Nell’Oriente misterioso c’è un brigante generoso: Monkey! Con le fide sue scimmiette dei potenti si fa beffe: Monkey! Trema il mandarino per il suo destino. Coccodrilli e scimitarre non riescono a fermare Monkey. Ha una banda scatenata che non batte in ritirata: Monkey! Ruba al mandarino tutto il suo bottino. Vince tutte le magie, le soffiate delle spie: Monkey! Più mortale di un serpente, della tigre più potente: Monkey! Piange il mandarino peggio di un bambino. Dal suo covo come un lampo piomba allora non c’è scampo: Monkey! Ripulisce carovane e dà ai poveri del pane: Monkey! Finchè il mandarino non ha più un quattrino…
Nella mia mente un pensiero fulmineo: “Birillo, è tempo di andare a vedere la Est del Rosa!”. Le parole escono quasi da sole: “Amore, che ne diresti di andare in gita a Macugnaga? Potremmo fare due passi fino ad un bel laghetto di montagna ai piedi del Monte Rosa. Sì, sì …quello che si vede dai Corni e si tinge di rosso al tramonto, soprattutto d’inverno!”. Da Valmadrera a Macugnaga con la mia vecchia Subaru ci sarebbe voluto un mutuo per pagare la benzina e non sarebbe stato da escludere un rientro con il carro attrezzi per la vecchia e gloriosa Impreza Awd. Con il Duster di Bruna, nuovo di pacca, le possibilità di andare e tornare erano invece piuttosto buone!
Sveglia alle cinque e mezza ci mettiamo in strada alle sei: Valmadrera-Giussano sulla SS36, poi fino a Cermenate per imboccare la temuta A36 fino a Gallarate, da qui con la SuperStrada Europea E62 dritto per dritto fino a PiedeMulera e quindi su per la tortuosa Valle Anzasca fino a Macugnaga. Due ore e mezzo di strada: un viaggio davvero insolito per uno stanziale dell’Isola Senza Nome cronicamente allergico alla guida!!!
La temuta Pedemontana è una strada quasi deserta, scorrevole e moderna. Il suo spaventoso pagamento on-line si è rivelato davvero poca cosa: vai sul sito, inserisci il numero di targa ed un email, aspetti qualche istante e via e-mail ti arriva un link dove pagare con la carta di credito. Si ha tempo 15 giorni per farlo ed il costo è stato di 4.8 euro. Anche la E62, che unisce Genova e la Francia passando dal Lago Maggiore e dalla Svizzera, è una buona strada moderna e a gallerie. Sia all’andata che al ritorno era scorrevole ed affollata il giusto. Pedaggio 5.50 euro.
Perchè tutti questi dati? Perchè il Monte Rosa è la montagna che rapisce la mia fantasia ogni volta che raggiungo una cima dell’Isola Senza Nome. In autunno mi siedo sui prati sommitali del Moregallo e mi fermo ad osservarla. Nelle mattino d’inverno, con la neve in cima ai Corni dopo aver risalito la cresta del passo della vacca, ti giri e la vedi brillare come un miraggio.
Ma a giusta ragione quell’immagine ci cattura: il versante del Monte Rosa che noi osserviamo è la Parete Est, l’unica parete Himalayana di tutto l’arco alpino, 2600 metri di dislivello per una larghezza complessiva di quasi 4 km. I Tassi del Moregallo, “non so come, non so quando, non so chi”, ma scriveranno un capitolo importante della loro storia sul quel miraggio all’orizzonte. Per questo vorrei che la nostra scombinata compagni riuscisse a conoscere e frequentare con assiduità quella valle così lontana e così vicina. Ecco spiegato il perchè dei miei “conti della serva”: servono per pianificare le nostre future spedizioni ad Occidente.
Compagna di questo mia primo incerto sopralluogo non poteva che essere Bruna: grazie Moglie! Arrivati a Macugnaga il tempo sembrava avverso, le nuvole erano basse e dense, la grande montagna era coperta. Poi il sole di Luglio ha iniziato a filtrare tra le nuvole e con fare imperioso ha liberato la valle mettendo a nudo la parete.
Solo allora i ricordi sono tornati alla memoria perchè, in effetti, a Macugnaga c’ero stato già altre tre volte in passato. La prima, fino al rifugio Zamboni, durante un raduno dell’alpinismo giovanile: avrò avuto 8 anni, ricordo solo un gran caldo e le seggiovie che ci passavano sopra la testa. La seconda, fino al lago di Locce, sempre con una gita dell’alpinismo giovanile: ma avrò avuto 12 anni e per la gran nebbia non credo di essermi nemmeno reso conto dell’infinita parete che avevo sopra le testa. Ricordo solo Laura Broglia che si lamentava proprio perchè non si vedeva nulla. La terza in prima liceo come gita scolastica alle vecchie miniere d’oro: ricordo solo il viaggio in pullman ed il gioco della bottiglia in cui ho vinto un bacio a stampo ad Eleonora. Ricordi della parete Est nemmeno l’ombra!
“Bru, sei mai stata su un ghiacciaio?”“No” “E su una morena glaciale?” “Neppure” “Okkey, allora vieni con me”. La fiumana di persone che da Pecetto era salita con la seggiovia ora era davanti a noi incolonnata sul sentiero che risale allo Zamboni. Così, per cavarci da quell’ingorgo umano, ho iniziato a seguire una flebile traccia che correva lungo il bordo della cresta morenica. “Mi raccomando, fai attenzione. Non dobbiamo mollare sassi sui turisti da un lato e dall’altro non dobbiamo franare giù sul ghiacciaio.” Nonostante le miei precauzioni quell’esile traccia, snobbata da tutti, era in realtà più solida e sicura di quanto io stesso sospettassi. La linea moriva in cima ad un promontorio da dove, per via delle frane e della morena, era impossibile proseguire. “Ti piace qui Bruna? Facciamo colazione”. Ci siamo sdraiati sopra un grosso sasso e, lontano da ogni sguardo, ci siamo accoccolati al sole godendoci un panorama eccezionale: quella traccia abbandonata ci aveva infatti condotto in un’isolato terrazzo davanti al cuore della Parete Est.
