Sai quanti problemi mi eviterebbe! Ma niente, nessuna informazione. Una faccenda un po’ sorprendente, soprattutto perché la base della parete in questione pullula ormai di falesie sportive di ogni tipo, ma sembra che nessuno di quei numerosi frequentatori abbia mai alzato lo sguardo oltre la prima lunghezza di corda. Niente, nessuna informazione utile. Ovviamente, quando e se attraverserò la cengia, apparirà una fila di gente pronta ad abbaiare che della cengia c’è già persino la relazione, scritta in geroglifico antico, che la cencia è già percorsa con i Koflak, in solitaria bendata all’indietro senza più le mezze stagioni… Niente di nuovo sotto il sole del Lario.

Che io osservi la cengia dal Moregallo o dall’amaca sul mio terrazzo, sono sempre scarsi i dati che posso ottenere dal Basso, specie nella complessa prospettiva di quei luoghi. Anche dall’Alto è difficile acquisire informazioni, spingersi sul ciglio del bosco a strapiombo sulla parete non aiuta, in nessun senso. A dar man forte alla mancanza di coraggio e fantasia contemporanea può provvedere la tecnologia, a colpi di foto aree rielaborate come proiezioni tridimensionali: “GoogleEarth, da Giavacca alla Patagonia, il mondo in una scatola 3D”.

Ciò che ne emerge è incredibile. Innanzitutto la cengia esiste, ed è molto più marcata di quanto avrei pensato. Inoltre è possibile trovare riferimenti con il Sentiero dei Pizzetti, rilevando che la cengia è molto più “vicina” di quanto potrebbe sembrare. Il canale che scende dal Rifugio piomba direttamente sulla cengia ed è incredibile che nessun “supernacio” con il trapano si sia calato dal sentiero nell’anfiteatro che caratterizza la parte più alta della cengia. Droni e paracadutisti? Niente supereroi moderni per la misteriosa cengia? Dovrò mica andarci davvero io?

O forse mi sbaglio, e quella cengia misteriosa è in realtà nota e stranota ed indegna di interesse alpinistico in quanto “inutile ravanata priva di grado ed estetica”. Anche in questo caso non sarebbe niente di nuovo sotto il sole del Lario. Vediamo un po’ cosa abbocca…

Davide “Birillo” Valsecchi

E chiudiamo con un po’ di punk-rock perchè, fanculo, il punk-rock è lì che aspetta… come la cengia!

La Temibile

La Temibile

[Giuseppe.D.] Partiamo da lontano: nel 2009 ho fatto la mia prima escursione, ai Pizzetti, non avendo mai sentito parlare prima di “escursioni”. Fino ad allora, io avrei detto “andare in montagna”, che per me in pratica significava prendere la bici e farsi un giro di un centinaio di km: Penice, valle Imagna, Campo dei fiori, Sestriere, a seconda di dove abitavo..

Da bambino avevo fatto qualche passeggiata sul Vesuvio, e questa era l’idea più vicina al trekking che mi ero fatto: “vai un po’ dove te pare…”. Quando poi mi sono trovato su un sentiero con bolli e cartelli, mi è sembrata una cosa strana. Un po’ alla volta ho cercato di re-interpretare tutti questi segni e di intenderli solo come dei consigli, ma anche così, mancava qualcosa di fondamentale, che Messner chiamerebbe “la libertà di andare dove voglio”.

Come diceva un tale:«Ci sono dei luoghi, credo ce ne siano diversi, che non appartengono proprio del tutto alla geografia fisica; sono dentro la carta geografica ma la topografia dice molto poco di loro. Sono i luoghi dell’ “altrove”, e i chilometri non rendono giustizia della loro distanza: sono molto più lontani della strada che bisogna fare per arrivarci. Appartengono appunto ad un altrove, e quando ci arrivi percepisci tattilmente la loro singolarità: devi adattare il tuo sguardo, la tua mente, le tue attese non semplicemente ad un paesaggio inatteso, ma a un’inattesa realtà. Ci arrivi per caso, o ci arrivi perchè quel luogo ti chiama, assai raramente perchè lo trovi su una guida turistica.» O un altro tale un po’ più conciso: «C’è ancora terreno d’avventura..». E potremmo citarne tanti altri… Perché altrimenti dovrebbe venirci in mente di andare in questi posti?

Ho visto “la temibile” pochi mesi dopo i Pizzetti, cercando una spiaggia dove nuotare lungo il lago: un posto spettacolare. Ma chi se ne intendeva mi aveva detto: “mica si può salire da lì!..”.

Poi è venuto il 50° OSA, poi il lungo periodo della valle Moregge …e poi, una cartina Kompass su cui trovo la traccia che cercavo. A ottobre 2013 ci proviamo un paio di volte, l’ultima anche da solo: le tracce degli animali in realtà sono tante, e fanno tutte paura: si arriva intorno ai 700m ma poi non si capisce dove andare. Si potrebbe salire a caso, ma senza segni “umani” e senza nessuna sicurezza di uscirne in alto, mi sembra troppo difficile…

Passa un altro anno, prima di conoscere “ItinerAlp”, un marziano che fa tranquillamente Manduino e pizzo di Prata in un fine settimana, ed organizziamo un altro tentativo: per lui è solo una variante di un giro già fatto, e con il suo aiuto salgo “facilmente”. Il Moregallo però per me rimane misterioso: ci ho capito ben poco, e tutto quello che ho visto sul lato Est rimane ancora frammentario. Faccio altre esplorazioni dall’alto, arrivo da Preguda alla casetta di “Argo”, da “Argo” scendo alla scalinata della temibile, da “Passo400” a “Preguda”, da “Argo” in traverso verso Nord… ma ogni volta la domanda è “dove diavolo sono??!”

Poi passa il tempo e un po’ alla volta non me la sento più di rifare tutto il giro partendo dal lago; fin quando Davide non arriva lì con il suo omonimo: allora decidiamo di sentirci per la prossima volta… 4 anni e 4 giorni dopo il primo tentativo!

Giuseppe.D.

Moregallo: Via Buontempo

Moregallo: Via Buontempo

“The climb is going where no man has gone before” Questa frase, pronunciata dal leggendario Capitano Kirk interpretato dallo storico William Shatner, mi ronzava nella testa sotto forma di un buffo video musicale. “Andare là dove nessun uomo è mai stato prima”: questo era il motto di StarTrek, una scheggia d’infanzia davanti alla televisione aspettando l’ora di cena. Forse anche per questo il Moregallo, con i suoi grandi spazi ancora sconosciuti, è per me la grande frontiera, il confine oltre cui spingersi.

Da anni, con una birra in mano al Rapanui, sognavo ad occhi aperti osservando la grande parete Nord e il suo “zoccolo” verde: una muraglia verticale di roccia infida ed erba, un dedalo, un rebus da risolvere. Solo la via “Gioventù 77” si era avvicinata zoccolo rimontando però sullo spigolo della parete Nord. Io invece volevo arrivare lassù, sopra lo zoccolo dove si innalza la seconda grande parete Nord, dove la montagna sembra prendere respiro arrestando il proprio impeto in un piccolo pianoro verde.

Quella roccia fragile, spazzata dall’acqua ed immersa nella vegetazione, aveva tenuto lontano tutti, anche i “grandi” che hanno conquistato la Nord. Serviva scaltrezza e metodo per fare ciò che nessuno ha mai (ragionevolmente) fatto. Per questo la mia mente vagava in quel mondo verticale che ho catturato in mille foto, in mille diverse inquadrature.

