A volte mentre si è in viaggio ci si annoia parecchio: è un fatto. Tutto comincia a correre sempre più in fretta e quando rallenti, anche solo per una pausa, ti ritrovi ad annoiarti spiccicando zanzare al tramonto del sole africano.
Di solito depredo tutti libri di quart’ordine che qualche turista ha abbondanto nei posti dove ci si ferma a dormire ma in tre anni mi è capitato solo un libro interessante, un saggio di psicologia in inglese, mentre il più delle volte sono romazetti economici da leggere e dimenticare.
Questa volta però mi sono attrezzato. Ho portato con me due volumi economici: il primo è “Storie di ordinaria follia” di Cherles Bukowsky, mentre l’altro è “Le verdi colline d’Africa” di Hernest Hemingway. Io due sono tra i massimi scrittori statunitensi del ‘900 con la sola differenza che Bukowsky era un “dannato perdente” mentre Hemingway vinse il premio Nobel per la letteratura ed è considerato il più classico degli scrittori d’avventura.
Di Bukowski avevo letto “post-office”: Iceman, per infierire, me lo aveva prestato quando mi era arrivata la chiamata di naja (fu una scelta azzeccata). Questo che ho portato, che è la sua opera più nota, l’avevo però letto solo a tratti, solo qualche racconto qua e là. Bukowski ed Hemingway stanno sulla stessa linea ma diametralmente opposti, le due faccie di un’unica dannata medaglia. Li sto leggendo in parallelo e trovo la cosa molto divertente:due “bastardi alcolizzati” che in età avanzata e dopo una vita densa di eventi riempiono il bicchiere battendo tasti su una macchina da scrivere. Due anti-eroi, due strade parallele che portano allo stesso inevitabile destino.
Tra i due Bukowski è quello che mi fa ridere di più. Quando leggo le folli e sregolate storie di “Charlie Bukowski, detto gambe d’elefante, il fallito” scoppio a ridere come un bambino felice ed Enzo si mette a protestare sfottendomi: “Come fai a ridere leggendo Bukowski?!?”. Rido, forse perchè anche io sono uno sfigato perdente o forse perchè mi piace la vita ruvida, l’aspetto melmoso e putrito dell’esistenza umana, quel lato buio, reale e cinico che in pochi hanno l’onestà e la dignità per raccontare: essere un perdente, completo, totale, assoluto non è cosa da pochi. Ci vuole una gran testa per scivolare sempre più in basso, sempre più a fondo nella disperazione ed avere la forza di raccontarlo come fa Bukowski.
I due erano poi “quasi” contemporanei: Bukowski 1920 ed Hemingway 1899 ma è indiscutibile che Hernest fosse un uomo di un altro secolo. In un racconto Bukowsy, mezzo ubriaco, racconta persino di aver telefonato ad Hemingway: la cosa divertente è che la telfonata avvenne, nel roccambolesco racconto, qualche mese dopo che Hemingway si era sparato, ma nonostante questo i due chiacchierano felici e spensierati così come ci si aspetterebbe da un “perdente alcolizzato” e da un “premio nobel alcolizzato e suicida”.
Bukowski in un racconto scrive: “il vecchio Ernie ha scritto alcune cose piuttosto brutte negli ultimi tempi – qualche rotella gli s’andava allentando – ma, anche allora, faceva far agli altri la figura di scolaretti che alzano la mano per chiedere il permesso di fare una pisciatina letteraria. Io lo so perchè Ernie andava alle corride…” e qui, Charlie, attacca nello spiegare perchè porterebbe i suoi studenti, qualora ne avesse avuto, all’ippodromo per fare scommesse ed imparare qualcosa sul mondo. (onestamente la sua teoria ha anche un senso).
Tutto questo giro di parole solo perchè, mentre ero sul ponte della nave che mi portava a Zanzibar, mi è capitato di leggere una frase di Bukowski che mi è rimasta impressa nelle due lunghe e noiosissime ore di attraversata in mare: “mostratemi un uomo che abita solo ed ha la cucina perpetuamente sporca e, 5 volte su 9, vi mostrerò un uomo eccezionale” Questa è una massima di Cherles Bukowski che venne proferita il 27 Giugo del 1967 dopo la 19a birra.
Io ed Iceman avevamo un libro pieno di massime alcoliche partorite al pub “La giraffa” di Lambrate dopo gli allenamenti di Karate. Questo mi fece riflettere. Io ho vissuto da solo da quando di anni ne avevo venti e la mia cucina è sempre stata un’apocalisse. Ero talmente stufo della cosa che nella mia ultima casa, per tre anni, la cucina nemmeno c’era (se hai una cucina prima o poi ti tocca cucinare).
Per questo non sapevo come pormi con l’assioma di Bukowski sopratutto perchè ora, forse finalmente, una cucina la possiedo o, quanto meno, così ero felicemente convinto mentre cominciavo a scrivere quest’articolo. Non che mi interessi la cucina in sè ma Bruna ne voleva una e quindi, meno di due mesi fa, ho impacchettato tutte le mie cose e trasbordato in una casa che ne fosse dotata.
Tuttavia, grazie alla magia della comunicazione globale, dall’Italia mi sono arrivate notizie piuttosto burrascose dalla mia “quasi-metà” ed ora, onestamente, non so davvero se ce l’ho ancora una cucina, anzi, per quel che ne sò le mie cose potrebbero essere sparse sui marciapiedi (inesistenti) di Scarenna.
In realtà mi sento come un americano in viaggio che, guardando il telegiornale, vede la propria casa galleggiare tra le onde di un’inondazione o sparsa a pezzi dal passaggio di un tifone: “Guarda in Tv parlano dell’Uragano Bruna e quella è la tua casa. O quello che ne resta, Birillo”. Cosa dovrei fare? La cosa ridicola, o drammatica, è che avevo finito il trasloco della mia roba esattamente il giorno prima di partire (tre giorni fa). Un vero peccato: cominciavo a sentirmi, nell’accezione di Antoine de Saint-Exupéry, felicemente “addomesticato”.
Forse è il jat-lag ma ma è un po’ come essere in un racconto di Chuck Palahniuk: sono in strada davanti al mio frigorifero, tristemente pieno solo di condimenti, dopo che è precipitato fuori dal palazzo quando il mio appartamento è esploso (Sono stato io? Forse…). Mi aspetto che da un momento all’altro si manifestino Tyler Durden e Marla Singer: “le cose che possiedi alla fine ti possiedono”. Ma accidenti: è lei che ha lo shopping compulsivo, tutte quelle vaccate Ikea “da svedese represso chiuso in casa” le ha prese lei!!!
Sta di fatto che ora sono in Africa e per come mi sento ora potrebbe benissimo atterrare un idrovolante sulla spiaggia con a bordo un messia qualunque e non ci troverei nulla da obbiettare. Probabilmente mi piacerebbe solo avere tra le mani quel libricino di Richard David Bach che mi regalò Vittoria tanti anni fa con le piccole speranze che conteneva: “Illusioni: Le avventure di un messia riluttante”
Non stento a credere sia tutta colpa mia ma alle volte la mia vita è tale casino che non mi stupisce che per metterla un po’ in ordine abbia cominciato a raccontarla a puntate: «Non c’è niente di statico. Tutto va a pezzi, ma da quello che il bruco chiama fine del mondo il maestro la chiama una farfalla». Al diavolo lo Zen, ai tropici fa troppo caldo per una birra…
Davide “Birillo” Valsecchi