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Purple Trail

Purple Trail

“Infine, il Vallone delle Moregge, la cui testata appartiene a Valbrona. Questo vallone, estremamente selvaggio e suggestivo, costituisce un’area wilderness che ha pochi confronti nella provincia, e meriterebbe senz’altro di essere tutelata e valorizzata con l’istituzione di una riserva naturale” Questo è ciò che è riportato nell’Isola Senza Nome sulla Valle. Io ricordo di esserci stato per la prima volta in vita mia con mio padre, quando ero adolescente se non addirittura più giovane. Eravamo andati a vedere i mufloni e, se non ricordo male, avevamo iniziato la nostra salita davanti al Nautilus, lungo quella rampa, oggi chiusa, che rimonta la galleria. Quasi sicuramente oggi ne so più di mio padre sul Moregallo ma, forse grazie a lui, persiste in me quella strana sensazione di mistero ed ignoto che caratterizza ogni mia ricerca in quella zona. Ho già raccolto un sacco di pezzi ma il mosaico è ancora troppo ampio perchè bastini. La nuova cava, come quasi tutte le cave sul Moregallo, è una piccola ma significativa “rottura di palle”: oltre a saccheggiare la montagna – per due spicci mal resi alla comunità – impone “zone interdette” dotate di telecamere ed intimidatori cartelli. Purtroppo il Moregallo appartiene principalmente a Mandello che, dall’altro lato del lago, da una Provincia diversa, pregno d’orgoglio per le più blasonate Grigne, sembra più interessato a “venderlo” che a comprenderlo. Quindi per accedere alla valle dal basso è necessario innanzitutto districarsi tra i divieti, i cancelli e le gallerie chiuse. Sul versante Est le Cave hanno avuto la forza di “spostare” itinerari storici come il 50° OSA, alzare palizzate, offuscare e distrarre lo sguardo. Ritrovare i vecchi sentieri e condurre persone nella valle, in modo consapevole e rispettoso, è il mio modo di “tracciare una linea sulla sabbia”. Così ho parcheggiato il Subaru ed iniziato una nuova salita. Trovo il passaggio ed un sentiero che, contro ogni previsione, è ben tenuto nonostante non vi siano segni o cartelli. Anonimo, sebbene qualcuno si sia preso la briga di scavare grandini per i passaggi più scivolosi. La traccia si alza e poi si ricongiunge con un camminamento più ampio e probabilmente più antico. Risale nello spazio di montagna tra il fiume principale – che sulle carte è chiamato semplicemente “Fiume” – ed un torrente secondario che lambisce il fianco sinistro della cava. Poi però è presto chiaro perchè il sentiero sia ben tenuto: qualche operoso fortunato possiede una bella e ben curata baitella, abbarbicata in un angolo decisamente bucolico. Purtroppo per me dal baitello in avanti il sentiero smette di essere ben curato e torna ad essere una “ombra” tra il paglione e le foglie. Tenendomi sulla cresta risalgo ancora. Un tempo quella traccia doveva essere ben battuta, ora invece è quasi scomparsa inghiottita dal bosco. Solo il passaggio degli animali, ora padroni della zona, ne conserva memoria. Più avanti trovo una sorgente d’acqua: è ormai abbandonata da tempo ed i cinghiali l’hanno ridotta ad una pozza che zampilla tra il fango ai piedi di una pianta. A qualche metro c’è però il rudere di una casotta, a conferma della passata antropizzazione della fonte. Tutta la zona è “arata” pesantemente dai cinghiali. Una traccia evidente di passaggio punta verso nord a mezza costa, probabilmente dirgendosi verso la “Baita del Buschet”. Io punto verso l’alto con l’intenzione di intercettare il sentiero che da Oneda traversa per poi scendere nell’orrido. Raggiunto il sentiero faccio tappa, nuovamente, al misterioso albero di natale nel bosco. Questa volta però ho qualche informazione in più, che vi racconterò più avanti.

Per la discesa, invece, ho prima raggiunto il cancello della “Baita del Buschet” per poi, come si usa dire, “tirare giù dritto per dritto”. Il piano era provare ad intercettare qualche sentiero sconosciuto o qualche passata presenza umana. In realtà non ho trovato nulla di simile e mi sono “infilato” in una zona davvero complessa e di difficile lettura. Il bosco, coperto di foglie, è molto ripido e ci sono numerose piante abbattute. Non ci sono, così come mi aspettavo, salti rocciosi, ma sono i torrenti della zona a creare non poche difficoltà. Al momento la maggior parte dei torrenti è praticamente in secca, tuttavia la loro conformazione è molto singolare. Tutta la zona è geologicamente un susseguirsi di strati inclinati di calcare, i torrenti si sono formati erodendo i punti di contatto tra questi piani. Per cui sono molto ripidi e scorrono su un fondo che, essendo la “pagina superiore” di uno strato calcareo, praticamente è lastricato. Uno scivolo di roccia a “V” che punta verso il basso creando “bordi” spesso alti anche quattro o cinque metri. Non puoi quindi “entrare” nel torrente, nè percorrerlo nè attraversarlo. Puoi passare solo in alcuni punti ma per individuarlo spesso devi smettere di guardare il torrente e studiare le tracce degli animali (che conoscono tutti i passaggi). Anche così richiede molta dimestichezza e qualche malizia per evitare di mettersi nei guai. Più in basso la situazione diventa ancora più complessa perché oltre ai “torrenti lastricati” si aggiungono “stream” nella terra. Spiego e descrivo, anche io non avevo mai visto una cosa simile. La quantità di acqua che scende a valle crea dei canali nella terra. Fin qui nulla di strano, il problema è che questi canali sono corridoi a “V” alti anche quattro o cinque metri (caderci dentro è un lampo, entrarci invece è molto complicato). Come se non bastasse questi “stream” spesso si incontrano ma non si fondono immediatamente, creano invece “creste” di terra. Per riuscire a cavarmi d’impiccio ho dovuto percorrere alcune di queste creste seguendo l’esempio ed il passaggio degli animali (questo per darvi l’idea delle dimensioni). Ho provato a fare delle foto ma non rendono assolutamente l’idea: sembrano i solchi lasciati da vermi giganteschi – stile “tremors” – che si aggrovigliano e serpeggiano tra loro. La forza dell’acqua che si accumula in quegli stream negli oltre 400 metri di dislivello è evidente ed inquietante: non sono il prodotto di un erosione lenta e costante quanto il risultato, rapido e dirompente, di nubifragi violenti. Non è infatti un caso che, quando finalmente sono riuscito a raggiungere la statale, sia sbucando esattamente dove quest’inverno è “franato” costringendo la chiusura della strada. Quegli “stream”, oggi asciutti, devono essere decisamente spaventosi quando piove forte. Non c’è paragone tra la loro portata e le dimensioni degli “sfoghi” sul lago. Quando è caduta l’ultima frana, stando a quanto riportato dai giornali, la Provincia impose al proprietario del terreno l’onere di liberare la strada. C’è infatti una vecchia casetta abbandonata ed un baitello per le pecore. Tuttavia appare una follia che un privato, con un pezzo di terra a bordo lago, metta in sicurezza questi stream che partono – minimo – duecento metri di quota più in alto. Qualsiasi cosa faccia a valle può solo “incattivire” ciò che scende a monte. Mettetevi il cuore in pace: la strada sarà chiusa di nuovo e converrà fare attenzione passando in quel punto con la pioggia forte.