Il grande zoccolo è attraversato da due evidenti canali che lo attraversano in obliquo raccogliendo l’acqua che precipita dall’alto. Il primo, quello più basso, scende quasi tutta la lunghezza dello zoccolo. Il secondo, il più alto, lo attraversa più di taglio, quasi nascosto osservandolo dalla base, e precipita verticale in un salto ciclopico quando tocca i margini della grande parete Nord. Bal basso quel canale sembrava irraggiungibile, protetto da un’invincibile cascata strapiombante al cui centro una nera cavità osserva minacciosa, il grande occhio.

Ma io sono un pessimo arrampicatore e questo ha reso la mia mente allenata alle soluzioni alternative. Spingendomi alla base del grande canale avevo scoperto il “Trucco” con cui tentare di ingannare il gigante. Alla base della cascata una rampa erbosa si innalza su uno sperone di roccia, qui una spaccatura, una piccola e bassa grotta taglia la parete raggiungendo la rampa erbosa che obliqua risale fino alla sommità della cascata. Una mossa a cavatappi dal sapore speleo per raggiungere il grande canale. Ero già stato in quel punto, avevo tentato il passo verso la rampa in solitaria ma mi ero arreso davanti all’evidenza. Quello è un viaggio senza ritorno, superata la grotta si può solo uscire seicento metri più in alto, quando finisce la montagna: niente che potessi affrontare da solo.

I sogni sembravano coprirsi di polvere finché Mattia non se ne esce con una cosa delle sue  “Facciamo la via dei Panda?”, un’altra storica ed irripetuta via del Moregallo oltre “il grande buio” nel cuore della Nord. “Naaa… se dobbiamo metterci nei guai scegliamo noi la nostra strada, andiamo dove nessuno è mai stato prima!”.

Durante la notte un violento temporale aveva investito il lago e le sue montagne. Fulmini, vento, ed acqua a secchiate: la mattina, seduto su un muretto aspettando Mattia, osservavo sconsolato le grande pozzanghere sull’asfalto. “Oggi non è giornata”. Mattia, binocolo alla mano, invece se la ride:  “Ma no, vedrai che asciuga”. Sappiamo entrambi che non è vero, ma ora non c’è modo di arrestare ciò che ho messo in moto.

Due corde da 60, vasto assortimento di friend, fettucce e cordini in abbondanza, quindici chiodi, compresi i chiodoni ad u ormai fuori produzione. Completano l’equipaggiamento due fittoni da 40 cm realizzati con i pioli di una scala in alluminio e due picozze da ghiaccio, qualora l’arma bianca si riveli l’ultima possibilità nel corpo a corpo contro i prati verticali.    

“Fai le cose difficili quando sono facili, e inizia le grandi cose quando sono piccole. Un viaggio di mille miglia deve iniziare con un singolo passo. (Lao Tzu)” Risaliamo la piccola rampa erbosa e, legati, ci sdraiamo strisciando nella stretta grotta raggiungendo la base della rampa erbosa. Il viaggio ha inizio. Due tiri da 30 e siamo in cima al canale e, con un passo piuttosto ardito, ci infiliamo al suo interno dove una grossa clessidra sembra accoglierci come solida sosta.

Ma il canale non è pronto a concedersi: grandi cascate sbarrano la strada costringendoci ad aggirarle sui lati quando affrontarle frontalmente non è possibile. Il nostro viaggio è scandito dal suono del martello sui chiodi, chiodi buoni su cui però non cadere, chiodi che quando non escono a mano cedono con qualche martellata. Indietro non si torna, l’unica possibilità è verso l’alto, attraverso l’erba, le cascate, le placche compatte e bagnate, la roccia marcia. Indietro non si torna.

L’esplorazione diventa un viaggio totale, un’immersione completa. Mi sforzo di scattare qualche foto, di documentare, ma fatico a contare i tiri, tutto quello che importa è salire, superare il tiro, scoprire quello successivo, lavorare bene, lavorare in fretta, non sbagliare. Mattia, come un trattore guida la nostra cordata, mentre io, immobile nelle silenziose angosce del secondo, manovro le corde studiando la situazione.

Verso mezzo giorno ci sediamo a mangiare un po’ di frutta secca. Sono ormai tre ore che affrontiamo il canale ma ancora non cede, prima o poi dovrebbe abbattersi, perdere inclinazione, ma i tiri si fanno sempre più impegnativi ed intensi. Ogni mia previsione è sovvertita e distorta: il Moregallo è la montagna dei grandi inganni, dove le prospettive vengono puntualmente imbrogliate. Con un avversario tanto temibile nessuno stratega può spuntarla senza uno slancio di coraggio. Come disse qualcuno “Il Moregallo non ti regala niente”.

Ripartiamo, un tiro alla volta, mentre la nostra determinazione assume le sfumature della rassegnazione sfiorando l’autoironia. Su un traverso, dove la roccia è il trionfo dell’inconsistenza,  Mattia si diverte a sfottermi: “Devi fonderti con il marcio! ..stai li che ti faccio una foto!”. Ho i piedi su dei detriti e le mie prese ballano verso l’alto, se piombo faccio cinque metri di pendolo nel canale, eppure riesce a rubarmi un sorriso anche nel momento di massima concentrazione.

Il tiro successivo è un’altra rogna, poi qualcosa cambia. Il canale sembra abbattersi e la corda scorre veloce per sessanta metri prima di chiamare la sosta. Forse si esce, forse il canale è finito! Ma quando arrivo alla sosta, quasi camminando, mi trovo davanti il nuovo ostacolo: una grande cascata che sembra chiudere la testa del canale. Mattia parte, pianta una fila di chiodi, nessuno su cui sia possibile azzerare, si gira, si torce in opposizione, aggrappato come può e finalmente supera la cascata. Quando lo raggiungo in sosta sono le quattro e mezza, siamo stati nel canale quasi sette ore e mezza ma ora sembra sembra concluso e lo scenario attorno a noi cambia radicalmente.

Siamo alla “Piazza grande”, ci aggiriamo quasi spaesati nel centro del mondo ignoto, nel punto in cui tutte le linee si uniscono. Sopra di noi svetta la grande parete nascosta: spaventosa e bellissima è un susseguirsi di tetti strapiombanti e fessure oblique. Quella parete è il futuro dell’Isola Senza Nome: la progenie dell’Isola, i testimoni della tradizione, un giorno verranno qui e scriveranno nuove e meravigliose storie  …e dovranno essere davvero fortissimi per farlo!

 Ci sediamo a mangiare quello che è rimasto nel sacco razionando l’acqua a disposizione. Poi alle mie spalle un boato distante. Nella mia mente una domanda senza senso “Il sabato sparano le mine nella cava di Lecco?”. Ma la risposta è davanti ai miei occhi: le Grigne sono coperte di nero e lampeggiano di fulmini. Chiusi nel canale non avevamo visto il cambiamento del tempo. Osservo quella massa nera che brilla di viola quasi sconsolato. Il nostro piano non cambia, possiamo solo sperare di uscire verso l’alto ed ora dobbiamo farlo prima che quell’inferno ci si schianti addosso.

Abbiamo davanti a noi solo due soluzioni. La terza, quella più ambiziosa ed esplorativa, va purtroppo scartata a priori. Possiamo puntare sul canale di destra cercando di intercettare l’uscita delle vie sulla Parete Nord oppure puntare sul canale di sinistra e cercare di guadagnare l’uscita. Non esistono informazioni sul canale di sinistra, tutto quello che sappiamo sono le foto scattate dall’alto la scorsa estate con mio fratello e quelle fatte la scorsa settimana dal battello. Forse si passa, ma di sicuro c’è un grande salto prima della valle erbosa. Puntiamo a sinistra con la possibilità di rimontare la cresta centrale qualora servisse un “Piano B”.

I tuoni si fanno sempre più forti ma nel canale, sotto i grandi tetti della Parete Nascosta, non abbiamo idea se abbia già iniziato a piovere. Dobbiamo muoverci in fretta, ma non sbagliare. Spingere e trattenere: il temporale all’orizzonte batte il suo ritmo come un tamburo ma noi dobbiamo tenere il nostro.