Placidamente sdraiati davanti alla parete Est che brillava al sole mentre le nuvole, quasi a celebrare la nostra visita, sembravano non riuscire a scavalcare il crinale da nord. Lontano dal vociare dei gitanti diretti allo Zamboni potevamo finalmente “ascoltare” la grande montagna. La Est ha da subito messo le cose in chiaro: il rumore di sassi e ghiaccio che frana a valle era costante e quasi senza interruzione. La grande frana sotto la Punta Tre Amici sembrava senza sosta e, nonostante la grande distanza, era possibile vedere ad occhio nudo le enormi rocce, probabilmente grandi come automobili, che rotolavano rimbalzando verso il ghiacciaio e la morena sottostante.
Nelle lenti del mio binocolo la magnificenza delle cornici e dei pensili era impressionante e sorprendente. “Incredibile, il papa è passato di là. Accidenti, devi avere un culo della Madonna per infilarti in quel casino!” Papa Achille Ratti, Pio XII, è infatti il famoso Papa Alpinista crescito ad Asso, sulle montagne dell’Isola Senza Nome e della Grigna. In gioventù risalì la Est del Rosa proprio per il temibile Canalone Marinelli raggiungendo la Punta Doufur. Con lui quella volta Giovanni Gandin, la celebre Guida della Grigna e dell’omonimo camino ai Corni. E lì accanto la via Brioschi, lungo la Punta Nordend, tracciata dallo stesso Luigi Brioschi a cui è dedicato il rifugio in cima alla Grigna. E poi la via dei Francesi, le vie di Zapparoli, le solitarie di Hermann Buhl, di Gonga. Quel mondo imponente, terribile e meraviglioso si dischiude e per un attimo mi inghiotte rubandomi il respiro.
Per un istante è di nuovo un pomeriggio d’inverno, un cupo, gelido e solitario momento ai piedi della Parete Fasana del Corno Centrale. Un’istante in cui il cuore inizia a pulsare più forte e la paura si trasforma in uno strano coraggio fatto solo di insensata determinazione: “Prima o poi salirò di qui”.
Bruna dorme accoccolata sul mio fianco, godendosi quello strano contrasto tra la roccia fredda ed il sole caldo. Le accarezzo il viso senza distogliere lo sguardo dalla grande parete. “Un giorno, il giorno giusto. Non so come, non so quando, non so chi: ma verremo. A piccoli passi, ma saremo qui. Grande parete imparerai a conoscerci, con pazienza e dedizione ci faremo accettare. Ascolteremo i tuoi segreti, i tuoi umori, la tua rabbia e la tua gioia. Forse sarò io, forse la mia gente, forse la progenie dell’Isola, ma te lo prometto: balleremo insieme e la tua storia diverrà la nostra.”
Davide “Birillo” Valsecchi
L’alpinismo è un’attività sfiancante. Uno sale, sale, sale sempre più in alto, e non raggiunge mai la destinazione. Forse è questo l’aspetto più affascinante. Si è costantemente alla ricerca di qualcosa che non sarà mai raggiunto (Hermann Buhl).
Se il Signor Koflach volesse omaggiarmi di un nuovo paio di scarponi d’alta quota, in sostituzione a quelli che sono esplosi sabato, gliene sarei davvero molto grato. Comunque sia non posso certo volergliene se mi hanno mollato con i piedi nella neve nel bel mezzo di una salita sul gruppo del Rosa. Un alpinista è responsabile della scelta e dello stato del proprio equipaggiamento: quindi quello che è successo è ineluttabilmente colpa mia.
Quegli scarponi me li aveva regalati mio padre e all’epoca gli erano costati la bellezza di trecentomila lire. Avevo la sensazione di non averli sfruttati a sufficienza sebbene si possa sospettare che un paio di scarponi acquistati nel 1999 (un secolo ed un millennio fa) possano avere qualche difficoltà nel 2014 😉
Scherzi a parte: sapevo si sarebbero rotti e quello era, come lo è stato a tutti gli effetti, il loro ultimo viaggio. Quello che non mi aspettavo è che “schiantassero” così di botto!
Quest’anno in alta quota ho fatto praticamente nulla e così, Sabato, ho colto l’occasione di aggregarmi all’ultima uscita del Corso di Alta Montagna della Scuola Alto Lario. Conosco gli istruttori da quando sono pischello e la salita al Castore era un’ottima occasione per trascorrere in compagnia il week-end.
Visto che non era una salita tecnica e che le previsioni erano incerte ho scartato i miei soliti scarponi optando invece per i più caldi Koflach: «Dai, facciamogli fare un ultimo viaggio prima di cambiarli!». Mai pensiero fu più profetico!!
I Koflach ricordano molto gli scarponi da sci, sono uno scafo di plastica all’interno del quale si infila una scarpetta morbida ed impermeabile. Mentre camminavo, a metà del percorso che porta dal Bettaforca (2227m) al Rifugio Quintino Sella (3585m), ho avuto la sensazione come di inciampare. Mi sono fermato e sconsolato ho osservato il mio scarpone: la base dello scafo in plastica era saltata, la suola era staccata e la scarpetta appoggiava ormai direttamente a terra. «Opps… Ho idea che la mia gita sia finita!!».
Più che arrabbiato ero diverto. Qualche settimana fa al Monte Bianco un alpinista era stato soccorso con l’elicottero perchè al rifugio, durante la notte, gli avevano rubato gli scarponi. La stessa sorte sarebbe toccata anche a me?
Le opzioni erano due: tornare indietro cercando un posto dove dormire a valle (sperando di raggiungere la funivia in tempo), oppure tentare di raggiungere il rifugio (con il rischio di ritrovarsi bloccato prima di arrivarci o di non essere poi in grado di ridiscendere il giorno dopo).