Il Mistero dell’Albero di Natale nel Bosco.

Domenica scorsa ero al Castel di Leves e, con un po’ di sorpresa, ho incontrato un piccolo gruppo di ragazzi che saliva come me da Onno. Ciò che mi ha colpito è quanto hanno fatto una volta in cima: armati di gps hanno perlustrato le roccette sommitali e, nascosto in un piccolo anfratto, hanno trovato una piccola scatoletta gialla. Visto che uno di loro mi conosceva attraverso i racconti del Blog (“ma tu sei Davide Valsecchi? Birillo?”) abbiamo attaccato bottone e mi ha spiegato meglio il “GeoCaching”, la curiosa caccia al tesoro in cui i partecipanti usano un ricevitore GPS per nascondere o trovare dei contenitori di differenti tipi e dimensioni. Questi contenitori sono chiamati “geocache” o più semplicemente “cache”. Esistono poi siti web a cui registrarsi, punteggi, App per il cellulare, ecc… Visto che tempo fa avevo – inconsapevolmente – trovato una “cache” alle grotte del Sasso della Cassina mi hanno confidato che anche l’albero di natale nella valle delle Moregge è una geocache. Così, visto che ero in zona, sono andato a controllare e, in una belle palline, ho effettivamente trovato il “log”, il foglietto con le firme e le date dei ritrovamenti. In pratica, mio malgrado, credo di avere già segnato 2 punti, forse 3 se aggiungiamo quello del Castel di Leves. La mia opinione su tutta la faccenda è ancora abbastanza incerta. Vedere dei ragazzi che si sparano un migliaio di metri di dislivello per un gioco è sicuramente interessante. Infilarsi fuori sentiero nelle Moregge o sul Castel di Leves richiede poi attitudine ed una buona dose di competenze tecniche e fisiche. Non è una cosa da poco. Io lo faccio in cerca di “qualcosa di ignoto”, loro lo fanno con un obiettivo ben più preciso e sociale.  A rendermi dubbioso è tuttavia la competizione che, insita in ogni forma di gioco, può diventare pericolosa nel geocaching quanto lo è nell’alpinismo o nell’arrampicata. Anzi, il fatto che la faccenda non abbia velleità alpinistiche, e che quindi sia meno elitaria, rischia di creare pericolosi squilibri tra l’obiettivo ed il cercatore. Hai voglia a spiegare che il Soccorso Alpino abbia dovuto mobilitare una squadra di 20 soccorritori ed un elicottero per recuperarti perchè incrodato mentre davi la caccia alle scatolette nascoste. Il mondo “civile” in cui viviamo è spesso più spietato della montagna. Lo dico perchè spesso la mia situazione non è poi molto dissimile dalla loro e per questo vi ho riflettuto a lungo. Per il momento l’unica risposta valida è: “non devi sbagliare, mai. Si vis pacem para bellum”.  Ma non è facile, specialmente quando si è giovani, speecialmente quando si tratta di fare punti. Come ho detto la mia opinione su tutta la faccenda è ancora abbastanza incerta, però in qualche modo mi intriga e mi spinge a saperne di più. Non mi interessa tanto cercare scatolette e pupazzetti, quanto offrire alle persone che lo fanno – animate da un positivo ed ammirevole  entusiasmo – le giuste competenze per cavarsela. Non so, forse anche i “Tassi del Moregallo” formeranno una squadra e raccoglieranno punti pesanti (visto, la competizione è sempre in agguato!). Non so. Però un “Gotta catch ’em all!” sull’Isola Senza Nome potrebbe anche essere divertente.

Davide “Birillo” Valsecchi

Il Rosso ed il Blue

Il Rosso ed il Blue

Il titolo originale poteva essere “attraverso l’inferno”, ma sarebbe suonato un po’ troppo melodrammatico sebbene il fiume da attraversare si chiami realmente “Inferno”. Se i “vecchi” hanno dato un nome simile ad un fiume c’è un perchè e, arrivandoci vicino, non si può dargli torto. L’Inferno è infatti un torrente secondario della “Valle delle Moregge”, o anche della “Valle del Fiume” come riportato su alcune mappe. L’Inferno corre parallelo alla parte finale del torrente che separa il Moregallo dai Corni di Canzo. Un torrente impervio che forma profonde forre e salti rocciosi in una zona tra le più selvagge di tutta l’Isola. In quella valle le due montagne, come giganteschi guerrieri di roccia, si fronteggiano silenziosamente dando ampia mostra della propria natura più selvaggia. L’ultima volta che ho fatto canyoning in quella zona era l’estate del 2013 (qui qualche foto: Moregallo Canyoning) e tra gli articoli di Cima potete trovare diverse esplorazioni condotte in quella zona. Il tempo, qualcuno dirà l’età, cambia il nostro punto di vista e questo trasforma radicalmente ciò che crediamo di conoscere. In quest’ultimo periodo, con occhi nuovi, sto “riesplorando” quella zona: non più un tuffo nell’ignoto, ma una ricerca più metodica ed attenta tanto dell’ambiente quanto della sua storia. Cercando un collegamento percorribile tra “Caprante ed il Rapanui” ho iniziato ad individuare e  censire i vecchi sentieri abbandonati o quasi dimenticati. Quelli che seguono sono quindi gli appunti due giorni di ricerca.

Blue: Il senso del Paglione per la neve.

