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Bukowski, Hemingway e l’Uragano Bruna

Bukowski, Hemingway e l’Uragano Bruna

Donne e Mare: stesso brutto carattere
Donne e Mare: stesso brutto carattere

A volte mentre si è in viaggio ci si annoia parecchio: è un fatto. Tutto comincia a correre sempre più in fretta e quando rallenti, anche solo per una pausa, ti ritrovi ad annoiarti spiccicando zanzare al tramonto del sole africano.

Di solito depredo tutti libri di quart’ordine che qualche turista ha abbondanto nei posti dove ci si ferma a dormire ma in tre anni mi è capitato solo un libro interessante, un saggio di psicologia in inglese, mentre il più delle volte sono romazetti economici da leggere e dimenticare.

Questa volta però mi sono attrezzato. Ho portato con me due volumi economici: il primo è “Storie di ordinaria follia” di Cherles Bukowsky, mentre l’altro è “Le verdi colline d’Africa” di Hernest Hemingway. Io due sono tra i massimi scrittori statunitensi del ‘900 con la sola differenza che Bukowsky era un “dannato perdente” mentre Hemingway vinse il premio Nobel per la letteratura ed è considerato il più classico degli scrittori d’avventura.

Di Bukowski avevo letto “post-office”: Iceman, per infierire, me lo aveva prestato quando mi era arrivata la chiamata di naja (fu una scelta azzeccata). Questo che ho portato, che è la sua opera più nota, l’avevo però letto solo a tratti, solo qualche racconto qua e là. Bukowski ed Hemingway stanno sulla stessa linea ma diametralmente opposti, le due faccie di un’unica dannata medaglia. Li sto leggendo in parallelo e trovo la cosa molto divertente:due “bastardi alcolizzati” che in età avanzata e dopo una vita densa di eventi riempiono il bicchiere battendo tasti su una macchina da scrivere. Due anti-eroi, due strade parallele che portano allo stesso inevitabile destino.

Tra i due Bukowski è quello che mi fa ridere di più. Quando leggo le folli e sregolate storie di “Charlie Bukowski, detto gambe d’elefante, il fallito” scoppio a ridere come un bambino felice ed Enzo si mette a protestare sfottendomi: “Come fai a ridere leggendo Bukowski?!?”.  Rido, forse perchè anche io sono uno sfigato perdente o forse perchè mi piace la vita ruvida, l’aspetto melmoso e putrito dell’esistenza umana, quel lato buio, reale e cinico che in pochi hanno l’onestà e la dignità per raccontare: essere un perdente, completo, totale, assoluto non è cosa da pochi. Ci vuole una gran testa per scivolare sempre più in basso, sempre più a fondo nella disperazione ed avere la forza di raccontarlo come fa Bukowski.

I due erano poi “quasi” contemporanei: Bukowski 1920 ed Hemingway 1899 ma è indiscutibile che Hernest fosse un uomo di un altro secolo. In un racconto Bukowsy, mezzo ubriaco, racconta persino di aver telefonato ad Hemingway: la cosa divertente è che la telfonata avvenne, nel roccambolesco racconto, qualche mese dopo che Hemingway si era sparato, ma nonostante questo i due chiacchierano felici e spensierati così come ci si aspetterebbe da un “perdente alcolizzato” e da un “premio nobel alcolizzato e suicida”.

Bukowski in un racconto scrive: “il vecchio Ernie ha scritto alcune cose piuttosto brutte negli ultimi tempi – qualche rotella gli s’andava allentando – ma, anche allora, faceva far agli altri la figura di scolaretti che alzano la mano per chiedere il permesso di fare una pisciatina letteraria. Io lo so perchè Ernie andava alle corride…” e qui, Charlie, attacca nello spiegare perchè porterebbe i suoi studenti, qualora ne avesse avuto, all’ippodromo per fare scommesse ed imparare qualcosa sul mondo. (onestamente la sua teoria ha anche un senso).

Tutto questo giro di parole solo perchè, mentre ero sul ponte della nave che mi portava a Zanzibar, mi è capitato di leggere una frase di Bukowski che mi è rimasta impressa nelle due lunghe e noiosissime ore di attraversata in mare: “mostratemi un uomo che abita solo ed ha la cucina perpetuamente sporca e, 5 volte su 9, vi mostrerò un uomo eccezionale” Questa è una massima di Cherles Bukowski che venne proferita il 27 Giugo del 1967 dopo la 19a birra.