«Vabbè, ormai siam qui…» Con un cordino ed ho cercato di bloccare la suola ed ho indossato i ramponi in modo che imbraghassero lo scarpone tenendolo insieme «Speriamo almeno ci sia tanta neve…». Il lungo tratto su nevaio non si è rivelato infatti un grosso problema, diversamente il tratto sulle roccette, lungo la cresta attrezzata, è stato una manata! Passo dopo passo ho arrampicato sulla cresta lavorando due ore con le punte dei ramponi sulla roccia: una ravanata infinita!
Luca, sempre gentile, insieme a Francesca si era attardato a farmi compagnia mentre arrancavo sulle roccette. Alla fine, ultimo della comitiva, sono finalmente arrivato al rifugio ormai avvolto da una nebbia densa.
«Birillo! Te l’aveva detto Montezuma che sarebbero andati in pezzi!» La mia prima preoccupazione lungo la salita era la lavata di testa che mi aspettavo da parte degli istruttori: fortunatamente ormai mi conoscono da quasi vent’anni e si sono limitati a prendermi in giro (come è giusto che fosse!!).
Il tempo era incerto e non era affatto scontata la salita del giorno successivo, tuttavia mentre li ascoltavo discutere sul da farsi sapevo benissimo che a me non restava altra alternativa se non quella di tornare indietro. Anzi, il mio ritorno rischiava di essere più problematico della loro salita.
Come di consueto tutti insieme abbiamo cenato e fatto festa prima di buttarci in branda. La sveglia il giorno successivo è suonata alle quattro ed anche io mi sono alzato a salutare i compagni che si apprestavano a partire. Le luci dell’alba mostravano un cielo terso e sgombro di nuvole, le giuste condizioni per la salita.
Rimasto solo al rifugio mi sono rinfilato in branda: al caldo sotto le coperte osservavo attraverso le finestre la magnifica alba che sorgeva alle spalle del Lyskam. Sono rimasto avvolpacchiato fino alle sette e poi ho iniziato finalmente a prepararmi. Simone e Stefano mi avevano fatto promettere di aspettare il loro ritorno per la discesa: «Non fare l’idiota scendendo da solo con quei rottami! O ci aspetti o portiamo via ciò che resta dei tuoi scarponi!!» Spesso i migliori amici sono anche quelli meno amichevoli!
Dopo aver fatto colazione ho inziato a lavorare sulle mie precarie calzature. Dapprima ho fissato quattro viti del legno sui lati della suola, questo per avere dei punti di ancoraggio con cui bloccarla utilizzando le stringhe e gli occhielli dello scafo. Con un paio di cordini ho fissato poi il centro e la punta ed ho coperto il tutto con del nastro americano che gentilmente mi aveva prestato il rifugista. Con un ultimo giro di nastro, visto che non avevo più stringhe per chiudere gli scarponi, ho bloccato la caviglia. Per toglierli sarebbe servito il coltello ma l’incognita restava quanto avrebbero resistito e cosa sarebbe accaduto se anche l’altro scarpone fosse ceduto di schianto.
Il cielo era azzurro ed il sole caldo, così mi sono avventurato sul pianoro del rifugio cercando di testare l’accrocchio. Normalmente, in un uscita come questa, la salita assorbe e focalizza tutta l’attenzione. Io, al contrario, non avevo alcuno scopo preciso ed ero completamente libero di godermi in assoluta libertà quel momento nel cuore delle Alpi.
Visto che gli scarponi sembravano tenere sono salito in cima ad una grossa cunetta e, semplicemente passeggiando, mi sono ritrovato di fronte il Cervino. Ancora non sapevo se ce l’avrei fatta a rientrare ma il mio solo pensiero era piuttosto semplice: «Devo trovare una tenda decente: andarsene a zonzo da queste parti deve essere un vero spettacolo!».
Per salire ad una cima è necessario partire all’alba, camminare al buio rispettando i tempi e rientrando il prima possibile: è una corsa contro il tempo e contro gli imprevisti. Ma i miei scarponi rotti mi ricordavano una nozione semplice: «Le grandi montagne richiedono tempo». Il Rosa è davvero una gran bella montagna, forse è anche per questo che l’ultima volta ero rimasto bloccato dalla tempesta per tre giorni al Rifugio Margherita. «Si, richiede tempo ma lo vale tutto…».
Nel giro di pochi attimi il tempo è però cambiato, la nebbia ha cominciato a scavalcare la cima del Castore e la luce si è fatta opaca. I miei compagni, che fino a quel momento erano ben visibili lungo la cresta, ora apparivano distanti ed immersi nella foschia.
Da lì ad un ora i primi del gruppo, di gran lunga più veloci e rapidi degli altri, stavano facevano ritorno al rifugio. «Conviene muoversi. Il tempo sta girando e non ho voglia di farmi sorprendere sulla cresta da un temporale» Confessa Oscar mentre sistema il suo equipaggiamento «La cresta attrezzata non è banale ed i tuoi scarponi sono un handicap da non sottovalutare!». La prospettiva di ritrovarmi scalzo a tremila metri nel mezzo di un temporale su una cresta di roccia era qualcosa che, in effetti, non allettava neanche me!
Così, insieme a Simone e Patrizia abbiamo iniziato la discesa. Dovevo fare attenzione a come caricavo il peso ma, in linea di massima, la mia riparazione sembrava reggere nonostante nuove preoccupanti crepe si aprissero lungo lo scafo.
Il guaio era nato perchè “Birillo è Birillo” ma, fortunatamente, proprio perchè “Birillo è Birillo” tutta quella scomoda situazione si è ridotta ad un dimensione più ludica che problematica. Forse non sarebbe opportuno dirlo, ma io mi sono anche divertito parecchio!
Man mano scendevo i miei scarponi andavano via via sempre più in pezzi. Così rattoppati mi ricordavano gli scarponi logori e distrutti di Speke e Burton durante la loro esplorazione africana alla ricerca delle sorgenti del Nilo: avevano qualcosa di affascinante e pittoresco, di assolutamente atipico (come piace a me).