Sabato nevicava, poco ma anche in riva al lago. Più in alto invece la neve cominciava ad appoggiarsi sui pendii, complice il freddo becco che in spiaggia segnava “meno uno”. Mollata la Subaru da Carla e Beppe ho iniziato a risalire il Sentiero del 50° Osa. Sotto la parete nord, ad una decina di metri dal sentiero due mufloni femmina mi osservavano immobili tra i fiocchi di neve. Il loro sguardo animale comunicava in modo evidente il messaggio: “Senti, mettiamo d’accordo. Nevica e fa troppo freddo per correre. Noi rimaniamo ferme e tu te ne vai per la tua strada”. Il freddo era tale che la macchina fotografica non voleva saperne di accendersi ed ho cercato di fare il possibile con il cellulare. Loro, di parola, non si mosse minimamente! Superata la parete e la sommità della cava ho puntato verso nord lungo un sentiero in buona misura nascosto dal paglione innevato. La traccia è appena visibile ma lungo il percorso sbiaditi bolli rossi rimarcano il passaggio ormai abbandonato. La vecchia galleria, oggi chiusa, prende il nome di Melgone. La galleria dovrebbe essere del 1926, dalle sue “finestre” un tempo gettavano in acqua le auto rubate. Oggi su quelle pareti c’è una falesia AsenPark (…cambiano le epoche ma la frequentazione rimane pessima hehhe). Al di sopra di questa parete c’è un ampio spazio boschivo quasi pianeggiante. Un vecchio sentiero, sfruttando una vecchia scala in sassi  ed un’inquietante ponticello in cemento abbandonato a se stesso da decenni, sale dal lago fornendo l’accesso alla zona. Probabilmente in passato era l’accesso di servizio per la manutenzione dei pali telefonici e della corrente posizionati nella zona, oggi abbattuti ma ancora visibili. Il fiume Inferno taglia in due questa zona e forma, sempre nel bosco, bastionate rocciose alte una ventina di metri. Una traccia a bolli gialli porta ad un primo rudere, con annessa piccola fonte, risalendo poi ad una seconda casetta, sempre abbandonata ma in condizioni migliori. Il “sentiero giallo” risale poi sul fianco del Moregallo lungo la valle delle Moregge fino a raggiungere la creta uscendo sulla cima. L’ho percorso diverse volte in passato ma non l’ho mai tracciato o pubblicato perchè ha dei passaggi sul paglione decisamente esposti e, nella parte alta, ci sono tutta una serie di varianti d’uscita tutte assolutamente da valutare (leggisi rognose). In questo caso però non mi interessava salire verso la cima del Moregallo dove, tra l’altro, c’era già una buona quantità di neve oltre a quella che stava gia candendo! No il mio obiettivo era individuare, dal lato sud dell’orrido, eventuali punti di passaggio verso l’altra sponda. Quella zona è però molto più ampia ed articolata di quanto ci si possa aspettare. Oltre all’abisso creato dall’orrido ci sono diversi livelli che si intersecano con pareti e canali secondari. Ad un primo studio è quasi impossibile attraversare l’orrido. Le pareti sono troppo alte o complicate. Ci sono tracce di animali che scendono ma non ero disposto ad avventurarmi in discesa sul paglione coperto di neve. Più a monte invece, cercando di intercettare il sentiero che sull’altro lato scende da Oneda fino al fiume, le possibilità erano decisamente migliori. “Soldato che fugge combatte un altro giorno”: visto che non smetteva di nevicare, che il paglione era pericoloso e la visibilità scarsa, ho mollato il colpo e sono tornato al subarone passando dalla galleria (da qui lo strano excursus in pieno lago del GPS). 

Rosso: La Volpe e la Bella Donna.

Dopo aver provato da Sud non restava che riprovare da Nord. Visto la giornata di sole ho parcheggiato il Subaru appena sopra la prima stanga di Oneda e mi sono addentrato nei selvaggi territori della valle delle Moregge. Il sentiero che porta al fiume è esattamente inquietante come lo ricordavo. Paglione e roccia friabile slavata dal passaggio dell’acqua: al mix questa volta dovevo aggiungere ghiaccio e nevischio. Potevo gestire la situazione, tuttavia è evidente che quel sentiero sia decisamente sconsigliabile ai più, specie in discesa dove i passaggi obbligati ti forzano nel vuoto di salti ragguardevoli. Nota bene: il paglione ghiacciato ha i suoi difetti ma tiene più di quello bagnato: quindi in primavera o in estate la situazione non migliora. Una volta giunto sul fiume ho iniziato a cercare eventuali passaggi che mi permettessero di raggiungere il “sentiero giallo” sull’altro lato. La ricerca si è subito dimostrata fruttuosa. Il passaggio degli animali è stato il primo indizio. Poi su una pianta ho trovato uno sbiadito nastrino colorato (un trucchetto che usano molti di coloro che, come me, esplorano vecchi sentieri). Poi, finalmente, su un sasso la conferma in un pallido bollo rosso. Scendere dal sentiero giallo è abbastanza fattibile, un EE severo ma giusto. Risalire verso Oneda è invece qualcosa di più di un EE. In salita le difficoltà risultano più gestibili ma il pericolo di grandi e terribili cadute rimane immutato.  Il collegamento “caprante – rapanui” quindi esiste, ma quello fin qui trovato richiede di salite fino ad Oneda, scendere al fiume lungo un percorso piuttosto agghiacciante, risalire fin sopra il Melgone prima di raggiungere la base della parte Nord e ridiscendere al Rapanui. Un’escursione affascinante quanto impegnativa, non certo il percorso ideale per andare a bersi una birra in spiaggia tirandosi dietro le nanerottole… La mia “missione” è quindi ancora incompiuta. Visto che avevo ancora tempo ho pensato di farmi un giro più a monte, cercando di spingermi al di sotto l’affascinante muraglia del Ceppo della Bella Donna. Qui dapprima mi sono imbattuto in un inaspettato “albero di natale”, addobbato di palline, stelline e pupazzetti, sulla sommità di un precipizio decisamente “fuori dal mondo”. Poi, intercettato un’altro vecchio sentiero, ho iniziato a risalire sulle pendici occidentali dei Corni di Canzo. Qui ho dapprima incontrato le orme di una volpe sulla neve. Poi, più avanti, mi sono imbattuto anche nella sua impellicciata autrice. La vista sulle Valle delle Moregge, incrostata dall’ultima neve, è davvero suggestiva. La parte alta del sentiero, che non è segnato salvo qualche magro ometto di roccia, culmina su ripidi pendii erborsi ancora innevati. I canali hanno già scaricato, gli accumuli sono duri ma c’è ghiaccio ovunque. Inoltre nel cuore della valle, quasi sempre in ombra, fa decisamente freddo ed il vento dal lago non aiuta certo. Così, visto che non ero equipaggiato a dovere per guadagnare il passaggio verso l’innevata bocchetta di Moregge ( …dove a Gennaio si sprofondava nella neve fino ai fianchi e facceva un freddo dannato!! Vedi La tazza di Dumbo) ho fatto ritorno sui miei passi, felice di aver avuto successo nel collegare “rosso e blue”. Felice che la mia ricerca sia ancora piacevolmente incompleta.

