Dans le néonatologie

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Il sole sorge presto, tredici ore di luce e tredici ore di buio: tocca darsi da fare! Come quasi sempre accade è difficile capire di cosa io mi occupi: un po’ di questo, un po’ di quello, un po’ qui ed un po’ là. “Faccio cose, vedo gente” insomma. Oggi sono passato dalla falegnameria al porcilaio passando da mansioni in farmacia. Quello che è certo è che cammino un sacco: cammino, osservo e cerco di imparare.

Bruna invece ha una mansione ben precisa e che dovrebbe finalmente dare soddisfazione (e saturazione) al terribile istinto materno con cui mi ha tormentato negli ultimi mesi. Lei passa infatti la sua giornata nella neonatologia, un reparto dove ci sono quindici bimbi sotto i cinque mesi e circa ottanta bimbi sotto i tre anni. Ogni due ore passo a trovarla per portarle un po’ d’acqua da bere e butto uno sguardo in quel vociante pandemonio.

Ogni mattina, dopo che le “mami” hanno lavato tutti piccoli, passa Suor Anna distribuendo la colazione e lasciando che i bimbi giochino in una stanzetta che funge da asilo. Gli altri bambini, quelli malati o ancora nella culla, sono in piccoli lettini di ferro che paiono emersi da un passato antico di generazioni.

La neonatologia per noi foresti appare spartana ma non potrebbe essere altrimenti visto che quegli esserini, tanto bellini e sorridenti, “cagano e pisciano” a ciclo continuo rendendo il “cambio” un’impresa industriale da catena di montaggio. Utilizzare i pannolini qui sarebbe impensabile, sia per il costo, sia per la difficoltà di reperirli. Per questo le “mami” usano una specie di “ciripà” (una copertura esterna) ricavato da sacchetti di plastica al cui interno inseriscono un’ imbottitura di stoffa fatta di scampoli di vestiti. La stoffa viene poi lavata e riutilizzata: una mami si occupa a tempo pieno del bucato.

Anche il cibo diventa un’operazione in serie ed in questo ciclo, che si ripete più volte durante la giornata, sono quelli più fragili e quelli che stentano a mangiare che richiedono la maggiore attenzione: nutrirli è una piccola ma massacrante gara di resistenza da vincere ogni giorno.

Oggi sono passato dal reparto durante la poppata e non ho potuto che rimanere stupito nel vedere come persino le tettarelle dei biberon siano logore dall’immane sforzo di sfamare i bimbi. Ogni cosa qui è portata al suo limite e spesso spinta oltre: così è per gli oggetti, così è per le persone.

Sempre questo pomeriggio aggiustavo una presa di corrente nel reparto ed in quel mentre  Padre Hugo è passato a fare visita ai bambini. Io ad oggi non sono ancora riuscito a visitare tutti i reparti della pediatria, lui lo fa tutti i giorni e ricorda nome e patologia di ogni bambino. Dopo trent’anni in Africa Padre Hugo è davvero un medico straordinario con un’esperienza vastissima ed una capacità diagnostica incredibile.

Mi sono fermato e l’ho voluto osservare: volevo vedere. Lo guardavo mentre prendeva la mano ad un bimbo, mentre ne faceva camminare un altro cantando in francese o semplicemente quando, entrando in una stanza, gettava lo sgurado tra i lettini. Il suo viso è sempre sorridente ma con la dovuta attenzione si nota quanto nei suoi occhi scuri ci sia molto di più: è una grandissima fortuna che Padre Hugo sia una persona buona. La sua forza, la sua determinazione e la sua perseveranza risplendono nel suo sguardo sorridente.

Veloce come è arrivato se ne era andato via verso il prossimo reparto: lui probabilmente cammina molto più di me.  “Sono un servo inutile a tempo pieno” mi ha detto oggi mentre lo accompagnavo per un tratto di strada. “Ma se è trent’anni che tieni botta in questo casino di paese!?” avrei voltuo replicargli ma, onestamente, mi sarebbe parso sciocco ribadire l’ovvio ad una persona come lui.

Davide Valsecchi

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