Il primo tiro nel canale è poco incoraggiante. Ciò che sembrava facile si dimostra difficile e ci fa tribolare, ci ruba tempo. Poi la situazione cambia, il canale si allarga, compare qualche pianta e salvo qualche salto roccioso superiamo due tiri da sessanta quasi camminando.   Poi il canale reclama e si oppone con una piccola cascata fatta di lame oblique che rimontiamo con un friend e un chiodo “simbolista”. Forse ce la si fa, il temporale incalza ma la montagna sembra finire. Se riusciamo a raggiungere il bosco in cima possiamo giocare a carte con Noè sotto la pioggia, ma dobbiamo uscire.

Due grandi grotte segnano il nostro cammino prima che questo si infranga contro l’ultima colossale muraglia: il muro dei sogni rubati. Il canale è bloccato da una cascata di roccia inchiodabile e coperta di melma. Proviamo un attacco frontale ma appare subito disumana.

A sinistra la grande parete nascosta mentre a destra roccia fragile che rimonta la cresta centrale. “Piantiamo tutti i chiodi che abbiamo, ma dobbiamo rimontare quello schifo sulla destra”. Attraversiamo il canale mentre il temporale ringhia minaccioso. Mattia si alza, pianta un chiodo il cui suono è una promessa, poi si alza e gira lo spigolo: “No! Non è così male come sembra, si passa bene di qui!!” La corda inizia a scorrere, Mattia si muove veloce. “Trenta!” urlo quando passa il segno della mezza corda. “Dieci!”. “Cinque!”. La corda scarseggia tra le mie mani. “Mi servono cinque metri per raggiungere una pianta!” Mi urla Mattia dell’alto. I tuoni ridono di noi, smonto la mia sosta e parto verso il primo chiodo. “Vengo!”. Sono scocciato, quasi arrabbiato, niente e nessuno dovrebbe provare a fermarmi quando sono in quello stato mentale. Raggiungo il chiodo e mi alzo finchè ancora mi è ancora possibile schiodarlo. “Sono alla pianta! Stai fermo che faccio sosta!” mi urla Mattia. Lascio che si leghi e riparto, ha bisogno di altra corda per mettermi in sicura. ”Okay, ora sei dentro! Vieni!” Il tiro scorre veloce tra roccia ed erba, altri sessanti metri che ci portano finalmente tra le grandi piante. Il temporale si è spostato verso sud, non ha attraversato il lago, non ci ha preso.

Siamo fuori, tra le piante, le Grigne sono limpide ed un tramonto rosso illumina il Lario e la punta di Bellagio. La “pace” è una gioia che scoppia all’improvviso. Siamo fuori: abbiamo attraversato la frontiera e fatto ritorno. 

Ci stringiamo la mano riempiendoci di pacche prima di crollare seduti sull’erba. Lui chiama Serena, io Bruna: è tempo di rassicurarle. “Siamo fuori, tutto bene”. Bruna ride, mi racconta che a Varenna è da poco finita una terribile grandinata. Quando lo racconto a Mattia restiamo un attimo in silenzio osservando il lago: “Varenna è là davanti…”.

Poi Mattia si fa avanti. “Hai già un nome? Io ne ho pensato uno poco fa.” “Spara!” “C’è la Parete del Tempo Perduto, la via del Tempo Rubato, la via Tempo al Tempo. Potremmo mantenere la tradizione e chiamarla via ‘Buontempo’, tutto attaccato: sia per celebrare il brutto tempo sfiorato che per rimarcare il ‘buontempo’ che devi avere per una ravanata simile!” “Mi piace! Approvata!”.

La via esplorativa “Buontempo” si innalza per oltre seicento metri, con uno sviluppo a zig-zag piuttosto difficile da valutare. Non sono in grado di ricordare il numero esatto di tiri, credo siano attorno ai quindici: la maggior parte sui trenta/quaranta metri ma tre o quattro anche sul sessanta pieno. Abbiamo impiegato poco più di dieci ore dall’attacco all’uscita. Il grado massimo, con la dovuta furbizia, è un V+ …ma nella gradazione dei Corni di Canzo con l’aggiunta di un tocco speleo. Nessun chiodo è stato lasciato in via. La roccia è terribile, l’erba spaventosa, l’esposizione agghiacciante appena metti il naso fuori dal canale. No, non abbiamo mai usato le picozza ma, con quello che l’ho pagata, era un piacere sentirsela addosso. Il triangolo nelle foto indica il punto denominato “Piazza Grande”.

Mattia si conferma uno straordinario chiodatore, un caparbio lottatore capace di mantenere il sangue freddo nelle difficoltà. Uno dei migliori con cui abbia mai arrampicato, uno dei più “solidi”, probabilmente l’unico con cui affrontare una “ravanta” tanto incerta e scomoda quando la tempesta incalza. Negli annali dell’Isola Senza Nome la nostra cordata non sarà ricordata come la più forte, nè la più furba o saggia, ma per certo come una delle più coriacee e selvagge che abbiano attraversato con coraggio i territori dell’Isola. Grazie per essere stato mio compagno in questa nostra ennesima avventura.

Davide “Birillo” Valsecchi 

Pace in tempo di Guerra

Pace in tempo di Guerra

La sveglia suona alle sei e mezza ma ci metto un’ora intera prima di uscire di casa. Bruna dorme, io mi faccio un caffè, una doccia e mi aggiro per il salotto dando un’occhiata ad Internet mentre coccolo i gatti. Cerco il giusto stato mentale, diversamente conviene me ne torni nel letto. Poi, finalmente, esco e lascio che ogni passo aggiusti e riassetti il mio corpo.

Quando arrivo a Passo400 soffia un vento forte da nord, supero il crinale a sbalzo sul lago e mi ritrovo davanti il regno selvaggio del Moregallo Orientale mentre il sole del mattino ne illumina le forme. Per un istante tentenno, mi siedo e scatto qualche foto mentre studio ancora il canale che intendo salire. Se mi fermo troppo a lungo il coraggio verrà meno: respiro, mi alzo e riparto.

Alla base del canale sono sovrastato dalle pareti ritorte e la mia unica possibilità verso l’alto è quella ruga nella montagna, scavata dall’acqua e dall’ignoto. Mi aspettavo un canale detritico a blocchi ma il primo rialzo è di roccia compatta, quasi placca: bene e male. L’attacco sembra parlare chiaro: qui si arrampica o non si passa. Supero il primo salto ed affronto il successivo. Nello zaino ho trenta metri di corda, la mia sola possibilità di fuga. Ad ogni salto di roccia mi guardo in giro cercando dove giocarmela con una doppia. Poi i salti rocciosi diventano quattro, cinque, sei: sempre più sostenuti, sempre più impossibili da affrontare in discesa.

“Con doppie da 15 diventa un inferno scendere da qui”. Rimonto il salto successivo ed ormai mi è chiaro che indietro non si torna più: ho mollato gli ormeggi, non resta che navigare nell’ignoto e trovare un’uscita. “Io ho fatto la mia scelta, ora tocca alla montagna non essere troppo cattiva”. La solitudine avvolge i miei pensieri mentre le mie percezioni si dilatano: la mia vita è ora nelle mie scelte. Sembra spaventoso ma è qualcosa di piacevole.

Il canale si abbatte un poco e la vegetazione ne approfitta per invaderlo. Senza la gravità a lavorare in verticale il fondo si riempie di detriti e sassi instabili. Sembra meno difficile, ma devo fare più attenzione. Mentre avanzo trovo qualcosa di inaspettato: un vaso di plastica per fiori! Sorrido e gli scatto una foto: sopra di me, sulla sinistra orografica c’è il Sasso Preguda e la sua chiesetta: quel vaso è finito di sotto spinto dal vento.