Nota Bene: i sentieri qui riportati sono “abbondanati” da tempo. Non compaiono sulle mappe, non hanno segnaletica consistente, sono spesso in condizioni precarie o instabili. Percorrerli, allo stato attuale, significa praticare “archeologia acrobatica” più che escursionismo. Le indicazioni qui riportate hanno prevalentemente valore storico. Non infilatevi nei guai che da quelle parti sanno essere “grossi”….

Davide “Birillo” Valsecchi

Il Moregallo Slavina. Sempre.

Il Moregallo Slavina. Sempre.

Quella nella foto è il Canale dell’Indiano. La parte alta, quella finale, di uno dei grandi canali che scendono dal Moregallo verso il lago. Non so se sia veramente il suo nome, il lato orientale del Moregallo è povero di toponimi certi, io lo chiamo in questo modo perchè è un tratto si trova alle spalle di quel contrafforte roccioso, visibile lungo la cresta Est che sale da Preguda, presentato in una vecchia cartolina come “la faccia dell’indiano”. Su quella parete, infatti vi è un una sporgenza, un marcato tetto, che rassomiglia ad un “naso” conferendo a tutta la struttura la fisionomia di un profilo dai lineamenti marcati. Il sentiero non si avvicina nè attraversa mai il canale, tuttavia è possibile osservarlo dall’alto – sporgendosi con attenzione oltre il bordo della cresta – prima di giungere alla “Selletta degli Orfani”, l’intaglio roccioso a “V” che permette di scollinare l’anticima del Moregallo a quota 1170m. Il sentiero infatti scavalca e si abbassa sull’altro lato fino alla “Bocchetta di Sambrosera”, per poi risalire nel bosco fino alla pianeggiante cima del Moregallo (1276m). Che io sappia c’è solo una traccia, che ovviamente non è da considerarsi sentiero, che attraversa quel tratto finale del Canale dell’Indiano: il collegamento dal “Passaggio Zeta” alla Cresta Est. Collegamento che avviene più o meno all’altezza della palina per il sentiero “Paolo e Eliana”. Il passaggio Zeta è il “trucco finale” per emergere dal Sentiero del Casotto, una vecchissima linea di salita che inizia mille metri più sotto, sulle sponde del lago. Quello del Casotto è però un sentiero solo di nome, di fatto è una salita “alpinistica” sul paglione quasi verticale attraverso un labirinto di pareti e scogliere. Io fino ad oggi l’ho percorso solo tre volte ed è una salita che non ripeterei nè da solo nè alla leggera. Nella foto che ho deciso di mostrarvi si vede però qualcosa di molto interessante e che mi ha colpito quando, giorni fa, sono salito al Moregallo dopo l’abbondante nevicata di fine anno. Si vede infatti come, a metà del pendio, la neve abbia iniziato a scivolare sul paglione fiondandosi verso il basso dentro l’inghiottitoio del canale. Si vede bene l’erba schiacciata ed incrostata di neve che durante la slavina è diventata il piano di scivolamento. Certo, può sembrare una banalità parlare di come neve, paglione, forte pendenza uniti a quota bassa possano causare di slavine. Indubbiamente. Quello che però è difficile da comprendere è la quantità di neve che viene coinvolta da un fenomeno apparentemente ridotto, comprendere come questa neve diventi una “massa” dotata di una “forza” straordinariamente considerevole. Non è la “grande valanga”, quella spettacolare e terribile che tutti abbiamo in mente grazie a mille filmati, ma un “mix” di neve bagnata e grumosa che diviene una spinta spaventosa e violenta quando infilata a forza dalla gravità dentro un corridoio verticale. Il Canale dell’Indiano, come si è detto, è fuori da qualsiasi itinerario “turistico/escursionistico” tuttavia qualcosa di simile accade su tutto il versante Sud del Moregallo. Il crinale sulla destra orografica della parte finale della Valle Due Pile, per intenderci il pratone che divide la Crestina Osa dal sentiero che sale alla Bocchetta di Sambrosera, è anch’esso completamente slavinato in questi giorni. Dal Basso, da Valmadrera, non si vede nulla di quello che è accaduto. Fa invece abbastanza impressione osservare la faccenda dall’alto, soprattutto sapendo che il sentiero che risale dal fontanino di Sambrosera compie un lunghissimo traverso proprio sotto. Il versante, fortunatamente, è però molto ampio ed il movimento della slavina si disperde e si arresta sulle piante a monte del sentiero. Come per ogni diga resta comunque un gioco di equilibri. Ancora: fino a qualche giorno fa il sentiero della cresta Est era pressoché vergine. Quel sentiero è una salita lunga, con sviluppo e dislivello, “battersela” tutta è decisamente faticoso. Il sentiero della Cresta Ovest appariva invece ben visibile e battuto. Tipicamente è la salita più gettonata perchè sfruttata sia da chi proviene dalla SEV sia da chi risale il sentiero del bosco fino alla “Bocchetta di Moregge” (1108m). Si può seguire il filo di cresta – che in alcuni tratti è vertiginoso sulla valle delle Moregge – oppure si può seguire il sentiero che, a mezza costa, attraversa il grande imbuto ribaltato che è l’erboso tratto finale del Canalone Belasa e dei canali minori che lo circondano. L’altro giorno, appoggiato alla croce di vetta, solo in mezzo alla neve probabilmente in tutta la montagna, ho osservato dall’alto quella traccia e, senza gloria o troppi dubbi, ho deciso di scendere lungo il sentiero da cui ero salito, nuovamente verso Preguda. Certo, era intrigante l’idea di attraversare fino a Pianezzo e magari scendere dalla Forcellina dei Corni. Sarebbe stato sicuramente un bel giro ad anello, neppure troppo impegnativo. Tuttavia c’è un esperienza, che ovviamente intendo raccontarvi, che ha suggerito diversamente. Prima però una considerazione: nei 7 anni che ho trascorso a Valmadrera, sul versante Sud del Moregallo, questa è la prima volta che vedo così tanta neve, soprattutto in questo periodo. Normalmente, negli anni passati, si trascorreva Dicembre e Gennaio arrampicando sulla roccia: certo la mattina all’ombra faceva un freddo cane ma poi, quando nelle belle giornate usciva il sole, la situazione era assolutamente gestibile se non addirittura godibile. La neve, tipicamente, arrivava verso fine febbraio, marzo, inizi di Aprile: nevicava due giorni, a volte uno solo, e giusto una leggera spruzzata per dare un imbiancata, mai oltre i