Monte Rosa: atto secondo

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La Capanna Margherita è posta sulla cima della Punta Gnifetti, a 4556 metri di quota è il rifugio alpino più alto in Europa. La sua fama è leggendaria così come lo è la sua posizione a strapiombo sull’impressionante parete est del Rosa: 2600 metri  di dislivello, la più alta delle Alpi e per morfologia l’unica di tipo himalayano.

Quando arrivi al Margherita la quota ti picchia in testa come una campana, spesso chi ha provato a dormire lassù racconta di nottate da incubo in preda ai disagi del mal di montagna: è il tetto della Alpi, il mio socio Giovanni ed io eravamo bloccati lassù a causa del mal tempo.

Per dormire avevo messo al posto del cuscino una grossa coperta in modo da potermi sdraiare senza rimare completamente orizzontale. Io dormo ovunque e neppure la Margherita è stata un eccezione. Per riposare ho però dovuto  impegnarmi, rilassarmi  e focalizzarmi sulla respirazione fino a cadere nel sonno. Nonostante tutto si fa comunque parecchia fatica a recuperare e si percepisce come il corpo sia provato costantemente dalla quota e dalla scarsa acclimatazione.

A parte i tre rifugisti Giovanni ed io, per via del brutto tempo, eravamo gli unici occupanti della Capanna. Alle sei del mattino tutta la struttura vibrava scossa dal vento, nonostante la sua gloriosa storia sembrava tremare e vacillare sotto i colpi del mal tempo. Appoggiato alla parete la sentivo viva, inquieta e tormentata. Poi un lambo di luce mi scuote dal sono. Penso sia la frontale di Giovanni ma aprendo gli occhi non vedo nulla. Poi un altro lampo, appena fuori dalla finestra. Nessun rumore, solo scoppi di luce.

Poi le luci si fanno più intense ed acquisiscono voce. Smonto dalla branda e scendo da basso. I gestori del rifugio sono già all’opera: il generatore si è fermato e stanno trafficando per aggiustarlo. Altre lampi e altri scoppi risuonano all’esterno. I gestori mollano in fretta il generatore e schizzano nuovamente nel rifugio come inseguiti dai diavoli: “Non uscite! Non uscite! Arriva l’inferno laffuori!!”

Gli scoppi diventano crepitii, colpi secchi e schianti. Il rifugio e tutta la montagna circostante sono bersagliati dai fulmini: siamo nel cuore della tempesta, là dove i fulmini nascono quando li osserviamo dal fondo valle!

Per tre ore la Margherita è un bersaglio: la gabbia di faraday ed i parafulmini che la compongono vengono  flagellati dalle scariche elettriche. Noi all’interno, tenendoci a debita distanza dalle finestre, siamo al sicuro: tutto ciò che ci circonda è senza scampo! Sembra di essere sotto un bombardamento, senza generatore siamo quasi al buio e senza riscaldamento. Siamo lassù in cinque, siamo sereni ma la preoccupazione sfiora tutti.

Di provare a scendere non se parla nemmeno e le ore, ancora implacabili, scorrono lente e veloci al contempo. Se vogliamo tornare a casa dobbiamo vincere la nebbia scendendo fino alla Gnifetti attraverso il ghiacciaio del Lys. Dobbiamo essere laggiù per le quattro o le funivie saranno ferme e dovremmo comunque attendere un altro giorno per rientrare.

Alle dieci finalmente il generatore riparte. La situazione migliora ma la nebbia ed il vento non sembrano dare tregua. Durante la notte ha nevicato ed ora tutto è coperto da un soffice strato di neve: non c’è alcuna possibilità di trovare le tracce della pista attraverso il ghiacciaio.

A mezzogiorno infiliamo l’equipaggiamento ed usciamo. “Facciamo almeno un tentativo Giò, andiamo a vedere com’è”. Il vento è calato, il cielo si è aperto in una leggera schiarita e per un breve istante si è intravvisto anche il blu del cielo. Legati iniziamo la discesa scendendo la prima rampa che dalla Punta Gnifetti porta al pianoro sottostante.

Riusciamo ad abbassarci di una cinquantina di metri di quota. Scendiamo con cautela cercando di sfruttare le momentanee schiarite per orientarci. Quando la luce filtra attraverso la nebbia  lo spettacolo è incredibile. Un opaco ed uniforme scenario bianco si costella all’improvviso di particolari, di onde e creste di neve accarezzate da nuvole di polvere bianca trasportata dal vento. La luce brilla danzando tra le ombre animando l’universo bianco che ci circonda. Poi, in un attimo, tutto torna piatto, immobile, uniforme e senza vita.