Proseguo ma il canale sembra chiudersi morendo in pareti verticali, quindi mi sposto sulla destra cercando di guadagnare il crinale che separa il mio canale da quello affianco. Raggiungo la cresta ed inizio a salire aggirando i grossi sassi di calcare e le piante che segnano il confine tra i due “vuoti”. L’esposizione è ragguardevole ma le difficoltà sono accettabili: ora tornare indietro è davvero impossibile. Seguo linee invisibili accarezzando la roccia, ma la vegetazione mi nasconde il resto della mia storia: non posso far altro che credere e dubitare.

La cresta obliqua ancora verso sinistra, verso il mio canale. Rientro nel fossato di roccia e faccio una nuova sorpresa: un teschio di tasso dai ragguardevoli denti. L’incontro in parte mi inquieta: un tasso morto, disperso in un canale sconosciuto, non è un bel presagio per il Nostromo dei Tassi del Moregallo. Mi fermo a studiarlo, scatto qualche foto. Mi sfiora l’idea di infilarlo nello zaino ma subito desisto. Con quei denti era un’animale forte ed orgoglioso, ha trovato la morte cadendo dall’alto, vinto dalla montagna, forse al buio, forse nella pioggia. Meritava di più che finire nei miei trofei, così l’ho appoggiato su una bella roccia salutandolo: “Augurami sorte migliore, fratello tasso”.

Il canale diventava uno stretto diedrino erboso tra una placca compatta ed un muretto a salire. Mi alzo nel diedro ma davanti a me, oltre la vegetazione vedo solo la roccia ed i caratteristici prati verticali sotto Preguda. Mi alzo ancora ma devo cambiare strategia, in quella direzione non si può proseguire. Così rimonto sul muretto ed inizio un traverso su roccia verso destra cercando di guadagnare nuovamente il crinale. Ormai sono fuori, sono in parete, l’esposizione è ormai irrilevante: arrampico slegato su passaggi di IV. La cosa, curiosamente, non mi disturba: è l’unica opzione razionalmente possibile e la roccia è stupenda. Rimonto il crinale per poi abbassarmi nel canale di destra, dentro cui guadagno ancora quota.

Qui faccio un errore di valutazione che comprenderò solo più tardi. Un’esile traccia di muflone sembra alzarsi ancora verso destra attraverso una cengia di detriti. Le piante mi impediscono di vedere bene ma mi alzo seguendo quella linea che punta a rimontare sulla spalla destra del secondo canale. La roccia si fa però friabile e poco convincente: quel “sentiero da capre” potrebbe essere la soluzione più logica ma anche una pericolosa trappola. Non mi fido, rientro nel canale e lo riattraverso riguadagnando il crinale sfilando dentro una roccia spaccata.

Davanti a me ho uno strano mosaico di prati verticali e roccia bianca costellata da piccole ma apparentemente solide piante. Punto dritto per dritto arrampicando nel misto. Poi prendo, mi alzo sopra un diedro roccioso e mi ritrovo davanti una pancia di rocca. Per rimontarla devo alzarmi oltre lo strapiombo su prese piccole e riposizionarmi su fessure, oppure tirare un metro di dulfer orizzontale su lama buona e placca liscia prima di rimontare su una pianta. In entrambi i casi, se nel momento di massimo sforzo non mi bastano le braccia o mi partono i piedi, passo di sotto senza scampo. “Gli equilibristi muoiono credendo che l’esercizio sia finito”. Un pensiero che abbozza la frase di Philippe Petit, di cui ricordo il senso ma non le parole esatte.

Al primo movimento mi accorgo che è troppo, che mi sto giocando il jolly quando forse manca poco ad uscire. Mi fermo, mi guardo in giro e di lato, scendendo e compiendo un piccolo traverso, vedo una soluzione più abbordabile. Forse anche più esposta ma gestibile e frazionabile in più movimenti. Mi abbasso, mi incastro in una nicchia, mi sfilo e con una “mastrufolata imperiosa” raggiungo una pianta e finalmente il bosco di betulle.

Faccio due passi, mi allontano dal vuoto, ed inizio a respirare a pieni polmoni. Altri due passi ed i miei respiri si fanno ancora più intensi e rumorosi. “Fuori, sono fuori!”. Ormai sto iperventilando e mi siedo a terra sul prato. Dallo zaino prendo la bottiglia dell’acqua e bevo avido. Respiro e prendo il cellulare: “Sono fuori. Canale fatto, Birillo vivo” scrivo a Bruna. Poi mi alzo e guardo di nuovo di sotto: senza sporgermi troppo perchè mi fa un po’ paura…

Sull’altro lato del canale la cengia delle capre appare ora come una buona soluzione percorribile ma, in fondo, era stato figo anche chiudere con una bella serie di placche intense! Mi siedo di nuovo ed dallo zaino estraggo una busta di fette di mela essiccate. Le mani non tremano ma si muovono in modo strano, mi sento una scimmia goffa che tenta di infilarsi in bocca patatine sbriciolate. Il mio corpo ha staccato la spina e la mente ha mollato il colpo: improvvisamente mi sento un vecchio pieno di dolori. Ma il sentiero è venti metri alle mie spalle, mi godo il momento.

Davanti a me, sul lato opposto del lago, fa mostra di sè il Forcellino. E’ da questa mattina che ripenso a Dean Potter ed alle sue parole raccontate da Luca Calvi: «Una delle espressioni che maggiormente lo infastidiva era sentirsi accusare di essere un adrenaline-addicted, adrenalina-dipendente. “No, Luca, per favore, aiutami a spiegare che la mia non è ricerca dell’adrenalina, è esattamente il contrario. Fin da piccolo mia madre mi ha insegnato l’arte dello yoga, il sapermi concentrare e controllare. L’adrenalina è l’esatto contrario di quello che cerco io. Io spingo le difficoltà al massimo, salgo una via in free-solo oppure cammino sulla slack senza cordino di sicurezza perché così mi concentro al massimo, mi avvicino maggiormente a quello stato di benessere con me stesso e col mondo che è l’esatto contrario delle sensazioni di chi va a drogarsi di adrenalina. Per loro l’adrenalina arriva dal gioco quasi inconscio con il rischio semisconosciuto, una sorta di roulette russa. Per me no, non c’è nulla di non calcolato, è un percorso che mi porta a salire, ad elevarmi, a camminare con vuoto tra le gambe ed infine a poter volare… So che mi capisci, scrivilo tu…”». Curiosamente le parole di Dean mi ricordano quelle di Ivan e quelle apprese studiando “la via della mano vuota” (Karate-Do). L’ignoto è la mia difficoltà massima, la posta in gioco la stessa: con una punta di egocentrismo avevo quasi sperato fosse lui uno dei due corvi che avevano vegliato la mia salita nel canale. Sull’altro non ho dubbi, mi segue ormai da anni su queste montagne. 

Ieri, Bruna ed io, eravamo ad Esino Lario: Davide Castelnovo era il tracciatore della prima edizione del EsinoBlockRock, una gara di Street Boulder tra le vie del paese. Oltre a Davide e suo papà Pier abbiamo incontrato anche il Guerra e gli altri ragazzi di Valmadrera: tutti veterani dell’Isola Senza Nome. “Serve la testa per le vie dei Corni” chiacchieravamo insieme “Senza il giusto stato mentale al secondo tiro cerchi la fuga in doppia anche se hai già ripetuto la via più volte”.

Come spesso accade ero affascinato dalle straordinarie capacità dei boulderisti, dal modo in cui riuscivano a risolvere movimenti tanto complessi con apparente semplicità e leggerezza. Probabilmente non riuscirò mai ad arrampicare come loro, così come non sarò forse mai al livello di Mattia, di Josef, Ivan o Gianni. Ma in fondo è giusto così: nelle mie “cose”, nella mia “dimensione”, nel mondo che ho scelto di sentire mio, credo di essere diventato piuttosto bravo …e forse mi basta questo per apprezzare il giusto equilibrio. Quella di oggi è stata una bella salita, completa in tutti gli aspetti che mi appartengono.