quindici/venti centimetri (una spanna). Spesso iniziava a nevicare la notte, finiva al mattino ed entro mezzogiorno era già tutto scomparso. Il versante sud è così. Quello nord invece è molto diverso, fa più freddo, c’è meno esposizione e la neve resiste più a lungo. Ricordo fantastiche e polverose giornate risalendo dalla Val Cerrina, a volte anche con gli sci. Sul versante Sud invece devi cogliere l’attimo effimero: in molti casi è sufficientemente bello, in altri è decisamente strano, a volte però persino inquietante! Quindi andiamo con la confessione: credo fosse il febbraio dello scorso anno, un venerdì sera inizia a nevicare e così, insieme a Ruggero, decido di mettere in piedi una “scampagnata” nella neve. Aveva nevicato davvero poco ma al mattino non c’era stata la consueta schiarita e la giornata era rimasta cupa ed umida. In cima al Moregallo forse ci saranno stati una decina di centimetri di neve, non di più, fino al fontanino di Sambrosera era però tutto sconsolatamente pulito. Così, visto che la “magia bianca” sembrava sfumata, ho pensato fosse più divertente risalire per il frizzante Canalone Belasa anzichè farsi la noiosa sfacchinata fino alla bocchetta: francamente una delle decisioni più stupide mi sia capitato di prendere! Per chi non lo sapesse il Belasa è un canalone roccioso, con alcuni salti anche importanti ma protetti da catene, che da Sambrosera risale verso la vetta fin quasi ad incrociare la Cretina OSA prima dei due tratti finali e del ponte di roccia. Ci si può sbizzarrire arrampicando qua e là ed in passato, durante le estati in cui ero decisamente meno pigro, lo percorrevo tutto prima di cena come dopo-lavoro. Il canale è però, fondamentalmente, un grosso intaglio tra due creste di roccia ed erba con una pendenza tra i 50 e 70 gradi di inclinazione. Sia chiaro, un pendio innevato, la cui inclinazione è superiore ai 30 gradi, è potenzialmente pericoloso, tuttavia quella mattina, nonostante avesse nevicato e la cima del Moregallo apparisse imbiancata, di neve ancora non ne avevamo vista… Solo giunto alla base di Pilastri si è mostrata, ma era sui cinque centimetri, dieci al massimo. L’unico impiccio che sembrava causare era quello di dover pulire le prese giocando sulle rocce del canale: nessun pericolo percepito o percepibile. Dopo aver superato i Pilastri la faccenda è però decisamente cambiata: forse non aveva nevicato molto, ma tutta la neve che era caduta sembrava intenzionata a scendere nel canale! La neve, che era diventata fradicia e pesante, era anche notevolmente aumentata ammassandosi: quando ti serviva una presa dovevi iniziare a scavare. I salti più alti non erano un problema, erano praticamente puliti, erano tutti gli altri passaggi “minori” ad essere diventati complicati. Oltre a questo il vero e concreto problema erano le slavine! Le più grosse erano fortunatamente già scese, partite da altezza impensabili sopra il canale erano piombate verso il basso tirandosi dietro una quantità di neve spropositata per la nevicata che era stata. Dei piccoli mostri che rendevano impossibile non percepire l’instabilità diffusa del momento: era come se una pioggerellina avesse creato un alluvione raccogliendo acqua in ogni dove. Intendiamoci, la mia ansia non era certo quello di finire sepolto dalla neve, il problema è che se una di quelle cose ti centra ti butta di sotto e rischi di farti seriamente male anche senza passar giù dai salti più grossi. Lì per lì avrei dovuto girare i tacchi e tornarmene indietro (e sarebbero stati zero problemi), tuttavia l’istinto è stato quello di portarsi a monte del problema (ma è stata una puttanata). Così abbiamo continuato: la neve è diventata sempre peggio, siamo diventati sempre più lenti, traversare in alto per tirarsi fuori passando sopra i canali è stato piuttosto agghiacciante. Quindi sì: neve, paglione, forte pendenza, quota bassa, esposizione a sud ed influsso del lago sono un mix decisamente sconsigliato, anche con quantità apparentemente ridicole di neve! La cosa ancora più ironica è che solo 24 ore più tardi la neve era completamente sparita: noi eravamo proverbialmente nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Quindi no, e lo scrivo più per me che per voi, i canali del Moregallo non sono fattibili in inverno con la neve. Hanno tutti un imbuto erboso sulla sommità e caratteristiche climatiche che rendono impossibile – più che effimere – le giuste condizioni. Sul versante Nord-Ovest ci sono per lo meno tre canali con salite alpinistiche (Masciadri, Mandelli, Ricci), ma tutta quella zona è decisamente un altro capitolo, non meno agghiacciante e con caratteristiche ben specifiche. L’altro giorno mi sarebbe piaciuto avere con me il picozzino che avevo preparato ma poi pigramente lasciato a casa. Oggi, ripensandoci, è stato meglio così: perchè se te lo tiri dietro finisci per usarlo e la lezione di fondo, almeno per me, è che le picche al Moregallo è meglio usarle sull’Erba che sulla neve! Per quanto mi riguarda – e per l’esperienza fatta – “inseguire la bianca” da quelle parti è una pessima pensata. Se c’è neve sul Moregallo salgo dalla Cresta Ovest (se ho abbastanza benzina e voglia per batterla tutta!). Oppure posso fare la cresta Est, evitando il sentiero e scendendo poi verso Preguda (bel giro ad anello fatto più volte a fine inverno). Se però dopo la nevicata c’è stata una bella schiarita e vento da Nord devo fare attenzione al ghiaccio nei passaggi più esposti sul limite della cresta. Se il limite della neve è sopra la parete Nord allora posso anche salire dal sentiero del 25° OSA: è una bella sgambata ma piacevole se non ci si perde. Purtroppo non ho mai visto la neve più in basso e, nei traversi sopra la cava, non ho idea cosa possa cambiare. Diversamente, per evitare guai, conviene andare ai Corni dove la neve ha un suo ciclo vitale indubbiamente breve ma comprensibile. Conviene tornare al Moregallo solo quando la neve se ne è andata e questo, contrariamente a quanto avviene adesso, normalmente richiede di pazientare giusto 12/24 ore…

Davide “Birillo” Valsecchi

“… i vecchi iniziano a dare buoni consigli quando non possono più dare il cattivo esempio” (Cit.)