Il vento non è più così forte, non si sta più così male. Io e Giovanni siamo due sagome colorate, le uniche forme di vita che si agitano in quello sconfinato bianco. Ci muoviamo lentamente, rimarcando le nostre tracce nella neve mentre il vento inizia già a mangiarle. Proseguiamo fino a delle rocce che sembrano delimitare il crinale del primo salto. Da queste parti dovrebbe esserci un primo crepaccio ma noi non vediamo nulla. Forse stiamo già iniziando a vagare, forse non siamo dove crediamo di essere, forse abbiamo già iniziato a smettere di esistere e siamo parte del nulla.

Non provo nè freddo nè paura, non provo neppure ansia: è una sensazione quasi piacevole, forse siamo davvero sul confine. Giunti in quel punto io e Giovanni ci avviciniamo senza quasi parlare, ci guardiamo intorno senza che ci sia nulla da vedere. Quello è il punto del “non-ritorno”: se decidiamo di andare oltre non potremo più tornare al rifugio e potremmo solo proseguire fino alla Gnifetti oppure iniziare a vagare, vagare fino a che ne avremo la forza.

Alle nostre spalle il vento rendeva la nostra traccia sempre più labile e sottile. Io e Giovanni ci siamo guardati in faccia tra gli sbuffi di vento. Non c’era molto da dire: “Non possiamo farcela, non così. Torniamo lassù”. Ci giriamo e percorriamo a ritroso i nostri passi risalendo per la ripida rampa che porta al rifugio. La traccia è ormai scomparsa, non ci resta che salire in verticale ed imbatterci nuovamente nel rifugio.

“Siamo di nuovo qui, mi sono affezionato alla tua cucina!” Scherzo con il rifugista varcando di nuovo la soglia. E’ il momento dei dubbi, delle incertezze e forse dei rimpianti. Forse non dovevamo salire, forse avremmo dovuto desistere o scendere prima. Forse si schiarirà, forse riusciremo a scendere, forse, forse, forse… L’unica certezza è il dolore alla testa, quel fastidio intenso che pulsa sotto l’occhio destro e rimbalza nei denti. L’unica certezza è che devi inghiottire lentamente, mangiare piano, mangiare contro voglia e bere tanta acqua mentre il tempo immobile scorre lento e veloce.

Alle due è chiaro che nemmeno oggi riusciremo a scendere, che non vi è modo di prendere la funivia e che trascorreremmo un’altra notte in quota. Il tempo scorre mentre osserviamo il vuoto oltre la finestra. Poi qualcosa cambia, si vedono i contorni delle rocce, poi le creste di neve e poi appare l’orizzonte.

Il cielo sembra aprirsi mentre una cappa di nebbia persiste sotto di noi. Inaspettatamente dalla nebbia emergono otto figure che avanzano nella neve verso il Margherita. Vederli è quasi uno shock: si poteva passare? Abbiamo sbagliato? Siamo dei brocchi? Siamo stati vittime delle nostre paure?

Sono le prime persone, oltre i tre rifugisti, che vediamo da quando siamo giunti al rifugio. Io e Giovanni corriamo ad accoglierli ansiosi di conoscere la loro storia. Ad eccezione della guida alpina svizzera sono tutti russi, guide alpine russe per la precisione! Attacco bottone in inglese con uno di loro chiedendogli delle condizioni meteo a valle e della loro salita. Avevano aspettato un schiarita ma visto che il tempo non miglioravano erano partiti comunque: “Non ho visto nulla salendo, tutto era nella nebbia: siamo saliti usando il GPS della guida svizzera. Diversamente non si poteva fare.” Il russo e la moglie hanno un’agenzia internazionale per trekking d’alta quota in tutto il mondo. Lui, nello specifico, ha personalmente salito tutte le “Seven Summits”: Everest  (8,848 m), Aconcagua  (6,961m), McKinley (6,194 m), Kilimanjaro (5,895 m), Elbrus (5,642 m), Vinson  (4,892m) e Puncak Jaya (4,884m).

Li osservo sbigottito mentre con totale indifferenza per la quota stappano bottiglie di vino rosso. Insisto con un ultima domanda che, per me, è la più importante: “Ma era fattibile senza GPS?”. Il russo ride: “No, no. Senza Gps era troppo pericoloso. Rischi di perderti e morire.” Mi risponde ridendo ”Io ero preoccupato che lui avesse le batterie di scorta!!” aggiunge indicando la guida svizzera che, bicchiere alla mano, estrae dalla tasca delle batterie stilo e ribadisce con orgoglio “Io ho le batterie ed anche un secondo GPS d’emergenza!”.

In sfregio al mio mal di testa accetto un bicchiere di rosso e brindo con loro. I mei sensi di colpa e le incertezze si sciolgono con le nubi che ci circondano. Mentre il sole tramonta appaiono all’orizzonte, come per uno slancio del destino, le Grigne, il Resegone ed i Corni di Canzo: si avvicina l’ora di tornare a casa, l’ora di tornare tra il piacevole abbraccio dei miei monti.

Fine Atto Secondo

Davide “Birillo” Valsecchi

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