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Il Viaggio in Africa dei ragazzi di Asso

Il Viaggio in Africa dei ragazzi di Asso

Pubblicato oggi sul quotidiano “Il Giorno” l’articolo realizzato dai giovani giornalisti di Bloggiornalismo.scuoleasso.it:

Con African Voices intervista a 12mila persone
[Articolo originale pubblicato su Il Giorno]

Durante il nostro viaggio virtuale in Africa, con Davide Valsecchi e Enzo Santambrogio, abbiamo incontrato Marco Pugliese,che ci ha dato la possibilità di postare dieci domande sull’Africa sulla piattaforma di 12.000 persone del portale African Voices, supporto alle ONG che operano seriamente sul territorio africano. Una buona occasione per verificare conoscenze e pregiudizi. Ne abbiamo ricavato un’intervista, non priva di sorprese.

Non ci sono tanti paesi in guerra in Africa, in molti ci sono rivolte e sommosse, lotte per migliorare la propria vita, spesso ampliate dai giornali per far notizia. Il popolo si ribella, ma la repressione economica e fisica sono sempre molto persuasive.

Chi si arricchisce molto sono i governi stranieri (USA, Europa, Cina, Russia, India, Arabia, Australia, Sud Africa) che sfruttano agricoltura e giacimenti mentre ai governi rimane quel poco che li arricchisce molto.

L’Africa vive costantemente 50-60 anni indietro all’Europa e per quanto riguarda la fame, la situazione vista da occhi di chi ci vive nel Continente è abbastanza differente dalle notizie dei media. Difficile vedere bambini morire di fame, c’è una grande povertà soprattutto vista dai nostri occhi. Bisognerebbe analizzare meglio le notizie e lasciare la parola agli africani e ai giornali africani per farsi un’idea più obiettiva. Se parliamo con un africano ci dirà sempre che meglio essere povero in Africa che in Europa.

Una grande piaga dell’Africa è l’aids mala popolazione ha più paura di contrarre la malaria, che fa più morti in assoluto.

Negli ultimi anni si è assistito all’immigrazione clandestina: molti si lasciano ammaliare dal sogno di un Europa ricca, vista magari in TV o sui giornali, e poi finiscono per ricredersi.

La leggenda che le città africane non sono paragonabili alla altre è solo leggenda: crescono a ritmi elevati e per molti aspetti sono decisamente più “ricche” di molte città europee.

Siamo rimasti sorpresi dalla differenza d’informazione ma abbiamo avuto in tasca la possibilità di farci un’idea più veritiera.

La conoscenza e il sapere non hanno mai fatto male a nessuno.

I ragazzi di BlogGiornalismo.scuoleasso.it La Scuola media di Asso ha realizzato la pagina per il campionato di Giornalismo. Gli studenti: Carlo Acquistapace, Giandomenico Alicino, Andrea Blasi, Edoardo Brugnera, Eleonora Brugnera, Simona Cadetto, Francesco Canali, Martina Castracane, Giulia Crippa, Debora Faravelli, Giulia Ferrarini, Ines Labaz, Piercarlo Lattuada, Michela Lazzarin, Gloria Locatelli, Martina Occhiuto, Francesca Paredi, Lucia Paredi, Giovanni Ramon, Aisha Rocek, Martina Ruggiero, Cristina Scarpitta. Il lavoro è stato coordinato dalla professoressa Giulia Caminada.

Benzina nel motore

Benzina nel motore

Infinito - Caspar David Friedrich
Infinito - Caspar David Friedrich

Ricevo e pubblico direttamente una lettera proveniente dall’Africa:

Solo ora mi si snebbiano le nubi che mi obnubilavano nuvolosamente la mente: te non ci fai…..ci sei!!!!

Poi stasera mi son detto: – Vai a vedere il suo sitello-, mancava solo beppe, maria e il bue e mi sbocciava un natale nel cuore.

Un Natale di buone intenzioni, pace, amore e tante favole che non fanno il mondo migliore ma almeno lo abbelliscono.

Magistrale l’incipit dell’articolo dei laghi: “La mia sorellina, oltre ad essere la mamma del mio nipotino e la moglie di un mio buon amico, è anche una valente biologa specializzata nello studio delle acque dei nostri laghi e fiumi.”

Il buon vecchio De Amicis avrebbe pianto al solo leggere sì tanti -ina -ino -buon -amico -nostri laghi e poi addirittura un VALENTE ( agg. prevalentemete maschile che esalta le eventuali doti pseudo mascoline della BIOLOGA e come se non bastasse anche…. SPECIALIZZATA!.) Puzzona della Pupazza!!!!!!