Poco prima di raggiungere di nuovo la funivia ci siamo imbattuti in uno stambecco che, con una certa indifferenza si è lasciato fotografare: era parecchio che non ne vedevo uno.
Al caldo della funvia abbiamo atteso l’arrivo anche tutti gli altri compagni. L’intero gruppo, per lo più formato da alievi, aveva raggiunto la vetta del Castore, 4225m, scendendo in tempo per evitare il grosso della perturbazione: non male per dei neofiti, bravi!
Prima di salutarci Giuliano, Direttore del Corso, si è avvicinato con la macchina fotografica in mano «Birillo, fammeli fotografare» Dopo aver immortalato i miei poveri Koflach (o quanto ne restava) ha bonariamente scosso la testa «Chissà cosa mai gli abbiamo insegnato in questi anni…»
Ecco la cronaca di una magnifica gita al gruppo del Rosa 😉
Quando dormo in quota il sonno è agitato dai sogni più incredibili. Alla Gnifetti, 3647m, avevo sognato di essere membro dell’equipaggio di un battello sul lago di Como. Il Capitano ed il Capo Macchina mi accordavano il permesso di imbarcarmi sul Liemba, la motonave del 1913 con cui qualche anno fa ho attraversato il Tanganika in Tanzania. Nel sogno ero felicissimo ed attraversavo il battello salutando i miei compagni di viaggio prima di partire ancora alla volta dell’Africa.
Quando la mattina mi sono risvegliato in mezzo al ghiacciaio del Lys, nel cuore del Massiccio del Monte Rosa, trovavo il sogno quantomeno curioso. I giorni successivi li avevo trascorsi alla Capanna Margherita, 4556m, bloccato in cima alla Punta Gnifetti dalla nebbia e dal vento. Lassù i miei sogni erano stati confusi, caotici e tortuosi. Ricordo di aver visto la Terra dallo spazio osservando il sole sorgere alle sue spalle: la quota e le lunghe ore d’attesa confondevano la mia mente trascinandola in mondi incredibili.
Quando la sera ci eravamo buttati in branda il cielo era sereno e la notte sembrava promettere finalmente bel tempo. Ancora avvolto nelle coperte osservavo le prime luci dell’alba rischiarare il cielo quando un fracasso infernale ha iniziato ad animare il rifugio: l’armata rossa si era messa in moto!
Nel rifugio oltre a me e Giovanni, bloccati lassù da due giorni, c’erano i tre rifugisti e sette alpinisti russi accompagnati da una guida svizzera. Alle cinque e mezza i più giovani del gruppo si erano equipaggiati ed avevano iniziato ad arrampicarsi sul tetto della Capanna per osservare l’alba. Abbarbicati sulle scale ghiacciate erano totalmente indifferenti ai sottostanti 2600 metri di precipizio della parete Est: urlavano entusiasti per l’arrivo del nuovo sole mentre i rifugisti, furiosi, cercavano di convincerli a scendere urlando a loro volta.
Io, meno romanticamente, ho infilato la giacca a vento e mi sono “allongiato” ad una scala di sicurezza uscendo da una finestra. All’orizzonte solo montagne, laghi e pianure: in ogni direzione niente ci eguagliava in altitudine, nessuno in Europa era così in alto in quel momento. In tutto il nord Italia siamo stati i primi a vedere il nuovo giorno, ad ammirarne la sua possenza!!
I russi urlavano agitando le braccia al cielo ed anche io non potevo che ammirare a bocca aperta la magnificenza che ci circondava e che per due giorni si era celata nell’ostilità della nebbia. Sotto di noi, impressionante e maestosa, correva verso valle la Cresta Signal e la Parete Est. In passato, dalle nostre montagne, avevo osservato innumerevoli albe e tramonti ammantare di rosso il Monte Rosa: quella era la prima volta che godevo di tale spettacolo direttamente dal palcoscenico!
«Andiamo Giò! Andiamo! Il giorno è nostro!» Di gran carriera abbiamo ingollato la colazione ed indossato l’equipaggiamento, dopo aver salutato tutti siamo schizzati fuori dal rifugio immergendoci nel grande bianco che finalmente risplendeva nell’azzurro del cielo.
Ovunque la neve era intatta e modellata dal vento: nessuna traccia umana aveva ancora solcato quel mare bianco!«Andiamo Giò! Andiamo! Il giorno è nostro!»
Galvanizzati da quello scenerio e forti dei due giorni di acclimatamento abbiamo attaccato la punta Zumstein (4563m) dopo aver attraversato tutta la grande piana al di sotto della Punta Gnifetti (4556) da cui eravamo scesi.
Facendoci sicurezza l’un l’altro abbiamo superato il ponte di ghiaccio sul piccolo crepaccio che da attraversa la cresta. Evitando le ampie cornici abbiamo iniziato a risalire la cresta cercando di proteggerci dalle violente raffiche di vento che si abbatevano lateralmente su di noi.
Giunti quasi alla vetta non restava che rimontare la stretta cresta camminando in equilibrio per cinque o sei metri fino a raggiungere la grande roccia su cui è posta una croce ed una madonnina. Quando Giovanni si è fatto avanti per affrontare quel tratto obbligato di cresta il vento ci scuoteva come bandierine facendo vela sugli zaini.
Costretto a reggermi in ginocchio con la becca della picozza puntata ho urlato a Giò facendogli capire che il vento era ormai un problema. Anche lui, più avanti, non se la passava meglio cercando di trovare il tempo giusto per rimontare la cresta senza che le raffiche lo facessero cadere sull’altro lato. A distanza di sei metri l’uno dall’altro ci facciamo segno e lui ridiscende raggiungendomi. «Naaa, è vero, manca poco e niente ma con sto vento quel passaggio può diventare una rogna seria. Se quella madonnina vuole che si vada a farle visita dovrà cominciare a darsi meno arie!!»
