La roccia del versante Sud della Torre Manzoni, salita domenica scorsa con Mattia e Ruggero, è tale da rendere incredibile l’assenza di ascensioni precedenti. Per questo motivo ho ulteriormente investigato negli archivi storici se qualcuno ci avesse preceduto. Così ho contattato Gianni Mandelli, una delle più figure più autorevoli ed esperte nei territori dell’Isola Senza Nome. Gianni mi ha raccontato di aver percorso nel 1982 quella cresta, risalendo dal canale a Nord della Torre ed effettuando dei disgaggi per mettere in sicurezza la strada sottostante. All’epoca le nuove gallerie non esistevano ed una frana aveva causato la morte di uno sfortunato automobilista che vi si trovava a passare. In quell’occasione era intervenuto il Prefetto ed il Sindaco di Valmadrera aveva chiesto aiuto agli alpinisti locali per l’opera di bonifica.
Tuttavia la faccenda non mi era ancora chiara: perchè uno come Gianni, che è stato quasi ovunque sull’Isola, era stato da quelle parti solo un’unica volta nel corso degli anni? Alla mia domanda il buon Gianni, armato di grande pazienza, mi ha risposto come si fa ad uno che non conosce la storia di base : “Il motivo del perché nessuno è mai salito in quella zona è semplice: laggiù è successo di tutto. Prima la raffineria, poi la frana, l’incendio, la successiva bonifica, poi una nuova frana nella zona bassa, un altro morto su una ruspa e per finire l’interdizione dell’area perché zona di collaudo dei motoscafi della finanza.” In effetti tutta la faccenda era un inedita scoperta per me, all’epoca degli accadimenti infatti avevo sei anni e vivevo sull’altro lato dell’Isola, sul versante Nord della Vallassina. Non c’era modo di conoscere questa storia. Tuttavia spesso è sorprendente quello che gli “anziani”, nel senso più rispettoso e tribale del termine, danno per scontato e che invece i giovani ignorano completamente: la memoria è un patrimonio da tutelare e tramandare.
Ora tutta quella zona è pressoché abbandonata, tuttavia volevo saperne di più. Quindi ho iniziato una piccola nuova ricerca storica, aiutato in modo provvidenziale anche del Guerra. Il mio omonimo mi ha infatti diretto su una pagina FaceBook dove trovare molte delle informazioni che cercavo: LeccoDiUnaVolta.
Qui ho trovato immagini d’epoca ma anche un breve riassunto della storia dell’Ilsea, della frana, della galleria e, purtroppo, dei morti che ci sono stati. Il testo è di Ebe Buzzi.
La raffineria ILSEA (Industria leganti stradali e affini) venne fondata dopo la seconda guerra mondiale, nel 1948, da un gruppo di soci: Ugo Ratti, Piero Biacco e Carlo Boatti. Questi rilevano tutta la zona di terreno tra la montagna e il lago, dove allora sorgeva soltanto una vecchia fornace di calce. Inizialmente la raffineria occupa un limitato spazio di terreno, tra la strada statale per Bellagio ed il lago: le sue prime cisterne per il greggio sono i rimorchi dei camion Dodge, comprati come residuati bellici. La raffineria all’inizio arriva a stento a processare 100 quintali di greggio ma ben presto inizia a crescere e ad occupare tutto lo spazio disponibile, arrivando a ridosso della montagna. Nonostante la strada stretta e dissestata, da cui passavano anche 200 autotreni al giorno prima della costruzione dell’oleodotto, l’azienda fiorisce. Nel 1964, all’apice della sua crescita, l’ILSEA viene collegata all’oleodotto che da Genova arriva fino a Ingolstadt, in Germania. La lunghezza dell’oleodotto era tale che il primo carico che lo attraversò, oltre 30.000 litri di greggio indirizzati proprio all’ILSEA, servirono a malapena a riempire l’oleodotto stesso! Durante gli anni ‘70 però l’azienda entra in crisi. Le crisi del petrolio si succedono e il prezzo del greggio si decuplica in appena dieci anni. Boatti si trova ad essere unico proprietario di un’azienda in crescente perdita. Alla fine del decennio l’ILSEA è spesso in cassa integrazione e le cose sembrano andare sempre peggio: il greggio scarseggia e procurarselo, anche a costi elevatissimi, diventa sempre più difficile, mentre le tasse mangiano i già scarsi ricavi. Nonostante la situazione ormai agonizzante, la fine della ILSEA è improvvisa e tragica: un incendio scoppia attorno alle 21.00 del 26 settembre 1981. Le cause non furono mai chiarite, probabilmente si trattò di un problema interno, forse un cortocircuito. Nell’incendio del 26 settembre persero la vita due lavoratori, Giacomo Corti e Roberto Dell’Oro, di soli 20 anni: il fuoco divampò per tutta la notte e si estese a tutti i serbatoi, inclusi quelli a ridosso della montagna, nonostante gli sforzi dei Vigili del Fuoco. La strada viene chiusa immediatamente, mentre alla fabbrica viene dato ordine dal Comune di svuotare e smantellare i serbatoi e di rimuovere tutto il materiale infiammabile. I serbatoi sono molti e il fabbro impiega diversi mesi a rimuoverli completamente. La strada, ormai tornata sicura, viene riaperta nel maggio dell’anno successivo.
Ma la vicenda della strada per Bellagio si complica: poco prima dell’incendio, il 18 luglio 1981 uno smottamento provoca la caduta di alcuni sassi e la morte di un uomo, schiacciato nella sua auto. La strada rimane quindi chiusa per alcuni giorni e in seguito si decide di fornire maggior protezione ai veicoli che la percorrono. L’ANAS sceglie di costruire un’ “avan-galleria” che ripari da eventuali frane il tratto di strada immediatamente accanto all’ILSEA. I lavori sono interrotti in seguito all’incendio del 26 settembre, ma già in ottobre il costruttore, Paride Cariboni, ottiene una deroga e può continuare a lavorare, sebbene la strada resti ufficialmente chiusa al traffico. Quando la galleria è ormai quasi pronta per essere inaugurata l’impresa Pensa, che sta lavorando sul sito, si accorge che qualcosa sul monte non va. Ci sono scosse e smottamenti che lasciano presagire un’altra frana e la strada viene chiusa, il 18 gennaio 1983. Appena in tempo: dopo pochissimi giorni c’è un enorme crollo nel tratto antistante la galleria, che blocca ogni possibile accesso. Cosa era successo? L’eredità dell’incendio dell’ILSEA si era infine fatta sentire: la montagna calcarea, formata al 90% da carbonato di calcio, era stata “cotta” dalle fiamme dell’incendio e successivamente allagata dagli acquazzoni dell’autunno. Quello che si produsse fu qualcosa di molto simile alla calce viva: la pietra si sciolse con grandissima facilità, e franò rovinosamente a valle. Sebbene non vi fossero state vittime, la frana sommerse quel poco che restava della raffineria, inclusi i materiali che durante lo smantellamento era stato possibile recuperare ed erano pronti per essere riciclati.