Terror Crest

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Ieri io ed il Guerra siamo stati sul versante est del Moregallo, siamo partiti dalla vecchie gallerie abbandonate sul lago risalendo fino alla cima attraverso mille metri di crinale: un viaggio incredibile nel cuore, immenso e sconosciuto, della montagna più selvaggia dell’Isola Senza Nome. Come se questo non bastasse avevo approfittato del sole invernale uscendo in esplorazione praticamente tutti i giorni: ora la fatica sembra volermi presentare un conto salato. Mentre risalgo con il Guero tra le piante del bosco sento lo zaino pesante e la gamba lenta: vado avanti sfruttando il ritmo, sbuffando per inerzia consapevole. Forse avrei dovuto riposare, ma Guero ci tiene tanto a sfruttare queste giornate favoreli …ed in fondo mi ha promesso una cresta semplice. Forse posso tenere duro e fare diligentemente la mia parte.

Il piano però comincia a farsi via via più chiaro mentre ci avviciniamo alla Torre Proibita. La torre è in realtà una struttura molto complessa dove una fila di alte guglie si innalza dal bosco formando un’imponente cresta dentata. Un anno e mezzo fa, insieme a Paolo Console, abbiamo aperto la mia prima via in questa valle: Il Bastone e la Carota. La foto di Ivan sdraiato in sosta su un’albero a sbalzo nel vuoto è l’immagine più iconica di quel giorno. La via risaliva il fianco del torrione più in alto e ci aveva dato modo di osservare la cresta individuandone la via d’uscita. Successivamente Ivan e Paolo avevano aperto due vie sull’alto torrione più in basso ed un mesetto fa, Io e Guero, avevamo risalito la seconda torre attraversando la cresta fino a giungere alla terza. Qui Guero aveva affrontato un tiro assolutamente terrificante raggiungendo la cima della terza torre: quei trenta metri di roccia, in una gelida giornata d’inverno senza sole, mi hanno mostrato chi è davvero Ivan Guerini e di cosa è capace sulla roccia. (“Mozzo di Colombo“)

Purtroppo, alla base della terza torre, comprendo il piano di Ivan e quale sia la cresta, tra le tante fatte, che vuole “completare”. Per un secondo il peso dello zaino vince la mia volontà e mi sdraio a terra osservando il mio precario futuro: “..ma davvero?”. Ivan vuole rimontare il fianco sinistro della cresta, affrontare un’infinito traverso obliquo e raggiungere un diedro canale che, nelle nostre previsioni, risale alle spalle della terza torre raggiungendo il punto in cui Ivan aveva attrezzato la sosta di calata. Se raggiungiamo quel punto possiamo riprendere la cresta e completare la salita fino alla quarta torre e l’uscita di “bastone e carota“.

Se le mie batterie fossero al 100% sarei agghiacciato, ma visto che parto già in riserva non posso che essere tristemente rassegnato. Ivan parte, rimonta una decina di metri verticalmente su roccia mista ad erba e poi ingaggia il lungo traverso verso destra stendendo la corda come una ghirlanda tra le piccole pianticelle che costeggiano la stretta cengia erbosa sovrastata da una piccolo tetto concrezionato. Trentacinque metri di corda stesa ed arriva dentro il canale: “Provo a fare sosta più in alto, cerco di arrivare al sole che qui fa freddo”. Qualcosa non mi torna, forse più probabilmente vuole risalire il canale per evitare di farmi stare in sosta tra i sassi che cadono nel tiro successivo. L’unica cosa certa è che da lassù non può ritirarsi con una calata e che per recuperare il materiale devo per forza chiudere il traverso. Mi aspettavo un canale rognoso, quarto/quinto grado con detriti ed erba ma Ivan sembra metterci più del previsto. Gli vedo piazzare e raddoppiare friend, ma quando sento piazzare uno, due e poi tre chiodi capisco che la faccenda deve essere radicalmente diversa. Le corde, strozzate dalle protezioni, non scorrono più, Ivan sfrutta una piccola pianta e chiama la sosta: ora tocca a me.

Mentre recupera la corsa penso al lavoro, forse dovrei tornare a fare l’informatico, ora dovrei essere in un bel ufficio con le luci al neon e le scrivanie in formica, la tazza di guerre stellari e la macchinetta del caffè. Le riunioni, i colleghi, il capo represso. Un’ora di macchina andata e ritorno, il traffico, la coda. Lo stipendio fisso, i ticket a pranzo per la mensa. Passare il week-end davanti alla playstation, ingrassare serenamente di trenta chili ed aspettare di morire placidamente di infarto nel mio letto. Mio dio, questa potrebbe essere la mia vita, quasi desiderabile!! Ma una vocina interiore mi parla sprezzante come l’ufficiale di “Caccia ad Ottobre Rosso”: “Bravo coglione, prima però devi evitare di ammazzarci su questo cazzo di traverso!”