Io ed Iceman avevamo un libro pieno di massime alcoliche partorite al pub “La giraffa” di Lambrate dopo gli allenamenti di Karate. Questo mi fece riflettere. Io ho vissuto da solo da quando di anni ne avevo venti e la mia cucina è sempre stata un’apocalisse. Ero talmente stufo della cosa che nella mia ultima casa, per tre anni, la cucina nemmeno c’era (se hai una cucina prima o poi ti tocca cucinare).

Per questo non sapevo come pormi con l’assioma di Bukowski sopratutto perchè ora, forse finalmente, una cucina la possiedo o, quanto meno, così ero felicemente convinto mentre cominciavo a scrivere quest’articolo. Non che mi interessi la cucina in sè ma Bruna ne voleva una e quindi, meno di due mesi fa, ho impacchettato tutte le mie cose e trasbordato in una casa che ne fosse dotata.

Tuttavia, grazie alla magia della comunicazione globale, dall’Italia mi sono arrivate notizie piuttosto burrascose dalla mia “quasi-metà” ed ora, onestamente, non so davvero se ce l’ho ancora una cucina, anzi, per quel che ne sò le mie cose potrebbero essere sparse sui marciapiedi (inesistenti) di Scarenna.

In realtà mi sento come un americano in viaggio che, guardando il telegiornale, vede la propria casa galleggiare tra le onde di un’inondazione o sparsa a pezzi dal passaggio di un tifone: “Guarda in Tv parlano dell’Uragano Bruna e quella è la tua casa. O quello che ne resta, Birillo”. Cosa dovrei fare? La cosa ridicola, o drammatica, è che avevo finito il trasloco della mia roba esattamente il giorno prima di partire (tre giorni fa). Un vero peccato: cominciavo a sentirmi, nell’accezione di Antoine de Saint-Exupéry, felicemente “addomesticato”.

Forse è il jat-lag ma ma è un po’ come essere in un racconto di Chuck Palahniuk: sono in strada davanti al mio frigorifero, tristemente pieno solo di condimenti, dopo che è precipitato fuori dal palazzo quando il mio appartamento è esploso (Sono stato io? Forse…). Mi aspetto che da un momento all’altro si manifestino Tyler Durden e Marla Singer: “le cose che possiedi alla fine ti possiedono”. Ma accidenti: è lei che ha lo shopping compulsivo, tutte quelle vaccate Ikea “da svedese represso chiuso in casa” le ha prese lei!!!

Sta di fatto che ora sono in Africa e per come mi sento ora potrebbe benissimo atterrare un idrovolante sulla spiaggia con a bordo un messia qualunque e non ci troverei nulla da obbiettare. Probabilmente mi piacerebbe solo avere tra le mani quel libricino di Richard David Bach che mi regalò Vittoria tanti anni fa con le piccole speranze che conteneva: “Illusioni: Le avventure di un messia riluttante”

Non stento a credere sia tutta colpa mia ma alle volte la mia vita è tale casino che non mi stupisce che per metterla un po’ in ordine abbia cominciato a raccontarla a puntate: «Non c’è niente di statico. Tutto va a pezzi, ma da quello che il bruco chiama fine del mondo il maestro la chiama una farfalla». Al diavolo lo Zen, ai tropici fa troppo caldo per una birra…

Davide “Birillo” Valsecchi

Hemingway, Babati e gli ippopotami

Hemingway, Babati e gli ippopotami

Monte Hanang dal lago Babati
Monte Hanang dal lago Babati

Mentre per il trasloco impacchettavo  i libri  mi è capitata in mano una vecchia edizione di “Verdi Colline d’Africa”. Il libro, stampato nel 1972, reca sulla copertina il nostalgico costo di Lire 700. Inevitabilmente ho cominciato a leggere qualche pagina a caso:

“Non mi piace fare domande, e sono cresciuto in un ambiente in cui non è educato farne. Ma erano due settimane che non si vedeva un bianco, da quando avevamo lasciato Babati per il sud, e intopparne uno su quella strada dove si incontrava solo qualche mercante indiano era una cosa davvero straordinaria.”

Babati? Sentire Hemingway nominare quel nome mi fece ricordare qualcosa. Poi nella mia mente presero forma le immagini: come potevo dimenticare Babati!!