  • Canalone Belasa Febbraio 2019

  • Dalla Cima del Moregallo 2021

  • Canali Orientali Moregallo

Duemila e Ventuno

Duemila e Ventuno

C’era una volta un uomo ridotto in estrema miseria. Era un devoto del patriarca taoista Lu Dong-pin e lo pregava con grande fervore; così il santo scese sulla terra per aiutarlo. Arrivato a casa sua e visto che era senza alcuna risorsa decise di aiutarlo. Il santo puntò il dito su una pietra che era nel cortile e quella si trasformò subito in oro splendente. «Vuoi quell’oro?» chiese il santo al povero. L’uomo fece un profondo inchino e rispose: «No, non lo voglio». Il santo taoista era tutto contento e disse: «Se tu sei così sono pronto a insegnarti la grande dottrina del Dao». L’uomo disse: «No, quello che voglio davvero è il tuo dito».

Vertigo2019

Vertigo2019

Hai schiodato? Certo: tutto! Quando me lo dice è ancora incerto, forse dubita della mia reazione, ma è solo un sorriso compiaciuto quello che spunta sul mio viso: “2 words, 1 finger”. Sono abbastanza lieto di annunciare che tutte le vie aperte dai Badger negli ultimi anni sul Moregallo sono state schiodate …da noi! Ce la cantiamo e ce la suoniamo tra noi, mentre fuori il mondo si fa disperatamente i cazzi suoi. L’arrampicata è ormai svenduta “prêt-à-porter”, quindi da noi abbiamo tolto dalle nostre vie persino i pochi “stacchetti” che erano stati lasciati. Qualcuno, comprendendone il senso, apprezzerà la cosa. Gli altri avranno solo un ulteriore motivo per tenersi adeguatamente alla larga.

Detto questo non resta che fare l’annuale resoconto delle attività svolte nella “Moregallo Natural Climbing Area”, riserva indiana di un’ analogica tribù cannibale. Quest’anno non sono stato particolarmente in forma ed ahimè ho dovuto passare spesso la mano ad alcune salite del gruppo. Tuttavia, nonostante tutto, nonostante sia apparentemente un anno alpinisticamente magro – ma fortunatamente solo per me – si è fatto comunque significativamente molto, sia nella Valle due Pile che nei settori Orientali del Moregallo. 

Pilastro Charlie Patton

Siebenundfünfzig

La Fessura dell’Albero

Canale Nord

Normale Torre Manzoni

Kora del Moregallo

Kora del Moregallo

“Hey capo dove andiamo questo sabato?” Nicola, da quando Bruna è di nuovo incinta, è diventato la mia guardia del corpo e mi accompagna ormai da mesi a “batter passi” in montagna. Io e lui andiamo d’accordo e Bruna è più tranquilla perchè, quando sono con lui, evito di infilarmi volontariamente nei guai. “Senti Niky, ti andrebbe di fare un giro al Moregallo? Niente di complicato, ma sento il bisogno di fare due passi lassù”.

Negli ultimi dieci giorni la naturale solitudine del Moregallo è stata scossa dall’inquietudine. Ora che è tornata la quiete, ora che è di nuovo silenzio, volevo salirci per riflettere con calma: lo scorso Lunedì, a metà Ottobre, un ragazzo nativo di Trieste si è avventurato sul versante Orientale, purtroppo senza fare più ritorno. Quando sono iniziate le ricerche non ho potuto ignorare la cosa. I tecnici del Soccorso Alpino del Triangolo Lariano, impegnati in quelle zone tanto impervie e difficili, sono miei amici, spesso da decenni. Conosco quei luoghi ed parte i parte dei suoi segreti come pochi altri: negli anni ho raccolto foto, rilievi ed informazioni che era prioritario condividere con i soccorsi. Esplorando le scelte di una persona finisci per conoscerla: più cose scoprivo su questo ragazzo, più sentivo crescere l’affinità nei suoi confronti. Per questo, nonostante io sia un “civile”, ho avuto la possibilità di collaborare nell’imponente attività di ricerca – probabilmente senza precedenti sul Moregallo – condotta dal Soccorso Alpino, dai Vigili del Fuoco e dalla Guardia di Finanza. Certamente non è questo il momento o lo spazio per scendere nei dettagli, ma non posso che provare rispetto per questo ragazzo ed il suo romantico proposito di realizzare una nuova linea di salita in quel versante quasi inesplorato. Allo stesso modo non posso che esprimere stima e gratitudine a tutti i tecnici che hanno permesso di ritrovare questo ragazzo, di ricostruire, per quanto possibile, la difficile e tragica salita che con coraggio aveva intrapreso. Una storia importante, che andrà compresa e ricordata. Ma, come ho già detto, non è questo il momento o il luogo.

«Il mare non fa mai doni, se non duri colpi, e, qualche volta, un’occasione di sentirsi forti. Ora io non so molto del mare, ma so che qui è così. E quanto importi nella vita, non già di esser forti, ma di sentirsi forti, di essersi misurati almeno una volta, di essersi trovati almeno una volta nella condizione umana più antica, soli davanti alla pietra cieca e sorda, senza altri aiuti che le proprie mani e la propria testa.» Primo Levi – Carne dell’orso

Nel 2015, nel canalone che si innalza tra le due gallerie, è stata ritrovata una lapide infissa sulla base della parete che si impenna sul versante sud di quell inquietante canale. La lapide commemora due ventenni, uno originario di Trieste ed uno di Udine, che il 23 Settembre del 1931 persero la vita tentando la salita di quella parete che, a distanza di quasi 90 anni, resta tutt’oggi inviolata. Per la maggior parte degli “indigeni” il Moregallo è una montagna che “non piace”, tuttavia credo che i Friulani provino un’istintiva ed irresistibile attrazione per quelle pareti inviolate, spesso buie e coperte di vegetazione, che precipitano nell’azzurro del lago. Forse non è un caso che l’alpinismo del territorio lecchese, blasonato oggi nel mondo, abbia avuto origine soprattutto grazie all’intraprendenza ed allo slancio verso l’ignoto di un giovane ragazzo friulano. Un ragazzo di nome Riccardo che si era trasferito qui giovanissimo, proprio in cerca di lavoro.