Il pezzo sullo stivalone minava definitivamente la femminilità della tua povera “sorellina” e credo che in molti si aspetteranno il prossimo articolo nel quale la tua “sorellina” ormai nostra “eroina” si calera nelle profondità dei “nostri laghi” con scafandro e tuta piombata per scandagliare i meravigliosi e misteriosi fondali melmosi dei nostri splendidissimi laghi.

Sei un pazzo ottimista lessicale, un sognatore recidivo e pericoloso, un positivo del cazzo e un felicifero in quanto portatore di felicità.

Ti dico la verità: non ho letto un cazzo dei tuoi articoli ma quel poco che ho letto mi ha donato una serenità che davvero mi mancava .

Grazie Davide
IL “Toscano”


In realtà questa lettera, ed il suo autore “Africano made in Florence”, sono riusciti a mettermi di buon umore mentre ero furente: benzina nel motore, direbbe qualcuno!!

Grazie mille  per la tua missiva maledetto toscanaccio: spero che i miei racconti, che non hai manco letto, abbiano per chi li legge lo stesso effetto della tua lettera per me.

Vedrò di dare il mio meglio per essere all’altezza della follia che mi attribuisci!!

Davide “Birillo” Valsecchi

Un cancello di Blue Matisse

Un cancello di Blue Matisse

Questa fotografia è stata scattata da John Stead, un giovane fotografo inglese in viaggio a Zanzibar con cui ho fatto amicizia. Gli ho raccontato del nostro viaggio e del nostro cancello, poi gli ho chiesto: “Scatteresti una foto del cancello per i ragazzi della scuola del mio paese?”.

John è un fotografo professionista ma ha trovato la nostra storia interessante ed ha accettato volentieri di realizzare questa suggestiva immagine partecipando alla nostra avventura artistica in Africa.

Quello che vedete nella foto è il cancello che è stato completato, un’opera ideata da Vivide e realizzata da Enzo (con il paziente aiuto del sottoscritto) per l’ingresso principale del resort cinque stelle che accoglierà la prima Galleria d’Arte Internazionale dell’isola di Zanzibar.

Ecco svelato ciò su cui abbiamo lavorato per tutte queste settimane e per cui siamo stati invitati in Africa.

Davide “Birillo” Valsecchi

Thank you again, John!! Assante sana!!
John Stead WebSite

Fiamme viola nella notte africana

Fiamme viola nella notte africana

Acqua bassa sotto il pontile
Acqua bassa sotto il pontile

La parola swahili per “corrente elettrica” è “humeme”. La cosa divertente è che lo stesso termine era usato già in precedenza per la parola “fulmine”. Quindi parlando in swahili si ha l’impressione che siano i fulmini a far funzionare tutti gli strani marchingegni elettrici che gli europei hanno introdotto sull’isola. La realtà non è poi cossì dissimile perchè la corrente elettrica è effettivamente parente stretta di un fulmine ma, nel nostro linguaggio, il tutto appare meno pittoresco, meno denso di mistero. Forse soprattutto perchè, da noi, quando i fulmini si mettono a correre nell’impianto elettrico di casa non è affatto nè normale nè un bene.

La parola “moto” invece indica il “fuoco” ed “anga” indica il “cielo”. In swahili “fuoco e fulmini nel cielo” suonerebbe più o meno così: “moto na umeme katika anga”.

Questa notte è una notte strana, intensamente strana. In Madagascar si è abbattuta una tempesta tropicale ed anche qui, nonostante la distanza, se ne sentono gli effetti. Come sapete “il napoletano”, un nostro nuovo amico italiano, è appassionato di pesca ma da ben tre giorni non riesce a prendere alcun pesce: in realtà non è colpa sua perchè la marea sembra assente ed il livello del mare è rimasto per giorni basso ed immutato.

Nel mese in cui siamo qui non era mai successo prima. La marea cambiava spesso l’aspetto del mare crescendo lungo la scogliera anche di tre o quattro metri. Ormai era abitudine durante la notte ascoltare il rifrangersi delle onde contro la roccia. Da giorni tutto tace. Probabilmente è la luna o qualche cambiamento stagionale ma l’effetto è particolare, disorientante.

Come se non bastasse la notte è rischiarata da incredibili fulmini viola che in lontananza sull’oceano sfrecciano all’orizzonte. Il mare quieto e lampi viola che silenziosi corrono nel buio senza che se ne possa ascoltare il tuono. Sono grandi a tal punto che l’occhio li vede arrampicarsi attraverso le nuvole così come vedrebbe un rivolo d’inchiostro correre lungo un foglio di carta aprendo il suo tratto in mille ramificazioni. Fulmini grandi come mai visti prima, ma muti, resi silenti dalla distanza che ci separa: lampi senza voce illuminano la notte.