Davide “Birillo” Valsecchi

Non credo che il canale sia mai stato salito o che possieda un nome. Ho pensato a tanti nomi ma nessuno mi sembrava appropriato, così mi piacerebbe chiamarlo “Canale del Nostromo”: ma è giusto un vezzo, non è fondamentale. La salita non scende mai sotto il secondo/terzo grado ed è da considerarsi prevalentemente di “misto-verde”. Serve intuito e capacità nel tracciare la rotta, bisogna saper mitigare le difficoltà ma anche essere consapevoli che molte situazioni vanno risolte di petto con passaggi, anche lunghi, di IV tendente al IV+ (La roccia è buona quindi è possibile che il grado sia più alto e che semplicemente non l’abbia sentito). Di questi passaggi, ahimè, non ci sono foto perchè ero troppo impegnato a cercare di sopravvivere anzichè fotografare 😉 Il punto d’uscita l’ho segnato con un adesivo vinilico su una betulla. Due ore e quaranta nel canale. E’ una ravanata intensa di quasi quattrocento metri di dislivello senza via di fuga: mi raccomando, non mettetevi in testa idee stupide se non è il pane vostro.

La “Direttissima” del Moregallo

La “Direttissima” del Moregallo

Domenica mattina di luglio: un caldo terribile. Il paradosso è vivere ad un chilometro in linea d’aria dal Lago e tecnicamente non riuscire a sfruttarlo. La costa che risale da Parè, frazione di Valmadrera, fino ad Onno, frazione di Oliveto Lario, è infatti “logisticamente” un problema su cui continuo ad “incartarmi”. Il tratto di strada, la provinciale SP583, che collega le due frazioni è lungo 11 chilometri ed attraversa due nuove e lunghe gallerie. La prima di 1,7 chilometri, la seconda di 2.3 chilometri. La vecchia strada statale, che correva lungo la riva del lago, è oggi chiusa e quasi completamente impraticabile, nel senso che il primo tratto di strada è diventato privato ed è solidamente recintato. Neppure “ravanando” è possibile aggirare questo blocco lungo la riva: forse solo a nuoto, tenendosi ben lontani dal cantiere navale, si riesce a passare!

Curiosamente la parte “insensatamente” privatizzata appartiene al comune di Valmadrera mentre il resto della vecchia strada, oggi in abbandono ma praticabile a piedi, appartiene al comune di Mandello del Lario che, sebbene sulla riva opposta del lago, vanta storici diritti sui territori del Moregallo.

Le due nuove gallerie impongono quindi di accedere alla sponda orientale solo a Parè, prima della prima galleria; in località Moregallo, tra le due gallerie; alla spiaggia delle Moregge, dopo la seconda galleria. Purtroppo a queste limitazioni se ne devono aggiungere altre due: la prima è un cronico affollamento estivo di tutta la zona, la seconda è la scarsa possibilità di parcheggio, oggi anche a pagamento. Anche volendo affrontare due chilometri di provinciale chiusi dentro una trafficata galleria, una camera a gas, sarebbe comunque impossibile: la galleria, per problemi all’impianto di illuminazione, è interdetta tanto ai pedoni quanto alle biciclette. Quindi la macchina ed il parcheggio a pagamento sono l’unica soluzione diretta.

Tutto il versante Est del Moregallo è caratterizzato da grandi pareti verticali e, come se questo non bastasse, ci sono ben quattro cave che “aranano” i già difficili fianchi della montagna. Per questo motivo non vi è un sentiero che corre a mezza costa da sud a nord. Al momento l’unica soluzione possibile e ufficiale è il sentiero 50° Osa che dalla bocchetta di Sambrosera, a 1192m di quota sulla cresta del Moregallo, compie una lunga discesa superando la Parete Nord e raggiungendo il lago tra il Rapanui e l’Avalon. Quindi, solo andata, sono oltre 1000 metri di dislivello ed oltre 6 km di sviluppo per ovviare ad un impraticabile strada di 2 chilometri pianeggiante a bordo lago!

Inevitabilmente tutta quella zona, osservabile solo dall’altra sponda del lago e quindi lontana da occhi indiscreti, è territorio di “saccheggio”: quando in cava, il 6 marzo 2015 si sono lasciati prendere la mano con le mine, per il boato che ne è derivato se la sono fatta sotto anche a Lecco. Così, giusto per dire… (LeccoNotizie: Boato sul lago, tanta paura)

Le alternative al 50° sono poche, selvatiche e spesso non offrono alcun vantaggio se non quello di “pericolare” negli angoli più fieri del Moregallo. C’è infatti il “Sentiero della Teleferica” (un’avventura!), quello “del casotto dal lago” (un’altra avventura!) e più a nord tracciati dei mufloni e dimenticati sentieri sulla sinistra orografica della valle delle Moregge. In ogni caso è necessario raggiungere la cresta del Moregallo oltre i 900 metri per poi poter scendere.

Nello scorso inverno, agli inizi di Dicembre, mi sono avventurato ad esplorare una possibile soluzione che, più o meno a quota 400, riuscisse a vincere gli ostacoli attraversando orizzontalmente tutto il versante. La prima parte della mia esplorazione è stata vertiginosa ma di successo: molti “sentieri” tracciati dagli animali attraversano orizzontalmente fino a raggiungere la cresta a quota 400: il sasso Preguda è a quota 630, quindi questa linea è decisamente “bassa” ma sufficientemente alta per accedere all’anfiteatro roccioso che “ospita” la cava al di sopra della sua linea di scavi.

Quella zona è bellissima e probabilmente, al di sopra della cava, è assolutamente “vergine” del tocco umano. Ci sono un paio di linee che, attraverso la roccia a strati ed i prati strapiombanti, può essere inseguita per raggiungere la cresta opposta, dove corre il sentiero del casotto. Il prossimo autunno, quando l’erba sarà seccata ed i serpenti avranno smesso di pascolare per prati, ho intenzione di continuare la mia esplorazione. Ovviamente serviranno corde e chiodi per riuscire a raggiungere l’altro lato ma, se mai ci riusciremo, avremo superato i primi due grossi ostacoli: la prima cava e la prima galleria. Da quel punto, attraverso il sentiero del Casotto e quello della Teleferica si potrebbe proseguire orizzontalmente fino al grande (e temibile) canalone che scende a valle a sinistra della parete del Tempo Perduto. Se anche questo secondo “problema” fosse risolto il nostro viaggio potrebbe continuare in orizzontale fino alla base della Parte Nord.

Mentre rifletto sulle possibilità e sulle difficoltà non posso che pensare ad Eugenio Fasana, il grande alpinista che stato il capostipite degli arrampicatori dell’Isola Senza Nome. Sua è infatti la prima storica via d’arrampicata sull’omonima parete del Corno Centrale realizzata il 30 Giugno del 1910. Pensavo a Fasana perchè fu sempre lui, nell’Ottobre del 1911 , a tracciare l’avventurosa linea su cui oggi corre la celebre Direttissima che in Grignetta collega i Resinelli con il rifugio Rosalba. Quella linea avveniristica, tra canali repulsivi ed allora inesplorati, oggi è uno dei sentieri più noti e frequentati della Grignetta. Certo, oggi ci sono cavi in metallo, pioli, scale e probabilmente ben pochi si rendono conto di cosa possa significare affrontare quel percorso senza tutte quelle “correzioni” umane che furono introdotte dal Cai Milano nel 1923.

