«Andiamo a farci un giro?». Io mi riempio il bicchiere di aranciata e vino rosso mentre la Zia Giusy mi appoggia un piatto di pasta sul tavolo della trattoria. «Perché no. Andiamo ai Corni domani» rispondo.
Così il giorno dopo, mio cugino Enrico ed io, ci troviamo a Gajum ed infilati gli zaini, iniziamo a risalire lungo la valle della Ravella. Enrico è mio coscritto, ci conosciamo da quando siamo nati ma negli anni le nostre strade si sono sempre incrociate ed allontanate in maniera curiosa. Forse è anche per questo che quando riescono a camminare parallele, anche solo per un po’, ne sono davvero felice.
Fabrizio era costretto al lavoro e così, a sua insaputa, era stato tanto gentile da prestarmi l’imbrago ed il set da ferrata con cui equipaggiare Enrico. La “Bat Caverna”, una disordinata stanza di casa mia è adibita a magazzino per la squadra di Cima proprio per questo: avere quello che serve quando serve e per chi serve.
L’attacco della Venticinquennale, la ferrata del Corno Occidentale, mostra i segni dell’inverno e la catena dell’ancoraggio iniziale, invece che essere trattenuta, ora trattiene un grosso masso staccatosi per il disgelo.
La catena, riemersa dalla neve, è ancora annerita ed ossidata rendendo le nostre mani nere come quelle di un meccanico. La primavera e l’uso la renderanno di nuovo pulita e lucida.
Salvo la piccola frana all’attacco e qualche placchetta che “canta” sotto i colpi di un moschettone non ho trovato particolari problemi lungo la ferrata: ha superato benone l’inverno (ammesso che sia finito!).
Prima di salire alla cima mostro ad Enrico il buco del Passo della Vacca. E’ incredibile quante persone passino dal corno senza mai essersi accorti di questa stranezza che, nei tramonti estivi, brilla nella montagna ben visibile dalla valle.
Scendiamo per il caminetto, ancora coperto di neve ghiacciata, e proseguiamo per il Corno Centrale. Superata la vetta, come due bambini, ci sdraiamo sporgendoci con cautela oltre il ciglio della vertiginosa parete Fasana che, strapiombante, precipita infinita sul ghiaione sottostante: «La gente è spesso sprezzante con i Corni di Canzo perché sono considerate montagne poco prestigiose: la verità è che quassù ci sono sfide alpinistiche che alla maggior parte non conviene raccogliere».
Più avanti ci infiliamo nella Fessura al Pilastrello, una lunga e profonda spaccatura tra due alti pareti di roccia. Qui l’acqua ha reso ogni forma arrotondata e, sebbene sia divertente salire in opposizione fino al sasso incastrato, è impresa ardua immaginare di spingersi oltre, oltre l’ampiezza delle braccia. Sul fondo però le targhette di via raccontano come, nei tempi eroici, giovani come noi abbiano speso i loro giorni “superando l’ostacolo”. Altre targhe invece ricordano chi, in quel tentativo, ha perso tutto. Siamo “solo” ai Corni ma questo angusto spazio è quasi un santuario.
«Hey, li vuoi un po’ di fichi secchi?» Riscaldati dal sole, ma accarezzati da un venticello freddo, facciamo sosta ai piedi della croce del Corno Orientale. Uno, due e tre: per Enrico questa è la sua prima traversata dei tre Corni. Sono quasi tentato di scendere fino al quarto, il Corno Rat o Corno di Valmadrera, ma il piano era rientrare presto e così scendiamo diretti a valle verso un altro grande amico e custode di queste montagne: il grande Fo, il gigantesco faggio che si innalza vicino ad una fontanella appena oltre il crinale della val Ravella.
«La prossima volta andiamo a vedere la mia Montagna Sacra: il Moregallo». A volte anche gli indigeni, e non solo i forestieri isolani, hanno bisogno di “scoprire” le meraviglie del Triangolo Magico del Lario.
Davide Valsecchi