Io, Enzo ed il Napoletano ci siamo incamminati lungo un pontile di legno lungo quasi 120 metri che dalla scogliera si spinge nel mezzo della baia. Da là, in fondo eravamo immersi nel mare, circondati dall’acqua guardando da un lato la terra ferma e dall’altro l’orizzonte ed il suo spettacolo di saette. Su tutto l’oceano silenzioso e quieto come mai l’avevo ascoltato.

Sì, una notte strana. Mi ricorda un piccolo libro a fumetti a cui ero decisamente affezionato che racconta proprio di una notte come questa dove tutto può succedere, persino l’incredibile: La notte del Saraceno. Spero che la signorina che ora custodisce quel mio tesoro di infanzia ne abbia debita cura, era una storia delicata di avventura ed amore che non dovrebbe andar persa.

Io ora resto qui, a guardare il fuoco del cielo ed il silenzio del mare. E’ una notte strana di cui ancora nessuno conosce l’alba.

Davide “Birillo” Valsecchi

Con noi  non abbiamo l’attrezzatura fotografica per “catturare” i fulmini ma quest’immagine, presa da fenomenitemporaleschi.it, si avvicina molto, sebbene in piccolo, a quello che possiamo vedere noi da qui. Giulio, il nostro ingegniere al “Campo Base Le Zie”, poi mi/ci spiegherà perchè i fulmini sono viola qui =)

A caccia di Fantasmi

A caccia di Fantasmi

Blue Matisse
Blue Matisse

Il Sabato i quasi ottanta operai che lavorano nel cantiere tornarono verso casa e nella struttura rimanemmo solo noi sette europei e quindici ascari, le guardie locali. Sembrava una serata qualsiasi ed avevamo da poco finito cena quando il capo cantiere, che era in città, chiamò il capo squadra con una scomoda novità. C’era in giro la voce che quella notte sarebbero venuti a far razia nel cantiere con la compiacenza di alcune delle guardie: “…qualcuno degli ascari è con voi non so di quanti possiate fidarvi. Fate attenzione: senza fare gli eroi tenete gli occhi aperti”.

Il cantiere ospitava cinquanta bungalow e sette ville super lusso ormai quasi complete ed ammobiliate di elettrodomesti e condizionatori: una struttura imponente nel cuore dell’Africa a ridosso dell’Oceano Indiano.

L’area era vasta ed attraversata da piccoli vialetti immersi in un rigoglioso giradino esotico. I giardinieri non avevano ancora cominciato a potare le piante e nemmeno gli elettricisti avevano concluso l’istallazione delle luci: quei vialetti erano una dannata giungla buia a ridosso del muro di cinta verso la shamba, la campagna.

Andammo nel complesso principale ed accendemmo tutte le luci, salimmo sui tetti e puntammo alcuni fari nelle zone più buie ma, camminando lungo il perimetro, ci si rendeva conto di quanto fosse indifendibile quel posto senza le cancellate ed i fari di sicurezza che ancora dovevano essere installati. In quelle condizioni se una decina di uomini avesse deciso di entrare con un camion sfruttando l’appoggio delle guardie sarebbe stato impossibile impedirgli di portarsi via tutto.

Non mi andava di ritrovarmi ai ferri corti senza niente in mano e così tornai al cassone del rottame. Nel pomeriggio avevamo tagliato con il plasma una piastra da 3 millimetri sagomandola con una figura simile alla “donna blue” di Matisse. Uno degli scarti della sagoma mi aveva colpito per la sua forma allungata. Mi infilai i guanti di pelle e dopo una breve ricerca “impugnavo” di nuovo quel pezzo di metallo: un’ellissi allungata ed appuntita seguita da un sottile manico. Con una corda di nailon irrobustii l’impugnatura e fui soddisfatto del risultato.

La lama era frastagliata ma non aveva filo, era lunga circa cinquanta centimetri e terminava in una punta molto aguzza. Lo spessore la rendeva solida e l’impugnatura di una spanna rendeva facile afferrarla con una o due mani. Era artigianale ed improvvista ma era una buona arma. La arrotolai in una maglietta e me la misi sotto braccio. Sapevo che, per quanto buona, era solo una “piuma di pavone” e che la nostra unica concreta possibilità fosse far capire agli ascari corrotti che avevamo mangiato la foglia e che per quanto impreparati avremmo vigilato tutta la notte.