Respiro, i pensieri sono brusio di fondo, quasi lontano. Il mio presente è fatto di piedi sull’erba e piccole concrezioni sopra la mia testa da affrontare con la schiena arcuata all’indietro. Gli addobbi natalizi sulle pianticelle non reggeranno la severa potatura di un pendolo. Respiro ed avanzo, lasciando che lo stupore trasfiguri il mio equilibrio. Sono alla base del canale e sono già mentalmente bruciato, quello che ho davanti semplicemente mi incenerisce. “Ma sei fuori?! Sguero, tu non sei un terrorista: sei un dannato maniaco! Come accidenti hai fatto a passare!!” Il canale di “quarto” strapiomba, è un incubo di roccia disgregata e terra. “Biriz, se vuoi da qui possiamo calarci…”. Rispondigli di sì, dannazione Birillo, rispondigli di sì!! Ma la realtà è semplice: Ivan vuole vedere questa cresta, è la seconda volta che arriva a sfiorarla dopo aver superato difficoltà che avrebbero annichilito chiunque altro. Se ora sono io a negargliela probabilmente non potrà mai più tornarci, non avrà altri tentativi. Non capisco appieno perchè voglia raggiungere posti simili, forse semplicemente perchè ne ha la capacità, perchè in lui alberga lo stesso desiderio che mi spinge sui fianchi del Moregallo, affrontando difficoltà che per altri sembrano follia. Vivere significa mettere a nudo la propria natura, smettere di nascordersi a se stessi, liberare la propria anima nel cuore della tempesta. “Okay Sguero! Ma sono terrorizzato e devi darmi una mano come si deve questa volta!”.

Una fessura sulla destra mi permette di alzarmi ad incastro fin sotto lo strapiombo, ora dovrei cercare di spaccare per attraversare a sinistra per poi rimontare nuovamente. Ma l’altro lato del canale è un’incubo ed io non so dove andare ad incastrarmi. Vedo il primo chiodo di Ivan, un universale lungo, tutto fuori, infilato giusto di punta e strozzato con un cordino. Una parte del mio cervello è in preda ad una crisi isterica: nella mia testa omini terrorizzati corrono strillando per tutta la plancia di comando, solo un paio di bastardi senza gloria sembrano intenzionati a riportare in porto il Titanic. Azzero su quel chiodo con il terrore che mi schizzi in faccia prima di buttarmi di sotto: la corda gira attraverso un paio di friend messi in asse ma fortunatamente è abbastanza dritta perchè Guero possa aiutarmi. Schiodo ed il mio viaggio della speranza riparte fino ad afferrare con due dita l’anello del piccolo friend giallo verticale in una sottile fessura terrosa: si dice ancora azzerare quando appendi la disperazione ad un friend?

Il mio presente diventa troppo complesso, il cervello smette di registrare gli eventi ed investe tutte le sue risorse nell’azione pura. Due movimenti, di cui non ho memoria, e sono finalmente in sosta. “Bravo Biriz! Sotto era “ottavo”, il movimento verso sinistra forse “nono” ed il tratto d’uscita “settimo più” su erba”. Io mi guardo intorno come un naufrago incrostato di sale approdato su una spiaggia deserta e lui si mette a dare i numeri… sono sempre state così le mie giornate tipo?

La sosta è una pianticella che sembra essere cresciuta bucando la buccia della roccia, poi abbiamo un friend in un buco ed un paio di chiodi. “Vedi Biriz, te lo dicevo che era una bomba la sosta!” Mancano una decina di metri alla cresta ma sono tutti sopra la mia testa: “Avrei voluto uscire più sopra ma le corde non scorrevano più. Dove c’è quella piccola pianta ci deve essere la clessidra passante”. Quando Guero aveva risalito la terza torre dall’altro versante aveva trovato una lunga clessidra, passante e verticale, larga quanto un polso.

Guero riparte, si alza e compie un paio di movimenti. Poi appoggia la mano su uno spuntone, il suo corpo sembra attraversato da una scossa elettrica ed il suo movimento successivo diventa insolitamente rapido e scattante: “Biriz, quando arrivi qui non toccare questo spuntone”. Incuriosito osservo quel grosso pezzo di montagna, immobile a sbalzo nel vuoto sopra di me… cos’era quella scossa? Una percezione fisica o mentale? Lo avrà davvero toccato o solo sfiorato?