Il Moregallo, nei suoi 1200 metri di altitudine, è una montagna forse piccola ma labirintica, selvaggia e ribelle nei suoi mille metri pieni di prominenza sul livello del lago. La sua natura cambia, senza mai addolcirsi troppo, nei suoi tre versanti. Quello a Sud è soleggiato, il bosco lambisce torri, pilastri, guglie e creste che raramente si innalzano oltre i cinquanta metri ma che sono quasi sempre verticali quando non strapiombanti. Questo versante è quello relativamente più antropizzato, l’unico dei tre che offre numerosi sentieri d’accesso adatti anche agli escursionisti. E’ qui che si innalza la famosa Cresta GG.OSA, aerea linea di roccia su cui si sviluppa l’omonima e celebre via d’arrampicata. Il lato Nord è invece caratterizzato dalla buia Valle Inferno che, con le sue forre, si abbatte verso il lago. Un luogo in cui i sentieri sono scarsi, quasi mai segnati. Una valle frequentata per lo più da esperti di Canyoning e che concede poco o nessuno spazio all’escursionismo. Il Versante Orientale è invece la “frontiera”, probabilmente uno dei luoghi più misteriosi, sconosciuti ed ostili sia del Triangolo Lariano sia del Lecchese. Uno spazio che si estende per oltre quattro chilometri di costa innalzandosi per mille metri, uno spazio ampissimo che offre un solo ed unico sentiero ufficiale in grado di raggiungere la vetta dal lago: il 50°OSA. Oltre a questo sentiero solo due tracciati – storici, impervi, dimenticati e pericolosi – solcano il versante: il Sentiero del Costone ed il Sentiero della Teleferica. Il resto è un labirinto di canali e grandi pareti circondate da prati verticali ed affioramenti rocciosi. La Parete Nord, la Parete del Tempo Perduto, il Corno di Braga, lo Scoglio dei Giardini di Maggio: strutture imponenti, spesso tenebrose, su cui sono state tracciate temibili e temute vie d’arrampicata. Ma nonostante l’esplorazione ci sono ancora pareti, spesso impressionanti, che non hanno nè un nome nè vie. Pareti che richiedono significativo sforzo alpinistico solo per per poterne raggiungere la base. Esistono cenge e terrazzi in cui nessuno ha mai messo piede, e forse nessuno giungerà mai. Questo è il versante in cui il ragazzo di Trieste ha tentato la sua salita.

«Non importa quanto stretta sia la porta, quanto impietosa sia la vita. Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.» Invictus – William Ernest Henley.

Il Moregallo inizia appena oltre il mio cancello di casa. Nei miei ricordi si affollano gli istanti di intensa ed incerta solitudine vissuti in quegli sconfinati spazi verticali. Spazi in cui alpinismo ed arrampicata perdono importanza, spazi in cui tutto si riduce ad un cuore che respira in un labirinto verde a strapiombo sull’azzurro del lago. Oggi, oggi che sono diventato padre, non ho più la forza mentale o la volontà necessaria per sostenere da solo tali difficoltà o incertezze. Una strana commozione, quasi  nostalgica, permea il ricordo, fuori dal tempo, di quegli istanti di vita lassù. Ora io non ho critiche per questo ragazzo, il senno di poi non ha mai affrontato il Moregallo con la sua stessa determinazione. Il senno di poi non è mai giunto dove è giunto lui solo. Avrei voluto conoscerlo, dargli qualche dritta, ascoltare la sua storia al suo ritorno. Avremmo potuto essere amici.

«Kora è una parola della lingua tibetana che significa “circumambulazione” o “rivoluzione”. Per Kora si intende il pellegrinaggio meditativo nelle tradizioni del Buddhismo tibetano e del Bön. Il praticante esegue un Kora facendo una circumambulazione intorno a un sito o un oggetto sacro»

Ci sono cose in cui non sono affatto bravo. Nonostante l’età ed i lutti non sono in grado di gestire, nemmeno con le parole, il grande mistero che attende tutti noi. Funerali, commemorazioni, condoglianze: niente di tutto questo mi riesce bene. Tuttavia credo ci sia qualcosa di profondamente umano nel rito, spesso personale, con cui dobbiamo sforzarci di lasciar andare i caduti. Così, accompagnato da Nicola, sono sceso in spiaggia ed ho infilato in tasca un piccolo ciotolo prima di salire lungo il 50° Osa. Il Moregallo ha infatti un’ultima caratteristica che lo rende una montagna speciale: i suoi versanti sono selvaggi, spesso brutali, mentre la sua cima, erbosa e piana, è un luogo permeato da un’irreale senso di pace. Quando il cielo grigio d’autunno si confonde con il silenzio solitario, con il vento del lago, si possono osservare le Grigne, l’arco alpino svizzero, la grande parete Est del Monte Rosa, il lontano Monviso. Ci si può sdraiare sull’erba e lasciare che tutti gli affanni umani, che vibrano nella sottostante pianura che porta a Milano, scompaiano in una quiete immobile e trascendente. Lassù, sul limite degli alberi, vicino alla piccola madonnina che sorveglia la valle, ho portato dalla spiaggia quel piccolo ciotolo: compensazione per quella “cima” che è tristemente mancata.

Questo è quello che posso raccontarvi sul Moregallo. So che Matteo, questo è il nome del ragazzo di Trieste, provava ammirazione per un grande alpinista del passato. Credo sia giusto chiudere questo piccolo racconto, che forse inevitabilmente è diventato una commemorazione, proprio con una frase di questo incredibile esploratore. «L’alpinismo è un’attività sfiancante. Uno sale, sale, sale sempre più in alto, e non raggiunge mai la destinazione. Forse è questo l’aspetto più affascinante. Si è costantemente alla ricerca di qualcosa che non sarà mai raggiunto.» (Hermann Buhl).