Al mio socio piacque il mio machete improvvisato ma, non trovando nulla di meglio, dovette accontentarsi di un semplice bastone di legno trovato nel laboratorio del carpentiere. Ci dividemmo in gruppi da due controllando i vari edifici e percorrendo in lungo ed in largo la struttura. Gli ascari erano sempre in giro e capirono che qualcosa di strano stava succedendo quella notte: noi guardavamo loro e loro guardavano noi. Quando nel buio dei vialetti ci incontravamo gridavo “Poa”, tutto bene, e loro facevano lo stesso dopo avermi riconsciuto. Era una strana situazione, nessuno si fidava più di nessuno ed ogni rumore ed ombra nella notte erano un buon motivo per trattenere il fiato.

Il carpentiere moldavo alla fine prese la pazienza ed affrontò il problema di petto. Si piazzo davanti all’ascari che dormiva sotto la mensa cucina e gli chiese duro, diritto negli occhi: “Dove è il problema questa notte?” L’ascari faceva finta di non capire, di non sapere ma il moldavo lo pressava: “Bungalow o ville? Dove?” L’ascari si ammutolì abbasando la testa. Il moldavo si convinse che non sapesse nulla e si voltò per continuare il suo giro. Fu quell’attimo che l’ascari sussurò “Bungalow” ed un brivido corse sulla schiena di noi tutti.

Avevamo deciso di montare la guardia tutta la notte e ci davamo il cambio rientrando in stanza per riposare un oretta. Io mi stesi sul letto e chiusi gli occhi. Ognuno di noi aveva sulle spalle una dura giornata di lavoro e dormire era ciò che avremmo sperato per la notte prima di quella telefonata.

Precipitai nel buio. Ero in un’albergo di montagna, uno di lusso. Eravamo nella Hall ed ero seduto ad un tavolino su di una poltrona di pelle. Davanti a me c’era un tipo biondo, occhi azzurri, aveva la mia stessa età ed altezza. Aveva i capelli un po’ lunghi ma ben curati e lo sguardo tagliente. Ben vestito aveva un grosso orologio in acciaio al polso. Io indossavo un hip-hop in plastica anni 80 che mi aveva prestato Bruna per tenere il tempo quando uscivo a nuotare in mare. Il tipo mi era già antipatico ancor prima di scoprire che era il nuovo fidanzato della mia ex.

Cominciò a raccontarmi che era il titolare di una piccola ma arrembate società di consulenza informatica e si mise a snocciolare i nomi dei prestigiosi clienti per cui lavorava quando al mio fianco apparve il padre della mia ex. Il vecchio era un tipo simpatico, eravamo molto amici anche se erano ormai anni che non ci vedavamo. Sorrideva ed aveva stampato sul viso un’espressione che letteralmente diceva: “…bhe, vedi, lui è un’altra cosa…”. Il biondo cominciava ad irritarmi seriamente.

Pensavo di essere al limite della sopportazione quando al tavolo si sedettero mio padre ed il padre di Bruna con il suo cappello da cow-boy e la sua passione per il Far-West. Il biondo cominciò a raccontare della sua collezione di Tex Willer anni ’60 e della sua ultima battuta di pesca in Canada in compagnia di un suo grosso cliente. Mio padre lo ascoltava interessato ed il padre di Bruna gli assestava compiatute pacche sulle spalle.

Ero furioso, il mio odio per il biondo era palpabile come il mio silenzio. Il peggio doveva ancora venire. Mi voltai e vidi Bruna e la mia ex camminare verso di noi chiacchierando tra loro come vecchie amiche: erano bellissime.Era la prima volta che vedevo insieme mia moglie e la mia ex-moglie e restai sorpreso da quanto onestamente volessi bene a quelle due donne. Per un attimo fui felice, almeno fino a quando il biondo, aggiustandosi la giacca, non si alzò in piedi per accoglierle sfoderando il suo sorriso migliore arrogantemente sicuro di essere il maschio Alpha tra noi due.

Era troppo, non ero più lì. Ero nella cucina dei miei, in compagnia di mia madre e guardavo fuori dalla finestra la nebbiolina di novembre che si alzava dalla valle del Lambro. Lei sapeva darmi una grande calma. In ogni mio viaggio più mi allontanavo da casa e più  spesso la rivedevo, più profodamente riemergeva dai miei ricordi. Rivederla era sempre terribile e magnifico. Mi guardò e mi disse: “Perchè ti dai il tormento?”.

Nei miei pantaloni cominciò a vibrare silenzioso il cellulare. Era la sveglia. Ero di nuovo in Africa, completamente vestito nella mia branda con lo scarto di un Matisse come arma. Ero sveglio ed era di nuovo il mio turno. Era il mio momento di tornare tra le tenebre a caccia di fantasmi.