Insieme abbiamo riso e guardandoci intorno abbiamo deciso che quello che avevamo poteva essere abbastanza, che sarebbe stato ingordigia chiedere di più dopo quanto patito nei giorni precedenti. Facendoci nuovamente sicura sul ponte di ghiaccio siamo ridiscesi nella piana sottostante ed abbiamo iniziato letterlmente a vagare: corda tesa e nodo a palla vagabondavamo senza meta attraverso il ghiacciao guidati solo dalla meraviglia della scoperta.
Vagare nel bianco: quello che giorni prima poteva diventare il nostro incubo ora era la nostra più assoluta e completa liberazione. Impagabile, bellissimo.
La Capanna Margherita è posta sulla cima della Punta Gnifetti, a 4556 metri di quota è il rifugio alpino più alto in Europa. La sua fama è leggendaria così come lo è la sua posizione a strapiombo sull’impressionante parete est del Rosa: 2600 metri di dislivello, la più alta delle Alpi e per morfologia l’unica di tipo himalayano.
Quando arrivi al Margherita la quota ti picchia in testa come una campana, spesso chi ha provato a dormire lassù racconta di nottate da incubo in preda ai disagi del mal di montagna: è il tetto della Alpi, il mio socio Giovanni ed io eravamo bloccati lassù a causa del mal tempo.
Per dormire avevo messo al posto del cuscino una grossa coperta in modo da potermi sdraiare senza rimare completamente orizzontale. Io dormo ovunque e neppure la Margherita è stata un eccezione. Per riposare ho però dovuto impegnarmi, rilassarmi e focalizzarmi sulla respirazione fino a cadere nel sonno. Nonostante tutto si fa comunque parecchia fatica a recuperare e si percepisce come il corpo sia provato costantemente dalla quota e dalla scarsa acclimatazione.
A parte i tre rifugisti Giovanni ed io, per via del brutto tempo, eravamo gli unici occupanti della Capanna. Alle sei del mattino tutta la struttura vibrava scossa dal vento, nonostante la sua gloriosa storia sembrava tremare e vacillare sotto i colpi del mal tempo. Appoggiato alla parete la sentivo viva, inquieta e tormentata. Poi un lambo di luce mi scuote dal sono. Penso sia la frontale di Giovanni ma aprendo gli occhi non vedo nulla. Poi un altro lampo, appena fuori dalla finestra. Nessun rumore, solo scoppi di luce.
Poi le luci si fanno più intense ed acquisiscono voce. Smonto dalla branda e scendo da basso. I gestori del rifugio sono già all’opera: il generatore si è fermato e stanno trafficando per aggiustarlo. Altre lampi e altri scoppi risuonano all’esterno. I gestori mollano in fretta il generatore e schizzano nuovamente nel rifugio come inseguiti dai diavoli: “Non uscite! Non uscite! Arriva l’inferno laffuori!!”
Gli scoppi diventano crepitii, colpi secchi e schianti. Il rifugio e tutta la montagna circostante sono bersagliati dai fulmini: siamo nel cuore della tempesta, là dove i fulmini nascono quando li osserviamo dal fondo valle!
Per tre ore la Margherita è un bersaglio: la gabbia di faraday ed i parafulmini che la compongono vengono flagellati dalle scariche elettriche. Noi all’interno, tenendoci a debita distanza dalle finestre, siamo al sicuro: tutto ciò che ci circonda è senza scampo! Sembra di essere sotto un bombardamento, senza generatore siamo quasi al buio e senza riscaldamento. Siamo lassù in cinque, siamo sereni ma la preoccupazione sfiora tutti.
Di provare a scendere non se parla nemmeno e le ore, ancora implacabili, scorrono lente e veloci al contempo. Se vogliamo tornare a casa dobbiamo vincere la nebbia scendendo fino alla Gnifetti attraverso il ghiacciaio del Lys. Dobbiamo essere laggiù per le quattro o le funivie saranno ferme e dovremmo comunque attendere un altro giorno per rientrare.
Alle dieci finalmente il generatore riparte. La situazione migliora ma la nebbia ed il vento non sembrano dare tregua. Durante la notte ha nevicato ed ora tutto è coperto da un soffice strato di neve: non c’è alcuna possibilità di trovare le tracce della pista attraverso il ghiacciaio.
A mezzogiorno infiliamo l’equipaggiamento ed usciamo. “Facciamo almeno un tentativo Giò, andiamo a vedere com’è”. Il vento è calato, il cielo si è aperto in una leggera schiarita e per un breve istante si è intravvisto anche il blu del cielo. Legati iniziamo la discesa scendendo la prima rampa che dalla Punta Gnifetti porta al pianoro sottostante.
Riusciamo ad abbassarci di una cinquantina di metri di quota. Scendiamo con cautela cercando di sfruttare le momentanee schiarite per orientarci. Quando la luce filtra attraverso la nebbia lo spettacolo è incredibile. Un opaco ed uniforme scenario bianco si costella all’improvviso di particolari, di onde e creste di neve accarezzate da nuvole di polvere bianca trasportata dal vento. La luce brilla danzando tra le ombre animando l’universo bianco che ci circonda. Poi, in un attimo, tutto torna piatto, immobile, uniforme e senza vita.
Il vento non è più così forte, non si sta più così male. Io e Giovanni siamo due sagome colorate, le uniche forme di vita che si agitano in quello sconfinato bianco. Ci muoviamo lentamente, rimarcando le nostre tracce nella neve mentre il vento inizia già a mangiarle. Proseguiamo fino a delle rocce che sembrano delimitare il crinale del primo salto. Da queste parti dovrebbe esserci un primo crepaccio ma noi non vediamo nulla. Forse stiamo già iniziando a vagare, forse non siamo dove crediamo di essere, forse abbiamo già iniziato a smettere di esistere e siamo parte del nulla.
Non provo nè freddo nè paura, non provo neppure ansia: è una sensazione quasi piacevole, forse siamo davvero sul confine. Giunti in quel punto io e Giovanni ci avviciniamo senza quasi parlare, ci guardiamo intorno senza che ci sia nulla da vedere. Quello è il punto del “non-ritorno”: se decidiamo di andare oltre non potremo più tornare al rifugio e potremmo solo proseguire fino alla Gnifetti oppure iniziare a vagare, vagare fino a che ne avremo la forza.