La direttissima di Fasana e la mia esplorazione attraverso il Moregallo per certi versi si assomigliano molto: un’avventura ed un’esplorazione “diversamente” alpinistica. Ma quale potrebbe essere il suo futuro? Per quanto io sia contrario ai cavi metallici, alle catene ed al trapano non è possibile negare il ruolo dell’attuale direttissima nello scenario della Grignetta. Il Moregallo però è aggredito da quattro cave, qualcosa che ha decisamente un impatto esponenzialmente più violento delle mie consuete remore etiche. Un sentiero attrezzato, fosse anche con passaggi da vera e propria ferrata, segnerebbe un limite invalicabile alla salita della cave ed una maggiore frequentazione permetterebbe una maggiore vigilanza. Spalancare le porte di un mondo segreto o lasciare che sia consumato in silenzio? Forse il compromesso è accettabile, di certo avrebbe un senso ed uno scopo forse più nobile di molte altre ferrate “ludiche” del territorio lariano. (A partire da Gamma1 fino alle nostrane Belasa, Venticiquennale Canzo e Trentesimo Osa…)

Così, mentre attendo il ritorno dell’autunno, fantastico su cosa potrebbe essere fatto. Cosa accadrebbe se le avventate esplorazioni dei Tassi del Moregallo riuscissero a raccogliere il sostegno delle storiche realtà dell’Isola: la OSA, la SEV, il Cai di Valmadrera così come quello di Canzo ed Asso. Forse persino i Corvi di Mandello, a cui appartiene ufficialmente quella zona, potremmo esserne interessati. Chissà, forse unendo tutte le forze e tutti i talenti, si potrebbe creare la nostra direttissima, chiudere il cerchio attorno al Moregallo e presidiare una parte del nostro territorio spesso abbandonato.

Davide “Birillo” Valsecchi

Le Mura del Funzi

Le Mura del Funzi

Quando ero molto piccolo i miei genitori, dopo l’asilo, mi portavano spesso al cinema teatro di Canzo dove, il pomeriggio, venivano proiettati i primi film della Walt Disney. Era un’epoca in cui le televisioni erano gusci di vivace plastica colorata su cui apparivano immagini in bianco e nero. Uno dei film proiettati era “La bella addormentata nel bosco”. La storia era assolutamente noiosa e petulante: le fatine qui, quo e qua, il fuso, la tipa che si addormenta, tutti che piangono eccetera, eccetera… Poi, finalmente, arrivava il principe sul cavallo, con tanto di spada e di scudo, e la noia esplodeva diventando una vera battaglia epica. “La tua tomba sarà una foresta di rovi, folta ed intricata che nessuno la scovi!” Urlava la strega malvagia avvolgendo di spine il castello prima di trasformarsi essa stessa in uno spaventoso Drago. Tre minuti e mezzo di pura azione, uno scontro tra i rovi e le rocce contro il possente drago che culmina in un crescendo: “Spada di verità, vola diritta, provoca del male la sconfitta!” E BANG! Giù il drago, applausi in sala e limonata finale con la belloccia addormentata! Ecco, a cinque anni questa era la mia visione perfetta del mondo! Probabilmente è per questo che ancora oggi mi aggiro trasognante inseguendo il drago nel nostro comune reame di rovi e rocce.

In queste settimane ho iniziato un nuovo lavoro e per questo sono chiuso in un ufficio nel centro di Lecco. Quando la sera emergo da quelle mura infilo i calzoncini corti e mi lancio sui sentieri dietro casa in cerca di avventura prima del tramonto. Senza meta mi sono infilato in un sentiero che, curiosamente, non aveva mai percorso imbattendomi in qualcosa di assolutamente inatteso: il Crotto di Funzi!!

La stalla, ricavata dalle cavità della roccia sotto un grande tetto, è stata recentemente sistemata dai Volontari da Valmadrera ed è certamente uno dei luoghi più caratteristici ed interessanti da visitare nella zona di San Tomaso. Qualcosa però non mi convinceva. Avevo giocato su una breve placca all’inizio del sentiero ed uno strano “vuoto” oltre le piante sembrava chiamare la mia attenzione. Aggrappato alle piante mi sono sporto oltre: “Accidenti, ma qui sotto c’è un’altra parete ed un’altro tetto!! Bio, tocca andare a vedere.” Così sono sceso nuovamente alla base del sentiero cercando una via d’accesso che mi portasse ai piedi di quella parete.

Mi sono caparbiamente infilato tra la roccia ed i rovi ma ho guadagnato a fatica davvero poca strada. Riuscivo a vedere la roccia oltre l’intricato groviglio di spine ed alberi abbattuti ma non c’era modo di riuscire a passare. Non riuscendo a proseguire ho cercato di uscire da quella trappola puntando dritto verso l’alto, sfruttando una spaccatura nella parete. Così mi sono ritrovato aggrappato all’edera ed alla roccia marcia guadagnando però il filo di cresta e l’accesso ad un delicato diedro di grossi massi incastrati. Superato il diedro potevo vedere la base della parete oltre i rovi ma avrei avuto bisogno di una corda per calarmi di sotto, oltre il tetto. Così ho ripiegato verso il crinale raggiungendo nuovamente il sentiero: “Sabato! Se Sabato mattina non piove torniamo a vedere!”Ed eccomi qui, Sabato mattina, con un paio di guanti di cuoio ed un coltellino a serramanico. Volevo provare a passare attraverso i rovi ma non volevo aprire la strada a chiunque, non sapevo cosa ci fosse laddietro e non volevo creare un facile accesso ad un potenziale mondo di guai. Testa bassa, pazienza e sano spargimento di sangue (il mio) ho arrancato tra i rovi e le rocce cercando di allargare l’evidente “corridoio tra gli spini” tracciato da un animale selvatico. Solo poi, alla base della parete, ho avuto la conferma dell’esistenza di una lussuosa tana di Tasso (poteva essere diversamente?). Dopo quasi mezz’ora di ravanata ho potuto finalmente raggiungere la base della parete, delle “Mura del Funzi”.

Nonostante la fitta vegetazione che ricopre ogni cosa i segni mostrano come un tempo i contadini o i pastori frequentassero quel luogo. La scatoletta di metallo può essere stata lanciata dall’alto ma qualcuno deve aver per forza segato i vecchi rami di una pianta ancora viva. A differenza del Crotto del Funzi, che è letteralmente sopra, non ci sono muretti o strutture per il ricovero degli animali.La parete ricorda quella della falesia di Santumas, che non è poi troppo distante, anche se la roccia è inevitabilmente meno pulita e certamente meno compatta. Ovviamente la roccia, dopo gli intensi acquazzoni della settimana trascorsa, era fradicia ma non è detto sia la consuetudine. Una grossa spaccatura rimonta un tetto piuttosto inquietante. Sembra possibile arrampicare, la qualità della roccia sembra buona ma ci sono molti grossi massi incastrati sotto il tetto la cui tenuta non sembra incoraggiante. Tutto il tetto, nonostante la muraglia che lo sovrasta, è una spessa fetta di roccia, uno strato calcareo obliquo, che si è staccato dalla parete. In quello spazio sono attecchite grosse piante e scorre la pioggia che filtra poi nella fessura sottostante. In pratica il tetto sta lentamente crollando, tuttavia se questo avvenga domani o tra mille anni non mi è dato saperlo.

Io sono prudenzialmente portato a spingere la roccia piuttosto che tirarla. Per questo ad interessarmi maggiormente è stato il secondo tetto, quello più a destra. Una rampa compatta, ma lavorata, porta alla base di un secco tetto obliquo. La roccia sembra decisamente più compatta e la possibile salita più lineare. Si tratta di rimontare la rampa, proteggere la base del tetto prima di sporgersi in fuori cercando di raggiungerne l’estremità. Qui capire come e se proteggere prima tentare il passaggio. Una bella pianticella sopra il tetto sembra incoraggiare promettendo una buona protezione prima di affrontare il restante muretto. Sebbene di dimensioni quasi da boulder è un passaggio atletico che richiede ingegno per essere risolto.