Davide “Birillo” Valsecchi

Il leone di Emendi

Il leone di Emendi

Leone
Leone

I ragazzi della scuola di Asso mi inviano domande sull’Africa ma questa volta, sempre restando in tema, vorrei raccontare una storia e chiedere loro di approfondirla con una piccola ricerca.

Io ed Enzo ci troviamo spesso a parlare del passato di Asso e questa storia risale a quando lui aveva più o meno dodici anni. A quei tempi il Signor Emendi, di cui non ricordiamo il nome, era un agricoltore di Scarenna e ad una fiera di paese, forse di Erba o di Como, aveva fatto il pià strano degli acquisti. In quegli anni alle fierevendevano ogni specie di animale esotico in circolazione ed il Signor Emendi comprò niente meno che un cucciolo di leone.

Il leone crebbe così tra gli altri animali nella piccola fattoria di Scarenna, allevato come un grosso gatto da compagnia. Emendi andava spesso al circolo di Scarenna a giocare a carte con gli amici e portava con sè il felino tenendolo al guinzaglio come un comune cane. I bambini, come Enzo all’epoca, arrivavano da Asso in bicicletta fino alla frazione proprio per vedere l’esotico animale.

Orbene, la storia si fa interessante quando un pomeriggio di mezza estate al circolino si presentò un distinto milanese accompagnato dal suo grosso ed elegante cane lupo di razza. “Non vada mica dentro che c’è un cane più grosso e più cattivo del suo qua” gli dissero in rigoroso dialetto quelli che stavano sulla  porta del circolo.“Il mio Black non ha paura di niente” rispose il signore in perfetto ed altezzoso italiano entrando con baldanzosità  nel circolo con il fedele Black.

Enzo, bambino, non poteva entrare nel circolo ma dai suoi racconti si può capire cosa successe. Si udì Black abbaiare fino a che non rimbombò un tremendo  ruggito seguito da una sequenza inenarrabile di divertite imprecazioni in dialetto del signor Emendi. Black scattò come un fulmine attraverso la porta tenendo le coda tra le gambe “come se lo stesse inseguendo un leone” mentre il milanese, subito appresso, urlava frasi del tipo:“voi non siete normali!! Un leone!! Per dio, un leone!!”.

Enzo, sbirciando attraverso la porta, vide il leone in piedi che scodinzolava ed il Signor Emendi, in compagnia di “Vaifro” e “Geni“, che rideva soddisfatto seduto comodamente al tavolo. Storie di paese, verrebbe da dire, storie di Asso in verità.

Si racconta che il leone divenne poi troppo grosso ed il Signor Emendi troppo anziano e così, un giorno, cinque domatori di un circo si presentarono per prendere in custodia l’animale. I domatori provarono a mettere in gabbia il leone ma ogni sforzo il pareva vano fino a quando Emendi, spazzientito, si avvicinò alla bestia e prendendolo per la criniera gli disse “fai mica l’asino!! vedrai che ti troverai bene!!”. Il leone gli saltò adosso e lo leccò come se fosse un gatto accettando di buon grado di salire sul furgoncino.

Asso ha quindi il suo leone e le sue storie di animali selvaggi. Enzo ricorda che Emendi aveva una sorella che forse potrebbe conservare ancora una foto del fratello e dell’animale. Bisognerebbe chiedere ai decani, al Dottor Pagani o al Signor Paredi.

Ora che sono in Africa via lascio a voi, insegnati e ragazzi, il compito di approfondire questa storia chiedendo a vostri genitori o ai nonni.

Come vedete il mondo è piccolo ed il nostro paese offre storie da scoprire, curiose e misteriose, quanto l’Africa.

Davide “Birillo” Valsecchi

Bukowski, Hemingway e l’Uragano Bruna

Bukowski, Hemingway e l’Uragano Bruna

Donne e Mare: stesso brutto carattere
Donne e Mare: stesso brutto carattere

A volte mentre si è in viaggio ci si annoia parecchio: è un fatto. Tutto comincia a correre sempre più in fretta e quando rallenti, anche solo per una pausa, ti ritrovi ad annoiarti spiccicando zanzare al tramonto del sole africano.

Di solito depredo tutti libri di quart’ordine che qualche turista ha abbondanto nei posti dove ci si ferma a dormire ma in tre anni mi è capitato solo un libro interessante, un saggio di psicologia in inglese, mentre il più delle volte sono romazetti economici da leggere e dimenticare.

Questa volta però mi sono attrezzato. Ho portato con me due volumi economici: il primo è “Storie di ordinaria follia” di Cherles Bukowsky, mentre l’altro è “Le verdi colline d’Africa” di Hernest Hemingway. Io due sono tra i massimi scrittori statunitensi del ‘900 con la sola differenza che Bukowsky era un “dannato perdente” mentre Hemingway vinse il premio Nobel per la letteratura ed è considerato il più classico degli scrittori d’avventura.