“Qui è più duro ma più solido”. Ivan infila le mani ad incastro nel diedro e si alza verticale. Il concetto si solido è assolutamente relativo e sporco di terra, ma finalmente, quasi trionfante, raggiunge la piccola frana consolidata ed il chiodo su cui si era calato l’altra volta.”Sosta Biriz! Sosta!!” La paura è un sentimento strano, quando non riesce a travolgerti è costretta a trasformarsi in rassegnazione, qualcosa con cui sembra persino possibile convivere. Quello che conta ora è uscire dal canale e scoprire se davvero la cresta è “piacevolmente” a gradoni così come aveva promesso Ivan.

A cavalcioni della cresta percepisco tutto l’immenso vuoto che ci circonda. Il tiro sull’altro versante della terza torre è spaventoso, non riesco nemmeno a sporgermi per scattare una foto. “Biriz, ora seguo la cresta fino a quell’albero, poi quando smonti la sosta prova a recuperare quel chiodo lassotto.” Ivan parte sulla cresta, la roccia fa lo stesso rumore delle piastrelle e si sgretola crollando lungo i lati riempiendo l’aria di un profumo tipico. “Non mi piace buttar giù sassi ma questa volta se non lo faccio può essere pericoloso per la corda”. Il fragore riempe la valle, forse è solo una sensazione ma tutta la cresta trema sotto le mie dita.

La corda corre lungo gli spuntoni della cresta per poi sfilarsi sul lato sinistro rimontando di lato un piccolo pilastro. Per schiodare il vecchio chiodo di Ivan dovrei distendermi a testa in giù oppure appendermi nel vuoto affidandomi completamente alla corda. Ma se la corda scavalca gli spuntoni rischio di fare trenta metri di pendolo sull’altro lato della cresta. “Ivy, recupero il cordino di calata ma il chiodo se vuoi te lo pago: io non vado laggiù a riprenderlo!” Ivan trenta metri più sopra ride, io smonto la sosta e parto lungo la cresta.

Abbiamo fatto un lungo viaggio per giungere fin quassù e quello che vi abbiamo trovato infrange ogni mia possibile aspettativa. La cresta è meno impegnativa del canale ma qualità della roccia, così profondamente spaccata e scomposta, la rendono altrettanto spaventosa. “La cresta del Terrore, ecco come chiamerò questo dannato posto!”. Mancano due o tre tiri per uscire: io non devo cadere, lei non deve crollare. Aggiro le cornici nel vuoto e cerco di muovermi sulle parti verticali senza tirarmi addosso niente. Nella mia testa la voce di un amico si manifesta come una domanda semplice: “Come fai ad arrampicare su roccia così?” Io mi guardo la punta del piede sinistro cercando qualcosa di solido su cui appoggiarmi “Semplice, devi trovare i punti che sembrano migliori e convincerti che siano solidi: solo se ti convinci che possono tenere allora potranno farlo per davvero”. Una verità inverosimile che diviene la sola certezza a cui potermi aggrappare.

Un tiro, due tiri, finalmente sulla cresta l’erba si fa più frequente ed appaiono le “fatte” dei camosci: Siamo fuori!! Un ultimo tratto tra rocce e piante e finalmente siamo nel bosco. Ivan inizia ad insaccare diligentemente il materiale mentre io mi sdraio a terra sull’erba con le braccia e le gambe larghe. “Oh Ivy! Questa volta è stata davvero dura! Questa volta me la sono fatta sotto dall’inizio alla fine!” Parlando della qualità della roccia della cresta finale gli racconto con autoironia del mio dialogo interiore sulla volontà che sostiene gli appigli. Lui però mi risponde serio: “Ci sono componenti psicologiche fondamentali in un’arrampicata come questa. Ci vuole un animo intimamente delicato per arrampicare su roccia simile” All’improvviso sembra di ascoltare un maestro di arti marziali “Animo delicato non significa cedevole o arrendevole, significa che possiede la sensibilità necessaria per trasformare la forza in delicatezza. Tu forse non te ne rendi ancora conto ma non è così scontato il modo in cui ti ribalti, il tuo ruotare gli appoggi e spingere anziché tirare. No, quella di oggi era una salita decisamente impegnativa.”

Una strana quiete ci avvolge mentre ridiscendiamo nel bosco. Non provo più fatica o paura, ogni difficoltà sembra ora distante, tanto sulla montagna quanto nella vita quotidiana. Non ho idea del perchè faccia tutto questo, il senso ancora mi sfugge sebbene ogni cosa attorno a me si muova per assecondarlo. Posso davvero oppormi?

Davide “Birillo” Valsecchi

Nelle vibranti e libere corse sulle rocce tormentate, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento, con l’azzurro, nella dolcezza un po’ stanca dei delicati tramonti, ritrovavo la serenità e la tranquillità. E l’ebbrezza di quell’ora passata lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere sufficiente a giustificare qualunque follia. (Giusto Gervasutti)

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