Già perchè Babati è una piccola cittadina, poco più che un villaggio per i nostri standard, nel cuore delle Tanzania. Io ed Enzo ci siamo stati all’inizio del 2010 dopo le nostre peregrinazioni nel Tanganica. Arrivammo a Babati in pullman lungo la strada in terra battuta che proveniva da Kondoa dove avevamo speso alcuni giorni fotografando le pitture rupestri. Era giorno di mercato e la strada era affollata di gente che portava frutta ed altre mercanzie al mercato in riva al piccolo ed omonimo lago.

Cosa ci aveva portato sulle tracce di Hemingway? Beh, presto detto: gli ippopotami. Io volevo assolutamente vedere i grandi “cavalli d’acqua” e così Enzo accettò di fare una piccola sosta lungo la strada per Katesh ed il monte Hanang.
Per due giorni il tempo incerto funestava le nostre giornate mentre ci spingevamo nei canneti a bordo di una piccola piroga per scorgere e fotografare gli ippopotami. Il periodo era il peggiore perché, oltre al cattivo tempo, le femmine potevano diventare particolarmente aggressive per proteggere i giovani cuccioli.

Sentir “ruggire” un ippopotamo fa una certa impressione così come ascoltarlo mentre sbuffa e si agita tra il fitto della vegetazione che cresce sull’acqua del lago. Alla fine siamo riusciti a scorgerli con mia grande soddisfazione.

Verdi colline d’Africa è un libro speciale: “…a differenza di quanto avviene solitamente nei romanzi, nessuno tra i personaggi e i principali avvenimenti contenuti in questo libro è immaginario. L’autore ha cercato di scrivere un libro completamente vero per vedere se il profilo di una ragione e l’esempio di un mese di vita descritti con fedeltà possano competere con un opera di fantasia.”

E’ uno dei primi diari di viaggio, un genere narrativo nuovo e che rivive un po’ anche nei racconti delle spedizioni e delle iniziative realizzate da me ed Enzo. Inevitabilmente ci troviamo a ripercorrere, con molta umiltà, le orme di grandi scrittori e famosi avventurieri raccontando, sempre con molta umiltà, anche la nostra piccola storia.

Tuttavia, contrariamente ai grandi del passato, noi abbiamo il grande privilegio di raccontarvela quasi dal vivo giorno per giorno: Tanzania River Horse: 19 Aprile 2010

Davide “Birillo” Valsecchi

Verdi colline d’Africa

Verdi colline d’Africa

E.H.
E.H.

“Ho una vita interessante, ma devo scrivere perché se non scrivo in una certa misura non posso godermi il resto della mia vita”

Oggi è il 2 Maggio e per me è una giornata diversa, differente da come nessuna altra durante l’anno può esserlo. E’ forse il giorno in cui tutto è cominciato o forse quello in cui tutto ha smesso di avere un senso. E’ un giorno folle reso quasi sopportabile che solo dal ricordo degli anni felici che l’hanno preceduto. Non è un buon giorno per scrivere, per lasciare uscire ciò che si agita dentro.

Questa notte ci aspetta l’aereo verso il Cairo e poi via verso Casa. Per chiudere il ciclo delle nostre avventure africane gioco il Jolly e chiamo in mio soccorso niente meno che un premio Nobel. Ecco un passaggio di Ernest Hemingway:

Sicché il mattino dopo partimmo alla testa dei portatori. Scendemmo attraversando le colline e una valle profondamente boscosa per risalire e attraversare un lungo altipiano ricoperto di erba altissima che rendeva il camminare molto difficile, e via e su e giù e per traverso, riposandoci di quando in quando all’ombra di un albero, sempre tra erbe altissime tra le quali ci si doveva aprire una strada, e sotto un sole scottante. Tutti e cinque in fila indiana. Droopy e M’Cola con una grossa carabina per uno, carichi di tascapani, borracce e macchine fotografiche, tutti quanti grondanti sudore nel sole, Pop e io con i nostri fucili e la memsahib che cercava di imitare il passo di Droopy col suo Stetson sulle ventitré, felice di trovarsi in una spedizione, e dei suoi stivali tanto comodi. Arrivammo infine a una macchia d’alberi spinosi su di un burrone che scendeva dal sommo di una cresta sino all’acqua, appoggiammo i fucili contro gli alberi, entrammo sotto l’ombra spessa e ci sdraiammo a terra. P.V M. cavò fuori dei libri da uno degli zaini. Lei e Pop si misero a leggere, mentre io scendevo nel valloncello sino al ruscello che usciva dal fianco del monte e trovai un’orma fresca di leone e molte gallerie aperte dai rinoceronti nell’erba più alta di un uomo.Faceva un caldo tremendo a risalire il pendio sabbioso, e fui felice d’appoggiare la schiena a un tronco d’albero e leggere Sebastopoli di Tolstoj. È un libro di giovinezza, con una bella descrizione di battaglia, là dove i francesi conquistano la ridotta, e io pensavo a Tolstoj, al gran vantaggio che l’esperienza di una guerra rappresenta per uno scrittore. La guerra è certamente un gran soggetto, difficilissimo a trattare con verità. Gli scrittori che non l’hanno vista cercano di farla passare per un soggetto poco importante, o anormale, o morboso, mentre in realtà è semplicemente qualcosa di insostituibile che è sfuggito loro. Sebastopoli mi ricordò il boulevard Sebastopol, il mio ritorno in bicicletta da Strasburgo sotto la pioggia, le rotaie sdrucciolevoli del tram, la sensazione di avanzare su dell’asfalto untuoso e scivoloso e sul lastrico di pietra nel gran traffico sotto la pioggia, e il fatto che fummo lì lì per abitare sul boulevard du Temple; e mi tornava alla memoria l’aspetto di quell’appartamento, i mobili, la tappezzeria: ma invece avevamo preso in affitto il piano superiore d’un padiglione in rue Notre Dame-des-Champs in un cortile dove c’era una segheria (e lo stridere improvviso della sega, l’odore della segatura e il castagno al di sopra del tetto e la pazza del pianterreno), e quell’anno pieno di seccature e di difficoltà in fatto di denaro (tutte quelle novelle rifiutate che mi ritornavano per posta attraverso una fenditura della porta della segheria, con delle lettere che non le chiamavano mai novelle, ma aneddoti, bozzetti, racconti, ecc.: non ne volevano sapere e noi vivevamo di cipolle bevendo vino di Cahors annacquato), e le fontane cosi belle nella place de l’Observatoire (con l’acqua lustra che mormorava sul bronzo delle criniere, sulle schiene e i petti di bronzo, verdi sotto l’esile filo d’acqua), e il giorno che innalzarono il busto di Flaubert nel giardino del Lussemburgo, nella scorciatoia che taglia il parco verso la rue Soufflot (un uomo nel quale credevamo, che amavamo senza riserve, ora pesante nella pietra come dev’essere ogni vero idolo). Egli non aveva visto guerre, ma aveva visto una rivoluzione e la Comune, e la rivoluzione è anche meglio, pur di non diventare fanatici, perché tutti parlano la stessa lingua. E la guerra civile è la migliore per uno scrittore, la più completa. Stendhal aveva visto una guerra e Napoleone gli aveva insegnato a scrivere. L’insegnava a tutti, allora, ma nessun altro ne approfittò. Dostoievskij fu formato dalla Siberia: gli scrittori si forgiano nell’ingiustizia come si forgiano le spade. Mi chiesi se mandare Tom Wolfe in Siberia