Di Bukowski avevo letto “post-office”: Iceman, per infierire, me lo aveva prestato quando mi era arrivata la chiamata di naja (fu una scelta azzeccata). Questo che ho portato, che è la sua opera più nota, l’avevo però letto solo a tratti, solo qualche racconto qua e là. Bukowski ed Hemingway stanno sulla stessa linea ma diametralmente opposti, le due faccie di un’unica dannata medaglia. Li sto leggendo in parallelo e trovo la cosa molto divertente:due “bastardi alcolizzati” che in età avanzata e dopo una vita densa di eventi riempiono il bicchiere battendo tasti su una macchina da scrivere. Due anti-eroi, due strade parallele che portano allo stesso inevitabile destino.

Tra i due Bukowski è quello che mi fa ridere di più. Quando leggo le folli e sregolate storie di “Charlie Bukowski, detto gambe d’elefante, il fallito” scoppio a ridere come un bambino felice ed Enzo si mette a protestare sfottendomi: “Come fai a ridere leggendo Bukowski?!?”.  Rido, forse perchè anche io sono uno sfigato perdente o forse perchè mi piace la vita ruvida, l’aspetto melmoso e putrito dell’esistenza umana, quel lato buio, reale e cinico che in pochi hanno l’onestà e la dignità per raccontare: essere un perdente, completo, totale, assoluto non è cosa da pochi. Ci vuole una gran testa per scivolare sempre più in basso, sempre più a fondo nella disperazione ed avere la forza di raccontarlo come fa Bukowski.

I due erano poi “quasi” contemporanei: Bukowski 1920 ed Hemingway 1899 ma è indiscutibile che Hernest fosse un uomo di un altro secolo. In un racconto Bukowsy, mezzo ubriaco, racconta persino di aver telefonato ad Hemingway: la cosa divertente è che la telfonata avvenne, nel roccambolesco racconto, qualche mese dopo che Hemingway si era sparato, ma nonostante questo i due chiacchierano felici e spensierati così come ci si aspetterebbe da un “perdente alcolizzato” e da un “premio nobel alcolizzato e suicida”.

Bukowski in un racconto scrive: “il vecchio Ernie ha scritto alcune cose piuttosto brutte negli ultimi tempi – qualche rotella gli s’andava allentando – ma, anche allora, faceva far agli altri la figura di scolaretti che alzano la mano per chiedere il permesso di fare una pisciatina letteraria. Io lo so perchè Ernie andava alle corride…” e qui, Charlie, attacca nello spiegare perchè porterebbe i suoi studenti, qualora ne avesse avuto, all’ippodromo per fare scommesse ed imparare qualcosa sul mondo. (onestamente la sua teoria ha anche un senso).

Tutto questo giro di parole solo perchè, mentre ero sul ponte della nave che mi portava a Zanzibar, mi è capitato di leggere una frase di Bukowski che mi è rimasta impressa nelle due lunghe e noiosissime ore di attraversata in mare: “mostratemi un uomo che abita solo ed ha la cucina perpetuamente sporca e, 5 volte su 9, vi mostrerò un uomo eccezionale” Questa è una massima di Cherles Bukowski che venne proferita il 27 Giugo del 1967 dopo la 19a birra.

Io ed Iceman avevamo un libro pieno di massime alcoliche partorite al pub “La giraffa” di Lambrate dopo gli allenamenti di Karate. Questo mi fece riflettere. Io ho vissuto da solo da quando di anni ne avevo venti e la mia cucina è sempre stata un’apocalisse. Ero talmente stufo della cosa che nella mia ultima casa, per tre anni, la cucina nemmeno c’era (se hai una cucina prima o poi ti tocca cucinare).

Per questo non sapevo come pormi con l’assioma di Bukowski sopratutto perchè ora, forse finalmente, una cucina la possiedo o, quanto meno, così ero felicemente convinto mentre cominciavo a scrivere quest’articolo. Non che mi interessi la cucina in sè ma Bruna ne voleva una e quindi, meno di due mesi fa, ho impacchettato tutte le mie cose e trasbordato in una casa che ne fosse dotata.

Tuttavia, grazie alla magia della comunicazione globale, dall’Italia mi sono arrivate notizie piuttosto burrascose dalla mia “quasi-metà” ed ora, onestamente, non so davvero se ce l’ho ancora una cucina, anzi, per quel che ne sò le mie cose potrebbero essere sparse sui marciapiedi (inesistenti) di Scarenna.