Visto che affrontare nuovamente i rovi non mi allettava ho affrontato di petto una porzione di parete non strapiombate. Mi sono alzato di tre o quattro metri in una spaccatura, IV° grado scarso + rovi, fino a raggiungere le radici di una grossa pianta su cui mi sono issato a forza guadagnando l’uscita.

Quindi, sebbene di modeste dimensioni, posso dire di aver aperto in libera due vie sule Mura del Funzi. Niente di speciale, certo, poco più che una verticale ravanta, sicuro, ma abbastanza per reclamare le Mura del Funzi come NoSpitZone!!

Bisogna ancora fare qualche valutazione sulla roccia, su quello che si muove e quello che rischia di crollare, ma tutto sommato è un bello spazio, anche abbastanza vicino da raggiungere. Credo possa valere la pena dare una pulita ai rovi, sistemare e prendersi cura delle piante buone (magari a settembre/ottobre). Purtroppo ogni volta che qualcuno apre una nuova falesia sembra sia esplosa una bomba: piante segate o spezzate, roccia rotta ovunque: questo non fa affatto parte della mia filosofia. Pulire significa prendersi cura, togliere i rovi perchè il bosco e le piante possano respirare, così come spostare i sassi instabili non significa demolire la parete. Un tempo i contadini si prendevano cura di quell’angolo di montagna, credo si potrebbe riprendere questa tradizione e vedere, magari senza troppe pretese, se quella piccola parete di roccia può regalare emozioni agli arrampicatori o ai boulderisti.

Se qualcuno vuole andare a curiosare e tentare i tetti può farlo liberamente, non sono né geloso né possessivo, ma deve tenere a mente tre cose: a) Non fatevi male b) Non fate cadere sassi sulla mulattiera sottostante c) siete sull’Isola quindi rispettate le regole della casa: niente trapano, niente demolizioni, niente deforestazione (…e niente magnesite che è roba da fighetti). Le piante, in questo piccolo gioco, sono le migliori alleate: quindi rispettatele!

Davide “Birillo” Valsecchi

Note a margine:
il Vecchiaccio mi scrive via What’sUp: “Cosa fai di bello?”. Visto che da mesi siamo “litigati” gli rispondo sdegnoso solo con un immagine del tetto delle Mura del Funzi che più mi piace. “Ma c’è una baita li vicino?”. Sospiro e gli mando una foto del Crotto di Funzi. “Sì, ho fatto il tetto sulla sinistra anni fa, tornando dal pilastro a sinistra del Ratt”.  Ed anche questa volta Sguero ci ha messo lo zampino… Comunque sia questo vuol dire che le Mura del Funzi sono arrampicabili, che il primo tetto è fattibile (tenendo presente il soggetto che l’ha risalito) e che il secondo è ancora vergine. Quindi posso serenamente affermare che le Mura del Funzi sono decisamente NoSpitZone 😉 

Bru Na: Il Ritorno

Bru Na: Il Ritorno

Sabato io e Bruna siamo andati ad un matrimonio: lei con i tacchi alti, io con i calzoni corti. Arrivati in municipio ci siamo accorti che l’ingresso era sull’altro lato del palazzo e che si accedeva alla sala della cerimonia solo attraverso un piccolo ponticello sospeso: noi, ovviamente, eravamo alla base del muro di cinque o sei metri sopra cui correva il ponte. “Che si fa? Facciamo il giro?” “Nope, siamo in ritardo. Te la senti se prendiamo la dritta!”. Mi sono sfilato le scarpe da trekking e le ho allungate a Bruna. Lei mi ha guardato un istante ed ha sfilato i tacchi infilando le mie scarpe: poi abbiamo iniziato ad arrampicare su per il muro. “Non le volevo le tue scarpe! Volevo anche io arrampicare a piedi nudi!”

La concitazione e la complicità del momento hanno lasciato in secondo piano l’incidente al piede e gli acciacchi che ancora fastidiano il dito di Bruna. “Come è andata?” “Bene, mi è venuto spontaneo arrampicare! Mi sono anche divertita!”. Così, mentre Luigi ed Erika si scambiavano le promesse matrimoniali, io ordivo il mio piano per rimettere in pista Bruna l’indomani: “Ti va se domani facciamo un giretto dietro casa?”

Se fosse stato meno caldo avrei puntato alla Crestina Osa, ma non potevo azzardare di ritrovarmi in pareti con il dito dolorante, le scarpette strette ed un afa asfissiante. Quindi ho optato per un lungo giro che da Valmadrera saliva fino al Cornizzolo passando da San Tomaso e San Pietro. Purtroppo giunto all’imbocco del sentiero del “Luisin” ho trovato la strada sbarrata dalla gara di tiro al volo per il 50° dei Cacciatori di Valmadrera. “Mi spiace, ma non si può passare. Il sentiero è sulla linea di tiro”.

“Il momento presente è adesso: significa prepararsi costantemente all’imprevisto.” Ai piedi delle bastionate minori del Corno Birone non mi restava che tornare sui miei passi o inventarmi un’alternativa intrigante. “Saliamo su per il fiume?” Tornati ai grandi massi segati del Taja-Sass ci siamo infilati tra le rocce e l’acqua cristallina. “Mettiamo le scarpe nel mio zaino, a piedi nudi si rischia meno di cadere”. Così, immersi nell’acqua gelida ma corroborante, abbiamo iniziato ad arrampicare sul granito e serpentino in una specie di “Sentiero delle Vasche – Extended Version”.Bruna si diverte, le piace arrampicare scalza, senza corda. Si muove e segue i miei spostamenti tra i sassi e l’acqua: gesti fluidi, atletici ma tutt’altro che banali. Il caldo ed il male al dito sembrano solo un piacevole ricordo lontano. Il fiume è un misterioso incrocio tra una giungla ed un crinale di alta montagna. Bruna si diverte, finalmente può muoversi come più le piace, e forse anche io ne avevo bisogno, avevo bisogno di mettere fine a questo capitolo, all’incidente. Forse avevo bisogno di averla di nuovo vicino nelle mie scorribande. Una placca ad incastro ci riporta ai tempi di “Cuori infrangibili”, mentre a sbalzo le indico prese ed appoggi: “Vieni su ma non cadere!”

Il sole dell’Estate che avanza irrompe nei colori nascosti dell’Isola Senza Nome. Forse sono solo uno sciocco, un bambino che fantastica mentre gioca nel giardino di casa, ma ci sono angoli, luoghi sconosciuti ai più, la cui misteriosa bellezza non smette di attrarmi e conquistarmi. “Ma sai dove siamo?” “Non sono mai stato qui, ma so dove siamo”. Nella mia mente, come un puzzle, prende vita la mappa di ciò che mi circonda. Salgo in cima ad un sasso più alto ed indico un punto nel bosco, oltre il fiume, nel fitto della vegetazione. “Credo che il sentiero passi laggiù”. Bruna fa un’espressione scettica. “Naa, non ci credo. Stai inventando!”. Proprio in quel mentre un corridore, indossando vestiti fosforescenti e con passo pesante, passa di corsa sul sentiero oltre la vegetazione in lontananza. Sogghigno con aria compiaciuta “Mmm sei ancora convinta sia in errore?” Bruna sbuffa indispettita: “Bhe, se non era per il senso dell’orientamento non ti venivo dietro in questi posti!”.