o alle Tortugas sarebbe stato utile per farlo diventare uno scrittore, se questo avrebbe potuto dargli la scossa necessaria perché cominciasse a tagliar corto a tutto quel suo flusso verbale e imparasse che cos’è il senso della misura. Forse sì, forse no. Wolfe pareva veramente triste, come Carnera. Tolstoj era piccolo, Joyce è di media statura e si è rovinato la vista. E quell’ultima sera, ubriaco, con Joyce che continuava a ripetere una frase di Edgar Quinet: “Fraiche et rose comme au jour de la bataille”. La frase non era proprio cosi, lo sapevo bene. E a incontrarlo, era capace di riprendere una conversazione interrotta tre anni prima. Era bello vedere un grande scrittore all’epoca nostra. Quel che io dovevo fare era lavorare, m’importava poco di quel che mi sarebbe potuto accadere, la vita non la prendevo sul serio. Quella degli altri, non m’importa quali, sì, ma la mia no. Tutti desideravano qualcosa che io non desideravo affatto, ma che avrei ottenuto anche senza volere, lavorando. Lavorare era l’unica cosa che mi facesse stare veramente bene; ed era anche la mia dannata vita, e io l’avrei potuta indirizzare dove e come meglio mi fosse piaciuto. E il luogo dove ora l’avevo condotta mi garbava molto. Questo ciclo era più bello di quello d’Italia. Non era per niente vero. Il ciclo più bello era quello d’Italia, di Spagna e del Nord-Michigan di autunno. E d’autunno nel golfo al largo di Cuba. Era possibile trovare un ciclo, ma non un paese più bello. Quel che desideravo sin d’ora era ritornare in Africa. Non l’avevamo ancora lasciata, ma già sapevo che svegliandomi la notte sarei rimasto in ascolto, pieno di nostalgia. Ora a guardare dal corridoio fra gli alberi al disopra del valloncello il ciclo percorso da nubi bianche spinte dal vento, amavo tanto questo paese da sentirmi felice come ci si sente quando si è stati con una donna che si ama veramente, quando, svuotati, lo si avverte che rinasce e gonfia su di nuovo, è lì e non si potrà avete del tutto ma pure quel che c’è ora si può avere, e se ne vuole sempre di più, per averlo ed essere e viverci dentro, per possederlo ora di nuovo e per sempre, per questo lungo e cosi rapidamente terminato “sempre”: e il tempo diviene immobile, tanto immobile talvolta che, dopo, ci attendiamo di sentirlo, a muoversi, ed è cosi lento a ripartire. Ma non si è soli, perché se hai amato davvero con felicità e senza tragedie, essa ti ama sempre. Chiunque lei ami adesso, o dovunque sia, essa ti ama sempre di più. Cosi se hai amato qualche donna o qualche paese ti puoi ritenere fortunato, perché se anche muori, dopo, non ha importanza. Ora, trovandomi in Africa, ne volevo sempre di più, avido dei cambiamenti di stagione, delle piogge quando non hai necessità di viaggiare, dei piccoli disagi per i quali hai pagato perché tutto sembri più vero, dei nomi d’alberi, di piccoli animali e di tutti gli uccelli, e di sapere la lingua, e della possibilità di restarci e di percorrerla senza fretta. Ho sempre amato i paesi, i paesi son molto migliori della gente che li abita. Mi son potuto interessare solo di pochissime persone alla volta. P.V.M. dormiva. Era sempre adorabile mentre dormiva, acciambellata stretta come un animale, senza quell’apparenza di cosa morta che aveva Karl quando dormiva. Anche il sonno di Pop era tranquillo, si vedeva che la sua anima stava ristretta nel suo corpo, che non era più in grado di albergarla convenientemente. Era invecchiato, cambiato, qui si era ispessito perdendo i contorni, lì si era gonfiato un poco, ma sotto era giovane, snello, grande e solido come ai tempi in cui inseguiva il leone nella piana di Wami, e le borse sotto gli occhi non erano che esterne cosicché io lo vedevo ora addormentato come P.V.M. lo vedeva sempre. M’Cola non era che un vecchio addormentato, senza storia e senza mistero. Droopy non dormiva, accucciato sui talloni attendeva l’arrivo dei portatori. Ernest Hemingway