In realtà mi sento come un americano in viaggio che, guardando il telegiornale, vede la propria casa galleggiare tra le onde di un’inondazione o sparsa a pezzi dal passaggio di un tifone: “Guarda in Tv parlano dell’Uragano Bruna e quella è la tua casa. O quello che ne resta, Birillo”. Cosa dovrei fare? La cosa ridicola, o drammatica, è che avevo finito il trasloco della mia roba esattamente il giorno prima di partire (tre giorni fa). Un vero peccato: cominciavo a sentirmi, nell’accezione di Antoine de Saint-Exupéry, felicemente “addomesticato”.

Forse è il jat-lag ma ma è un po’ come essere in un racconto di Chuck Palahniuk: sono in strada davanti al mio frigorifero, tristemente pieno solo di condimenti, dopo che è precipitato fuori dal palazzo quando il mio appartamento è esploso (Sono stato io? Forse…). Mi aspetto che da un momento all’altro si manifestino Tyler Durden e Marla Singer: “le cose che possiedi alla fine ti possiedono”. Ma accidenti: è lei che ha lo shopping compulsivo, tutte quelle vaccate Ikea “da svedese represso chiuso in casa” le ha prese lei!!!

Sta di fatto che ora sono in Africa e per come mi sento ora potrebbe benissimo atterrare un idrovolante sulla spiaggia con a bordo un messia qualunque e non ci troverei nulla da obbiettare. Probabilmente mi piacerebbe solo avere tra le mani quel libricino di Richard David Bach che mi regalò Vittoria tanti anni fa con le piccole speranze che conteneva: “Illusioni: Le avventure di un messia riluttante”

Non stento a credere sia tutta colpa mia ma alle volte la mia vita è tale casino che non mi stupisce che per metterla un po’ in ordine abbia cominciato a raccontarla a puntate: «Non c’è niente di statico. Tutto va a pezzi, ma da quello che il bruco chiama fine del mondo il maestro la chiama una farfalla». Al diavolo lo Zen, ai tropici fa troppo caldo per una birra…

Davide “Birillo” Valsecchi

La forza di un sorriso debole

La forza di un sorriso debole

René Magritte - Il castello nei Pirenei
René Magritte - Il castello nei Pirenei

Io e Dario, il mio maestro, eravamo al bancone del bar di Lambrate. Nonostante l’Inverno eravamo in ciabatte e sotto le giacche indossavamo ancora il Karate-gi, la divisa bianca del Karate-do. Eravamo sempre di corsa spostandoci da una palestra all’altra cercando di arrivare in orario per iniziare le lezioni. Quella sera eravamo in anticipo e ci siamo concessi, indifferenti al nostro inconsueto aspetto, almeno un bicchiere di birra per tirare il fiato.

Avevamo appena lasciato una classe di bambini tra i 10 e 15 anni. Erano bimbi speciali: erano affetti di disfunzioni fisiche e mentali ma nonostante questo riuscivano ad esprimere nell’allenamento, che vivevano come un gioco di gruppo, un grande entusiasmo. A gestire la piccola classe una giovane ragazza che praticava Aikido nonostante fosse priva dell’uso di un braccio. Noi eravamo andati in visita, lei e Dario erano buoni amici.

Mentre ingollavamo birra Dario, un omone di quasi due metri, attacca con uno dei suoi discorsi:“Vedi Birillo, quei ragazzini mi danno sempre da riflettere” mi disse “In Oriente sono convinti che ci si rincarni vita dopo vita perché il nostro spirito si evolva attraverso l’esperienza. Quando vedo quei ragazzini mi rendo conto che la loro vita, la lora esperienza, è molto più dura della mia e forse questo significa che nel profondo sono molto più evoluti di me.” Sospirando con un sorriso malizioso tirò un fiato di birra “Nella grande ruota noi, che ci vantiamo della nostra forza, siamo come bambini all’inizio del nostro viaggio mentre loro sono vicini alla fine”

Quando il mio maestro si fa serio, quando non parla di donne o non si diverte a mettermi in imbarazzo di solito nasce una sfida tra noi: dissemina il discorso di trappole e se ne sta a guardare cosa combino. La sera prima si era presentato in palestra un gigantesco egiziano di vent’anni, aveva la borsa d’allenamento piena di pergamene di presentazione e titoli vinti nel suo paese. Voleva allenarsi ma nessuno delle cinture nere si era prestata al confronto preferendo non correre rischi. “Dai Birillo, vieni tu!” Aveva semplicemente detto Dario. Mi sono sempre piaciute le sfide più grandi di me, battermi al limite delle mie “probabilità“.