Il fiume è ormai un rigagnolo stretto tra le piante. Così lo abbandoniamo prendendo di petto i grandi e ripidi prati che salgono alla cresta del Bevesco. Raggiunto il crinale ci si inoltra in uno dei luoghi più ampi meno frequentati del corno Birone, una ripida ed erbosa valle ad imbuto che si tuffa verso il basso slanciando oltre le vertiginosi muraglie. Ci si può addentrare solo in discesa, avendo costantemente davanti agli occhi il grande vuoto sulla città di Valmadrera. E’ un posto che scuote ed inquieta.”Non voglio scendere. Questo posto mi da strane sensazioni.” La prima volta che mi sono avventurato in questa valle da solo ero quasi terrorizzato, ad ogni passo temevo di scivolare sull’erba precipitando nell’abisso: sempre in discesa, sempre senza vedere bene dove stai andando mentre le prospettive ti disorientano. Non è per certo un posto facile. (Ma questa placca, battezzata “Placca delle Industrie”, merita una visista accurata)

“Okay, allora andiamo in sù e poi facciamo il giro attorno ai campi solcati”. Continuiamo nell’erba alta fino a raggiungere il sentiero che porta alla “Cascina Rotta” e da lì quadagnamo la colettetta del Pra Santo. Per cambiare un po’ scendiamo verso la val Ravella, spingendoci verso l’Alpetto Alto. Poco più sotto prendiamo sentiero che, con un lungo traverso, ci porta fino al Fo, il grande faggio oltre il Colmo della Ravella. Da qui, seguendo il Sentiero Carlo scendiamo di nuovo verso la Val Molinata, l’Acqua del Tufo e San Tomaso. Dopo una birra ed un ghiacciolo al ristoro dell’Osa abbiamo fatto rotta verso casa.

Dodici chilometri, mille metri di dislivello per un’escursione fatta di bouldering, canyoning ed esplorazione: non male per un “giardino di casa”.

Davide “Birillo” ValsecchiTracciato
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Inseguendo le Capre

Inseguendo le Capre

Ieri ero a Bolzano, alla fiera ProWinter 2017, invitato da Giovanni e dal negozio Sherpa di Ronco Briantino. La mia avventura con i chiodi, il progetto RockHound, mi sta conducendo attraverso mondi a me sconosciuti e spesso decisamente affascinanti… anche senza menzionare le prosperose cameriere bolzanine che nei loro stretti abiti tradizionali mi hanno servito birra a boccali!

Così questa mattina, per sgranchirmi un po’, ho deciso di fare una salita veloce al Corno Rat. Le ferrate sono pericolose tanto nell’ideologia quanto nella pratica. Pensare di “arrampicare” su una ferrata è un’ idea sciocca e pericolosa: ci si trova ad affrontare passaggi difficili, movimenti sbagliati, roccia unta e non ultimo un’illusoria protezione che, con il fattore 6 di caduta, vi garantisce unicamente di non arrivare a terra (ma probabilmente di sbattere ovunque e scassarvi completamente!).

A volte lo trovo divertente, un buon esercizio, una piacevole ginnastica, altre volte invece la vivo come la cosa più insopportabile, deprimente e svilente che possa aver deciso di impormi. Oggi, purtroppo era il secondo caso. Dopo il primo tratto ero già assolutamente annoiato e fastidiato da quel tipo di arrampicata, insicura ed inappagante.

Sono stato tentato di infilarmi nell’Anfiteatro, tuttavia l’ultima volta a metà del canale d’accesso erano venuti a basso un paio di grossi “frigoriferi“ e non volevo che la mia noia potesse rovinare la giornata (o peggio) a qualche innocente turista in gita al Corno. Così ho preferito curiosare alla base dello sperone roccioso che fronteggia il Corno Rat. Mesi fa, credo prima dell’inverno, avevo tagliato dalla cresta raggiungendolo a mezza altezza per poi risalirne la parte alta. Roccia buona avvolta nella vegetazione custodiscono una vecchia via d’arrampicata ormai quasi perduta.

Tra le piante una marcata traccia di capre sembrava invitarmi: indossando ancora il casco, l’imbrago ed il set da ferrata ho cominciato a curiosare lontano dalle catene. In un canale di roccia buona (coperta da rovi) credo di aver trovato l’attacco della via originale allo sperone. Osservando le solide piante su cui fare sosta fantasticavo l’idea di tornare armato di rastrello e cesoie per tentare la ripetizione in solitaria. Anzi, tutta quella zona poteva essere interessante e mi ricordava i giorni felici di “cuori Infrangibili”: chissà, forse tenendosi lontani dalla roccia marcia e dai crolli si poteva trovare qualche bella linea di roccia e piante al sole.

Qualche indigeno doveva aver avuto la mia stessa intuizione perchè, poco più avanti, ho trovato un cordino in una clessidra alla base di un diedro: “Chissà chissà a chi appartiene questo cordino qua?!” In realtà credo di sapere la risposta…

Il sentiero della capre però non si arrende neppure davanti ad una poco rassicurante placca sul vuoto. Già, perchè addentrandomi nel bosco ero finito sul crinale del grande salto roccioso che prende il nome di “Giardini Pensili”: Roberto e Gianni Mandelli (due alla cui capacità nemmeno mi ci avvicino!), dal basso hanno aperto diverse vie di arrampicata in quella zona. Linee naturali prive di spit che superano passaggi aerei di VI+. Il sentiero delle indomite capre sembrava lanciarsi in parete, incurante della vertigine o del vuoto sottostante.

“Birillo, no! Birillo, non andare oltre!”. Seguire alla cieca un sentiero di capre in parete è per certo una delle cose più stupide e pericolose che possiate decidere fare. Il fatto che io continui a farlo con preoccupante costanza dovrebbe farvi comprendere come io sia un pessimo alpinista ed un pessimo arrampicatore. Come più in generale io sia una brutta persona ed un esempio negativo per tutta la comunità della montagna. Bambini: don’t try this at home!

Le capre, in modo assolutamente stupefacente, hanno tracciato un tortuosa linea che, quasi con genialità alpinistica, discende e risale la parte alta dei Giardini Pensili. Confesso che, addentrandomi nella parete, ero decisamente combattuto ed intimorito: “Birillo, indossi l’imbrago ed il set da ferrata. Quando e se ritroveranno il tuo cadavere, prima di riconoscerti, penseranno ad uno milanese tanto stupido da riuscire a perdersi la ferrata!”. La linea della capre è però assolutamente geniale e spalanca l’accesso a gioielli di roccia assolutamente inaspettati!

Il sentiero è però un sentiero da capre: ci sono passaggi da brivido sul vuoto, terra smossa ovunque e movimenti su roccia tutt’altro che banali. La prima parte è in discesa tra rocce instabili e l’ultima affronta una rampa su placca che sembra ricorda il Canalone Porta in Grignetta (però sotto c’è il vuoto!). Confidavo che le capre avessero trovato una via d’uscita e che non si fossero lanciate di sotto come dei lemmings …tuttavia non avevo nessuna certezza e, senza corda, non mi sentivo troppo a mio agio “spalmato” là in alto. Quando finalmente sono riuscito a vedere l’uscita sui prati oltre la cresta mi sono rassicurato un po’: “Dannazione! Quante ne sanno le capre! Guarda che via di III° grado hanno pennellato in questi luoghi impossibili!”. Impressionate: il Piolet D’Oro quest’anno lo vincono le capre di San Tommaso!

Ero galvanizzato dalla scoperta di quella linea: finalmente posso curiosare nei giardini pensili con la certezza di avere una possibile “via di fuga” a mezza altezza! Stregato dalla creatività delle capre ho continuato a seguirne la linea ritrovandomi in luoghi di cui non avevo mai sospettato neppure l’esistenza. Ho trovato una grotta “abitabile”, una falesia nascosta nel bosco ed una cascata arrampicabile. Le capre sanno, non ci sono chiacchiere! “Perché la capra è il migliore animale che c’è, dopo la donna…”

Davide “Birillo” Valsecchi

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