Alle nostre spalle il vento rendeva la nostra traccia sempre più labile e sottile. Io e Giovanni ci siamo guardati in faccia tra gli sbuffi di vento. Non c’era molto da dire: “Non possiamo farcela, non così. Torniamo lassù”. Ci giriamo e percorriamo a ritroso i nostri passi risalendo per la ripida rampa che porta al rifugio. La traccia è ormai scomparsa, non ci resta che salire in verticale ed imbatterci nuovamente nel rifugio.
“Siamo di nuovo qui, mi sono affezionato alla tua cucina!” Scherzo con il rifugista varcando di nuovo la soglia. E’ il momento dei dubbi, delle incertezze e forse dei rimpianti. Forse non dovevamo salire, forse avremmo dovuto desistere o scendere prima. Forse si schiarirà, forse riusciremo a scendere, forse, forse, forse… L’unica certezza è il dolore alla testa, quel fastidio intenso che pulsa sotto l’occhio destro e rimbalza nei denti. L’unica certezza è che devi inghiottire lentamente, mangiare piano, mangiare contro voglia e bere tanta acqua mentre il tempo immobile scorre lento e veloce.
Alle due è chiaro che nemmeno oggi riusciremo a scendere, che non vi è modo di prendere la funivia e che trascorreremmo un’altra notte in quota. Il tempo scorre mentre osserviamo il vuoto oltre la finestra. Poi qualcosa cambia, si vedono i contorni delle rocce, poi le creste di neve e poi appare l’orizzonte.
Il cielo sembra aprirsi mentre una cappa di nebbia persiste sotto di noi. Inaspettatamente dalla nebbia emergono otto figure che avanzano nella neve verso il Margherita. Vederli è quasi uno shock: si poteva passare? Abbiamo sbagliato? Siamo dei brocchi? Siamo stati vittime delle nostre paure?
Sono le prime persone, oltre i tre rifugisti, che vediamo da quando siamo giunti al rifugio. Io e Giovanni corriamo ad accoglierli ansiosi di conoscere la loro storia. Ad eccezione della guida alpina svizzera sono tutti russi, guide alpine russe per la precisione! Attacco bottone in inglese con uno di loro chiedendogli delle condizioni meteo a valle e della loro salita. Avevano aspettato un schiarita ma visto che il tempo non miglioravano erano partiti comunque: “Non ho visto nulla salendo, tutto era nella nebbia: siamo saliti usando il GPS della guida svizzera. Diversamente non si poteva fare.” Il russo e la moglie hanno un’agenzia internazionale per trekking d’alta quota in tutto il mondo. Lui, nello specifico, ha personalmente salito tutte le “Seven Summits”: Everest (8,848 m), Aconcagua (6,961m), McKinley (6,194 m), Kilimanjaro (5,895 m), Elbrus (5,642 m), Vinson (4,892m) e Puncak Jaya (4,884m).
Li osservo sbigottito mentre con totale indifferenza per la quota stappano bottiglie di vino rosso. Insisto con un ultima domanda che, per me, è la più importante: “Ma era fattibile senza GPS?”. Il russo ride: “No, no. Senza Gps era troppo pericoloso. Rischi di perderti e morire.” Mi risponde ridendo ”Io ero preoccupato che lui avesse le batterie di scorta!!” aggiunge indicando la guida svizzera che, bicchiere alla mano, estrae dalla tasca delle batterie stilo e ribadisce con orgoglio “Io ho le batterie ed anche un secondo GPS d’emergenza!”.
In sfregio al mio mal di testa accetto un bicchiere di rosso e brindo con loro. I mei sensi di colpa e le incertezze si sciolgono con le nubi che ci circondano. Mentre il sole tramonta appaiono all’orizzonte, come per uno slancio del destino, le Grigne, il Resegone ed i Corni di Canzo: si avvicina l’ora di tornare a casa, l’ora di tornare tra il piacevole abbraccio dei miei monti.
Giovanni voleva salire in cima al Lyskamm Orientale, un’affilata montagna di 4527 metri nel massiccio del Monte Rosa. Io conosco poco e nulla delle Alpi Occidentali e per questo ho accettato ben volentieri di fare cordata con lui. Come spesso accade ero più interessato alla “scoperta” che alla cima.
Le previsioni indicavano sabato come “coperto” mentre domenica avrebbe dovuto essere “buona” con un peggioramento nelle ore serali. La quantità di alpinisti che, loro malgrado, hanno scoperto quanto questa scommessa metereologica fosse inesatta sono stati parecchi. Tuttavia credo siano stati davvero in pochi quelli che sono riusciti a fare tanto casino come me e il mio socio.
Quando abbiamo raggiunto Alagna Valsesia grossi goccioloni cadevano dal cielo ma, sempre stando alle previsioni, tutto ero come doveva essere. Quando, risalendo con la funivia, abbiamo raggiungunto Punta Indren il cielo era ancora chiuso, salendo dapprima al Rifugio Mantova e quindi alla Gnifetti si è via via aperto mostrandoci la bellezza delle montagna circostanti. La notte si preannunciava serena e così sembrava promettere il giorno successivo.
Io e Giò ci abbuffiamo e filiamo diretti in branda come due diligenti scolaretti. Quando la mattina suona la sveglia erano le tre e c’era già un’ammucchiata di persone che assaltava la tavolata della colazione. Scambiamo quattro chiacchiere con gli altri alpinisti ed infiliamo l’equipaggiamento. Con un certo disappunto tutti abbiamo constatato come il tempo non fosse un granché ma, essendo ancora buio, c’era la speranza migliorasse.
Al buio abbiamo iniziato a seguire la pedonata (grande come un’autostrada) che risale per il ghiacciaio del Lys fino all’omonimo colle. Dopo mezzoretta di cammino, senza alcun preavviso, un rumore di neve che scivola su altra neve avanza rabbioso dal lato a monte. “Okkio Giò!” ho gridato al mio socio preparandomi a correre. Aspettavo di vedere l’onda di neve apparire dall’oscurità ma il rumore è proseguito oltre e senza che nulla apparisse nel cono di luce della mia frontale. “Cominciamo bene: molla alle quattro del mattino?!?”