Direi che per oggi possa bastare così…

D.B.V.

19 Marzo: Zanna Bianca e la Festa del Papà

19 Marzo: Zanna Bianca e la Festa del Papà

Jack London in klondike - 1897
Jack London in klondike - 1897

Il 19 Marzo si celebra la tradizionale festa del papà, io nonostante gli anni sono ancora troppo scapestrato per una simile responsabilità e, soprattutto, difetto anche di una potenziale mamma. Tuttavia, essendo da poco diventato zio, non posso che fare gli auguri a tutti i novelli padri e a tutti coloro che portano avanti il difficile ruolo di genitore.

Ovviamente faccio gli auguri anche a Paolo, il mio Papà. Io sono il primogenito di tre fratelli di cui l’ultimo, Francesco, ha solo 16 anni ed ha 16 anni meno di me che, quest’anno, ho il doppio dei suoi anni (coincidenza curiosa!!). Mia mamma, Nuccia, si è purtroppo spenta due anni fa per una malattia e da allora “il vecchio” ha saputo portare avanti da solo tutta la famiglia con grandissima forza e capacità.

Io e lui litighiamo più o meno amichevolmente da almeno quindici anni ma, nonostante i rispettivi brontolii, spero sappia quanto affetto e quanta stima provi per lui. Ogni tanto Lui sembra un buco nero in grado di inghiottire l’entusiamo ma la sua esperienza difficilmente tradisce il suo giudizio ed il suo punto di vista è qualcosa che ho imparato a rispettare.

Nonostante gli anni, le esperienza belle e brutte che ho affrontato, i piccoli momenti di gloria e le cocenti delusioni, sono in grado di sostenere il giudizio e le critiche di chiunque tranne le sue. Credo (spero) sia così un po’ per tutti i figli perchè quando gli sottopongo una delle mie stravaganti idee mi sento sempre come un ragazzino di sedici anni che chiede il permesso di uscire la sera, questo nonostante le centinaia di prove ed avventure che ho condiviso con lui.

Tuttavia confesso che questa strana sensazione un po’ mi piace. Ora forse vi sembrerà sciocco ma uno dei più bei ricordi d’infanzia sono le storie che mi raccontava quando ero piccolo prima di addormentarmi. Stretto nelle mie coperte non mi raccontava favole per bambini ma bellissime storie di animali e d’avventura tratte dalla vita vera o dai grandi classici di Jack London o di Melville. Il meraviglioso Vecchio e il Mare di Hemingway letto e spiegato ad un appassionato bimbetto di 6 anni che ribolliva di rabbia ad ogni pezzo di marlin che quel maledetto squalo rubava al Vecchio. Ma oltre a Zanna Bianca e Moby Dick c’era anche una grande libro giallo che conteneva la descrizione di tutti gli animali, grandi o piccoli, e per ognuno di essi vi era un racconto. Alla faccia dei tre porcellini  io imparavo la meraviglia e la tragedia della vita attraverso le storie di animali ed uomini spesso in lotta tra l’altro o fedelmente alleati.

Quando sono stato un po’ più grande mi ha dato da leggere un piccolo libro blu con la copertina in stoffa che apparteneva al Nonno Nino e che avevo il dovere di conservare al meglio senza rovinarlo o peggio ancora perderlo. Il libro era Caccia Grossa in Africa scritto da quella straordinaria figura che fu Alexander Lake. Il titolo del libro, edito nel 1951, forse disturberà gli ambientalisti ma posso garantirvi che non troverete mai tanta natura e tanto amore per essa in nessun altro scritto. Per ogni animale africano riporta l’incredibile esperienza di un uomo che negli anni 30 attraversava un continente selvaggio a contatto con gli animali più selvaggi ed affascinanti del pianeta. Un mondo dove la realtà risplede fulgida e la forza della vita batte violenta in storie di animali ed uomini d’altri tempi. Un classico meraviglioso che ha saputo affascinare tutti coloro, uomini o donne, a cui ne ho consigliato la lettura.

Vorrei dedicare al mio papà, per la sua festa, le prime dieci righe di questo libro perchè tra i tanti maestri che ho avuto lui è sicuramente quello a cui sono più grato:
“John P.whorther, proprietario di miniere nel Colorado, andò a caccia grossa in Africa. Una mattina del 1937 si trovò a faccia a faccia con un leone. Whorther, eccellente tiratore e per di più dotato di molto sangue freddo, imbracciò il fucile e sparò. Colpì nel segno voluto, ma commise un «piccolo» errore. Due secondi dopo era morto, con i denti del leone conficcati nel cranio.
L’errore di Whorter era dovuto ad ignoranza. Egli mirò nel centro della criniera, sopra la testa del leone. E proprio in quel punto arrivò la pallottola, passando da parte a parte quella magnifica massa fulva di pelo. Whorter non sapeva che il leone è praticamente senza fronte e che il pelo che ha sulla testa non è altro che pelo.”

Il libro prosegue in una lunga serie di «piccoli» errori fatali prima di addentrarsi nella foresta e nella descrizione di avvincenti storie che hanno come protagonisti  lo scrittore alle prese con elefanti, babbuini, coccodrilli o rinoceronti in uno stile diretto ed efficace che trasmette tutta la vibrante esperienza diretta del suo autore.

Auguri Papà!!!

by Davide “Birillo” Valsecchi pubblished on Cima-Asso.it
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