Davide “Birillo” Valsecchi

Matteo Sponza.
Trieste: 17 Ottobre 1987  – Moregallo: 14 Ottobre 2019


Kora del Moregallo: Salita lungo il Sentiero (EE) 50°OSA. Breve deviazione sotto la Parete del Corno di Braga. Cima risalento lungo la cresta Nord. Discesa lungo la Cresta Sud Est, lungo il “Sentiero Elvezio”, sentiero dedicato alla memoria di Elvezio Dell’Oro, pioniere dell’alpinismo locale, caduto sulla Torre Trieste nell’agosto del 1958.

A spasso con la Nana

A spasso con la Nana

«Oggi sono un uomo più saggio di quanto fossi ieri. Sono un essere umano, ed un essere umano è una creatura vulnerabile, che non può assolutamente essere perfetta. Dopo la morte, ritorna agli elementi, alla terra, all’acqua, al fuoco, al vento, all’aria. La materia è vuota. Tutto è vanità. Noi siamo come fili d’erba o alberi della foresta, creature dell’universo, dello spirito dell’universo, e lo spirito dell’universo non ha né vita né morte. La vanità è solo ostacolo alla vita»
Sōkon “Bushi” Matsumura

Canale Nord

Canale Nord

In cima alla Torre Manzoni volevamo scendere sull’altro versante, quello nord, lungo l’evidente canale che, dalle sponde del lago, risale quasi “a cavatappo” il crinale nord della Torre. Tuttavia dell’alto era abbastanza difficile valutare se ci fosse la possibilità di attrezzare punti di calata o la possibilità di uscire verso il “sentiero della scala”. Così decidemmo di calarci sul lato sud, ripercorrendo la via di salita e sfruttando le grosse piante presenti. Non ultimo, per quanto mi riguarda, il lato sud era ormai noto ed illuminato dal sole, quello nord ingoiato dall’ombra e dalle incertezze. Tuttavia il “tarlo” di scoprire cosa ci fosse in quel canale non lasciava in pace la curiosità di Mattia, curiosità che è diventata incontenibile quando abbiamo scoperto che quel canale era stato risalito da Gianni Mandelli nel lontano 1981. Gianni infatti ci ha raccontato di come in quell’anno una scarica di sassi colpì ed uccise uno sfortunato automobilista che percorreva la vecchia strada costiera. Così il prefetto chiese all’allora sindaco di Valmadrera di mandare una squadra di rocciatori per disgagiare i sassi pericolanti: più o meno, in modo artigianale, quello che hanno fatto recentemente i rocciatori professionisti per i distacchi della superstrada SS36 sull’altro lato del lago. Dopo la frana ci fu il devastante incendio della raffineria e tutta la zona fa abbandonata per anni.

Oggi la vecchia strada, con le nuove gallerie, è abbandonata, invasa dalle piante e dalle macerie. I vecchi ponti sembrano in buono stato ma è un po’ inquietante pensare a come vengano ripetutamente colpiti dai massi caduti dall’alto. Lo stesso vale per le gallerie. Ad accentuare quella strana sensazione da “Zona Morta” si aggiungono i murales dipinti con lo spray sulle parte e l’incuria generale che avvolge ogni cosa di quella terra abbandonata. “extra mundo”: onestamente, sotto questo aspetto, è un posto magnifico.

In realtà, con uno sguardo un po’ più attento, la “Zona Morta” è molto più animata di quanto sembri. Oltre ad un ricovero per capre e “Smuggler”, sulle pareti a precipizio sul lago è pieno di “fix”. Quella zona abbandonata è infatti spesso utilizzata come campo d’addestramento per i gruppi speleo (sia locali che Milanesi) che qui insegnano ai neofiti le manovre base di calata e risalita. Anche la base del Canale Nord è stata attrezzata in questo modo. Tuttavia superati i 30 metri ogni segno del trapano scompare. Due anni fa, in una serata dopo lavoro, avevo provato ad alzarmi oltre. Tuttavia il canale si era difeso con grandi salti rocciosi verticali, impossibili da superare da solo e senza corda. Anche Mattia aveva fatto diversi sopralluoghi in solitaria, ma anche lui aveva dovuto desistere. Il “tarlo” però non aveva mai smesso di agitarsi.

Così qualche giorno fa Mattia e Ruggero si sono organizzati per una “Punta Esplorativa”, rubando un termine speleo, più massiccia. Insieme non solo hanno risalito il canale ma hanno anche ritrovato i chiodi lasciati, ormai quarant’anni fa, da Gianni Mandelli.

Il nostro piccolo gruppo, in modo irriverente ma assolutamente bonario, ha preso l’abitudine di intonare una buffa canzoncina ogni volta che abbiamo la fortuna, ma anche la capacità, di inseguire le gesta del “Mucchio Selvaggio”, il leggendario gruppo Valmadrerese di Gianni negli anni 70. La canzoncina è una specie di coretto da stadio in cui scandiamo in modo ritmato, quando possibile anche battendo le mani, il nome di Gianni: è una canzoncina assolutamente divertente nella sua infantile semplicità (sembra la sigla di un cartone animato anni ‘80). Credo poi ci piaccia perchè è una specie di tributo e perchè cantare in mezzo ai guai, con i compagni di cordata, è qualcosa di assolutamente speciale. Quando Mattia e Ruggero risalivano il Canale io ero al lavoro a Lecco e così, i due, mi telefonavano per aggiorarmi sui loro progressi e per farmi il coretto con la canzone di Gianni. Adorabili Bastardi!! Hehehe

“Già! Già! Già! Giannimandelli! Già! Già! Già! Giannimandelli!”

Quindi io non c’ero e posso solo riportarvi quanto mi ha scritto Mattia via “whats’Up” aggiungendo poi varie foto. “Si,mancavano 50 di misto erba per arrivare alla selletta dove siamo arrivati l’altra volta ma veniva tardi oltre a dover attrezzare la sosta, quindi siamo scesi in doppia. La prima su Carpino Bianco 50m. Poi chiodo Gianni 30m, poi sosta Gianni 50m e usciti dal canale su traccia animali per scendere alla vecchia strada. Dimenticavo ultima doppia da 30 su sasso dove c’è il chiodo di calata piegato. Un ambiente spettacolare dietro casa…”

Dall’origine del Mondo solo in due occasioni questo canale è stato risalito dagli esseri umani. Questo è tutto ciò che sappiamo su quell’angolo di mondo, abbandonato in una terra abbandonata. Tutto dietro casa, alla faccia degli “esperti” che vanno raccontando che l’esplorazione sia finita da un pezzo!

Davide “Birillo” Valsecchi

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