Dopo quel preoccupante rumore ho studiato con vivo e rinnovato interesse la neve: nonostante l’ora la sua consistenza era effettivamente già uno schifo. “Sarà l’ondata di caldo di cui avevano parlato…”. Le possibilità di puntare al Lyskamm si stavano già facendo remote. Poco più avanti incontriamo una cordata che scendeva: “Oilà, buon giorno. Come mai tornate già?”. Il tipo è un trentino e mi risponde schietto: ”Eravamo in tenda al colle, è scesa la nebbia ed hanno cominciato a lampeggiare i fulmini. Avevamo in mente una salita ma non si può fare in queste condizioni. Torniamo a valle perché le altre cime le abbiamo già fatte. Ciao.”
Dopo la prima altre due cordate battono in ritirata. Io e Giovanni ci avviciniamo per un consiglio di guerra. “Il Lyskamm è andato, però la visibilità è ancora abbastanza buona e la traccia chiara. Saliamo fino al Colle del Lys e diamo un occhiata: se le condizioni lo permettono ci facciamo una sgambata fino al Margherita”. Questo fu il responso del nostro concilio prima dell’alba.
Così, a testa bassa, abbiamo iniziato a macinare passi raggiungendo e superando le cordate che ci precedevano. Al colle del Lys la visibilità si è abbassata ancora un po’ ma Giò conosceva bene quella traccia e mi descriveva diligente ogni bivio che incontravamo. Quando raggiungiamo il Colle del Lys una tenda rossa sfidava il vento che iniziava ad soffiare più intenso. Le due picozze all’ingresso indicavano come gli alpinisti al suo interno avessero desistito dall’uscirne: forse non avevano tutti i torti!
Io e Giò ci sentivamo bene, io non conoscevo assolutamente nulla di quel posto ma Giò navigava bene per entrambi e così abbiamo proseguito. Dal Colle del Lys si discende leggermente per poi affrontare una successiva risalita. In quel tratto incontriamo alcuni “trenini” che, guidati dalle guide, scendono dalla Capanna Margherita. Sono tutti stranieri e piuttosto infreddoliti. Salutiamo e tiriamo oltre. Per arrivare il rifugio dobbiamo solo risalire una prima rampa, superare il piattone successivo e piegare verso est sull’ultimo strappo che porta alla punta Gnifetti ed alla Capanna Margherita. In mezzo ci sono un paio di grossi crepacci aperti ma ben visibili, il resto sembra solidamente chiuso.
Quando superiamo la prima salita il tempo però cambia: la neve, per effetto del vento che stava rafforzando, si trasforma in piccole palline ghiacciate. Queste simpatiche palline inizialmente rotolano allegre poi, catturate dalle folate di vento, si alzano e bersagliano con forza e rabbia qualsiasi cosa incontrino. Nel corso di pochi minuti le folate di vento si fanno più intense e dolorose. Per cinque o sei secondi sembra di essere dentro una sabbiatrice pesante: nascondiamo il tronco dietro lo zaino mentre le gambe vengono percosse dalla neve. Una dannata punizione!!
Giò ed io facciamo di nuovo consiglio mentre il vento urla sulle nostre parole:”Bene, andiamo al Margherita e tiriamoci fuori da questo schifo!”. Nel punto in cui eravamo proseguire (in fretta) per il rifugio era senza dubbio la soluzione migliore.
Poco più avanti incontriamo due vicentini che, immobili nel vento, continuano a guardarsi intorno spaesati. Quando li raggiungiamo il rumore del vento è tale che dobbiamo urlare per sentirci. “Non siamo sicuri, non siamo sicuri!” continuavano a ripetere indicando punti nella nebbia che, lentamente, stava trasformando la luce del mattino nel temibile “white-out”. Giovanni li ascoltava scuotendo la testa. Io, non conoscendo la zona, non potevo aiutarlo in alcun modo. La traccia, travolta dal vento, era ormai quasi scomparsa e la situazione stava diventando preoccupante.
I due vicentini continuavano a gesticolare totalmente indecisi sul da farsi. Ho afferrato Giò per la giacca e gli urlato vicino alla faccia “La sai?”. Lui a sua volta mi ha afferrato urlandomi semplicemente “La sò!”. Per me andava bene.“Okay, allora togliamoci da qui!” Dopo l’ennesima scarica di neve e vento ho afferrato uno dei vicentini “Noi andiamo di là. Ci si vede: in bocca al lupo!”. Non era più il momento di fare conversazione…
La mia era una scommessa al buio sull’esperienza di Giovanni: nella tormenta e nell’ignoto, lui davanti ed io dietro. Alle nostre spalle, quasi inghiottiti dalla nebbia, i due vicentini seguivano le nostre tracce: anche loro stavano scommettendo alla cieca su di noi.
Arrancavamo in salita, ormai avevamo passato i 4500 metri. Erano le otto e venti del mattino, la traccia era ormai andata ma come per magia Giovanni ha trovato le bandierine del Margherita. Entrando nel atrio del rifugio ridevo felice come un bambino, eravamo coperti ed imbiancati dal ghiaccio ma eravamo a destinazione. “Bravo Giovanni! Bravo!” Ho assestato una sonora manata al mio socio abbracciandolo felice. Avevo scommesso bene!
Poco dopo anche i vicentini varcano la soglia ed insieme entriamo nel rifugio. La Capanna Margherita è il rifugio di vetta più conosciuto al mondo ed è quello posto alla maggior altitudine d’Europa (4556m). Ha novanta posti letto ed è una meta ambita e relativamente accessibile. Quando entriamo è totalmente e sconsolatamente deserta: siamo i primi a raggiungerla!