Dario stava stuzzicando il mio orgoglio: “Può essere” gli risposi “Forse però non siamo meno evoluti, semplicemente la nostra forza è lo strumento con cui dovremmo affrontare sfide ancora più dure. Abbiamo questa forza non perché siamo più deboli ma perché dobbiamo raggiungere uno scopo.” Il sorriso di Dario si fece ancora più compiaciuto e trionfante dietro il bicchiere, mi aveva portato esattamente dove voleva arrivare: “Bravo Birillo, ma ora che hai visto la loro forza saprai far buon uso della tua?” Si può rispondere, in modo onesto, ad una domanda simile?

Ero a Kigoma, in Tanzania, quando mi è tornato alla mente quest’episodio vecchio di quasi dieci anni. Ero seduto in una lercia veranda di un malandato ristorante. Insieme ad Enzo e a due tedeschi stavo mangiando Red Snapper alla griglia e patatine fritte. L’aspetto del pesce era orribile quasi quanto il gusto e nonostante la fame mi sforzavo di mangiare quella schifezza.

Lungo la strada polverosa vedo passare un bambino dall’età indecifrabile. Era tutto curvo con la testa incassata nelle spalle mentre teneva le mani vicino al petto gesticolando e parlando da solo. Camminava con gli occhi semi chiusi con un sorriso permanente nonostante tutto nel suo corpo esprimesse supplica e sottomissione. Ho cercato di inquadrarlo mentre tutta la gente in strada lo evitava: il ragazzino era evidentemente affetto da problemi mentali ed in Africa, dove questo tipo di malattie non sono nemmeno riconosciute, è una condanna a sopravvivere come un emarginato.

Non smetteva di sorridere trasmettendo gioia nonostante la sottomissione che, forse volutamente,  esprimeva in tutti i suoi gesti contratti. Pensavo stesse in qualche modo fingendo un ruolo, peraltro giustificabile, ma era realmente autentico: ho visto un bimbo “fuori sincro” con il mondo che nonostante la sua terribile condizione, di cui era inconsapevole, era pervaso da una vera gioia, non stava fingendo bensì nel “suo mondo” si stava semplicemente adattando. Chiedeva, ridendo e supplicando al contempo, quello che gli serviva perchè quello era l’unico modo che l’esperienza gli suggeriva, nessuna premeditazione o ipocrisia.

Tutto in lui sembrava chiedere pietà ma il suo sorriso dietro quegli occhi chiusi e quel corpicino contratto mi catturava. Mentre lo guardavo incurisito la padrona del locale uscì allontanandolo in malo modo. Non sapevo ancora cosa fare e quindi non feci nulla, mi limitai ad attendere.

Il mio appetito era ormai scomparso e nel mio piatto c’erano ancora un buon numero di patatine e mezzo pesce. Avevo perso di vista il ragazzo quando ho sentito tirarmi i capelli (che per i Sikh rappresentano la sede della forza spirituale). Non avevo avvertito nessuna minaccia e girandomi me lo ritrovo davanti mentre rideva. Quello scricciolo era sgattaiolato dentro la veranda arrivandomi alle spalle senza farsi sentire: ora aveva la mia piena attenzione mentre con infinita semplicità indicava il mio piatto. Quando la padrona  si è avvicinata ostile l’ho fulminata con lo sguardo mentre appoggiavo il mio piatto sul tavolo vicino.

Il piccolo, che non toccava terra seduto sulla sedia, ha cominciato a mangiare con le mani le patatine ed il pesce rimasto mentre lo guardavo sempre più incuriosito ed affascinato. All’improvviso si è alzato, sempre “fuori sincro” con il mondo, per prendere il sale: era “altrove”, in posti dove non potevo raggiungerlo. Non riuscivo a comunicare verbalmente con lui, non parlava e si esprimeva a gesti sempre sottomesso, ma inconsapevolmente era presente nel suo mondo che, da fuori, non era di sicuro il mio.

Ho ordinato una tazza di frutta a pezzi, ne ho mangiato metà e poi allungato la scodella al piccolo che aveva finito il pesce. Probabilmente non gli piaceva la frutta o semplicemente non avvertiva più la fame perché si è alzato e saltellando come uno gnomo se ne è andato con la stessa rapidità con cui era apparso. Avevo dato a lui quello che non mi serviva e per questo non c’era bisogno che mi ringraziasse.

Poi sono scoppiato a ridere divertito finendo la mia frutta: da piccoli ci insegnano che non si lascia il cibo nel piatto perché i bimbi in Africa muoiono di fame. Io ne avevo appena sfamato uno facendo l’esatto contrario.

Davide Valsecchi

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