I tre rifugisti hanno raddrizzato le panche da sopra i tavoli e ci hanno servito del the caldo. La quota iniziava a farsi sentire ma cercavo di contenerne gli effetti mentre un tarlo iniziava rodere la mia mente: “Bene, ora siamo al rifugio. Ora come scendiamo?”
Poco dopo di noi un secondo gruppo di vicentini ha varcato la soglia. Come i loro compagni avevano perso l’orientamento ed avevano “pascolato” fino alle pendici della Punta Zumstein prima di trovare la strada per la Margherita: la loro faccia la diceva lunga su come se l’erano passata!
Ma la vera stella della mattina è l’ingresso di una guida italiana: capelli bianchi, profondi occhi azzurri ed accento indigeno. Con lui un cliente italiano con cui discuteva di gare di fondo. ”Perfetto” Lui sarebbe stato il nostro faro lungo la via di ritorno. Più rilassato ho appoggiato la testa sul tavolo, ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato.
Quando ho riaperto gli occhi la guida se ne era andata e nel locale ristorante del rifugio erano rimasti solo i vicentini che, nemmeno troppo implicitamente, aspettavano noi per scendere. “Cazzo! Cazzo! No!” E’ stato il mio primo pensiero!
“Merda! Che prila! Mi sono perso la Guida!” Io e Giò rindossiamo l’equipaggiamento ed usciamo. Erano le dieci del mattino, il vento era diventato ancora più forte, iniziava a nevischiare e la nebbia si era infittita. Dormire non mi aveva aiutato molto: avevo una pericolosa “voglia di scendere” e razionalmente sapevo quanto tale istinto fosse insidioso.
Appena fuori del rifugio Giovanni aggancia una falsa traccia che corre lungo la cresta verso sud. Entrambi ci accorgiamo di essere andati oltre la curva che verso destra scende ai piedi della rampa della Punta Gnifetti. “Siamo andati oltre, abbiamo perso la svolta. Dobbiamo tornare indietro” mi urla Giovanni mentre torniamo sui nostri passi: dannazione, avevamo toppato alla prima curva! Non era un gran inizio!
Propongo a Giovanni di rientrare: “Andiamo dentro, aspettiamo le undici e vediamo se sto vento cala!”. La quota e l’incertezza cominciavano a darmi davvero fastidio. Probabilmente al di sotto della vetta il vento era meno forte ma tutti i miei campanelli d’allarme era accesi. Non conoscevo assolutamente quel posto e durante la salita non avevo avuto modo di imparare un granché per via della scarsa visibilità. Il mio controllo sulla situazione era pari a zero e tutto il peso delle scelte stava per cadere sulle spalle di Giovanni.
Quando rientriamo nel rifugio i vicentini non ci sono più: riuniti in un gruppetto da cinque si erano fatti forza e si erano buttati nell’ignoto. Probabilmente mentre eravamo sulla cresta avevano imboccato la svolta giusta ed iniziato la loro perigliosa discesa. Per quanto ne sappia dovrebbero avercela fatta: quanto brutta se la siano vista non saprei dirvelo.
“Se la nebbia ti blocca a metà strada ed inizi a girare in tondo sei fregato, Birillo. Qui sei al caldo, sei al sicuro. La testa ti fa male e le tue scelte sono fragili. Lascia questo posto e te ne pentirai.” Questo era il pensiero che mi tormentava mentre la quota pulsava dietro gli occhi.
“Giò, ti offro il pranzo mentre decidiamo sul da farsi” Ordiniamo un paio di zuppe calde ed iniziamo a mangiare. Ingollo lentamente ogni cucchiaiata ma la zuppa sembrava far fatica a star giù. Stavo davvero uno schifo e non avevo molti assi da giocarmi. Così mi sono avvicinato al rifugista: ”Oilà, ciao. Sai mica dirmi che dicono le previsioni?” Lui mi risponde mezzo incazzato: la Svizzera promette bello mentre l’Italia minaccia tempesta. Nemmeno lui capisce che diavolo voglia fare il tempo, tutto ciò che sa è che tutte le prenotazioni sono state disdette e che lui non da consigli a nessuno.
“Evviva” mormoro. Nella mia testa c’era però il ricordo della sera prima, il sereno cielo azzurro sopra le montagne. In fondo non aveva nessun senso rischiare la pelle scendendo senza aver visto nulla del Monte Rosa: fanculo il vento, fanculo la nebbia, io voglio vedere qualcosa di queste montagne!
In tutto questo c’era un fattore curioso: alla macchinetta del parchimetro avevamo inserito quattro euro di troppo ed avevamo pagato un giorno in più. Non l’avevamo fatto apposta: avevamo letto male le istruzioni. Era semplicemente successo ed in quel momento era un fatto.“Giò, tu lavori domani?” Lui scuote la testa “No, attacco martedì”.
L’ultima funivia partiva alle quattro e mezza. Se fossimo stati in grado di scendere fino alla Gnifetti (cosa tutta da verificare!!) c’era il rischio di perdere l’ultima corsa e di dover trascorrere comunque la notte al rifugio più a basso ritardando di un giorno il rientro.
Una stramaledetta montagna di rischi ed incertezze mentre eravamo piacevolmente al caldo nel cuore della Capanna Margherita (con un mal di testa terribile ma nssun problema serio). Il rifugista accende lo stereo e partono a suonare i Creedence Clearwater Revival (un segno del destino!). Nel rifugio non è rimasto nessuno a parte noi: “Giò, ma a noi chi ce lo fa fare di rischiare il culo scendendo ora? Dormiamo qui e scendiamo domani?” Giò ha riso, non aveva mai dormito al Rifugio Margherita: quella era un ottima occasione.
A cuor sereno mi sono accordo con il rifugista per due brande nella stanza numero 5 (il mio numero fortunato). La mia scommessa era che entro sera, magari verso il tramonto, il cielo si acquietasse come il giorno precedente e che il successivo le condizioni fossero abbastanza buone da scendere con relativa sicurezza. Quello che non sapevo era che quella scommessa sarebbe stata la sola che in quel giorno avrei clamorosamente perso: il peggio doveva ancora arrivare!