Rainy Forrest

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Le pioggie di quest’incerta estate mitigano il caldo ma al contempo impediscono di dare spazio alla fantasia tracciando lunghi itinerari attraverso i nostri monti. Domenica avevo promesso a Nicola, mio coetaneo di Cantù, che lo avrei accompagnato nel “Gran Tour dei Corni” ma il tempo instabile sconsigliava di impegnarsi in 8 ore di cammino lungo le creste. Il “tour” è infatti  il lungo percorso che costeggia tutta la Val Ravella passando delle cime di Cornizzolo, Monte Rai, Pra Santo, Corno Rat, e la traversata dei Tre Corni da Est.

Così, visto che la voglia di uscire superava la minaccia di pioggia, ci siamo comunque lanciati in una piccola esplorazione. La val Ravella si è dimostrata lo scenario ideale per compiere qualche esperimento con la macchina fotografica. Le nuvole e la vegetazione rendevano la luce abbastanza fioca per provare tempi di esposizione alti e catturare l’effetto “setoloso” dello scorrere dell’acqua. In più, la macchina di Nicola, può essere controllata via wireless attraverso il cellulare. In qualche modo tutto ciò mi ricordava la macchina fotografica radiocomandata che utilizzava Walter Bonatit nei suoi reportage.

Prima Nicola mi spediva sulle rocce, sulla riva opposta del fiume, a posizionare la macchina fotografica e poi, nuovamente insieme, manovrava il “telcomando” per realizzare un’autoscatto. Come in una foto d’epoca dovevamo rimanere immobibili per i lunghi secondi in cui l’obbiettivo rimaneva aperto catturando lo scorrere dell’acqua.

“Dai, basta giocare, andiamo ad esplorare un po’!” Superato il terz’alpe abbiamo prima fatto visita al grande Faggio, “il Fò”, per poi andare in caccia della “Fiamma”. Ciò che io chiamo la “fiamma” è un grosso monolite che spunta dalla vegetazione sul versante sud del tratto a valle della Coletta.

E’ diffcile non scorgerlo dall’alto, tuttavia raggiungerlo dal basso è stata una mezza impresa. La vegetazione si è fatta intricata e fitta, tra le piante corrono vere e proprie liane che come solide ragantele trattengono il passaggio. Una volta dentro la vegetazione è quasi impossibile vedere la “fiamma” e per orientami ho dovuto usare il gps e le immagini satellitari. Ciò che davvero stupisce non è tanto la “giugla” quanto il fatto che nelle foto degli anni ‘50 tutto quel tratto di montagna appirisse come un brullo e nudo ghiaione. Ci stupiamo della pioggia ma i cambiamenti in atto sono più evidenti e radicali di quanto si voglia credere.

La “fiamma” riservava interessanti sorprese di cui vi parlerò con calma quando avrò approfondito alcune ricerche in merito. Dal versante nord è possibile salire in modo abbastanza semplice tuttavia, visto che gli altri tre versanti offronto trenta metri di volo, non conviene avventurarsi in modo sprovveduto.

La cima della “fiamma” è uno straodinario punto d’osservazione da dove studiare buona parte delle pareti e delle vie del versante Sud dei Corni. Purtroppo la foschia e la nebbia hanno reso opache e sbiadite le foto: toccherà tornarci sperando in una luce migliore.

“Bene andiamo a mangiare!” Dopo aver fatto tappa alla muraglia strapiombante sotto il sentiero che porta alla Coletta ci siamo diretti al Rifugio della Sev: Birra, gazzosa ed un panino al salame!

A farci compagnia abbiamo trovato Pietro Paredi, guida alpina emerita e grande conoscitore dei Corni di Canzo. Pietro è uno degli ispiratori delle nostre salite ai Corni ed incontralo è sempre l’occasione per aggiornarlo sui nostri progressi e per ascoltare nuove storie sulle vie che ancora ci mancano.

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Oggi gli alpinisti di punta riescono a fare cose straordinarie ma è incredibile pensare a cosa abbiano fatto le generazioni precedenti e sopratutto con quali mezzi. “Sulle staffe devi alzarti piano, strisciare sulla roccia. Non puoi tirare, i chiodi a pressione devi farli sempre lavorare. Se tiri saltano fuori. Si faceva il buco con il punteruolo, li si batteva ma  dovevano lavorare sempre ad incastro verso il basso” Mi racconta mimando i gesti “Reggono il peso ma non puoi volarci sopra, strappi tutto.” Chiedo io.

Pietro inizia a raccontare di nuovo. “Una volta eravamo sul corno Orientale, stavamo tentando la ripetizione di una via con il nome di un prete, l’Arturo Pozzi credo. Ero da secondo ed avevo lasciato andare davanti il mio compagno. Glielo dicevo di non tirare ma cominciava ad essere stanco e così, tirando le staffe per raggiungere il chiodo successivo, ha fatto saltare quello su cui era attaccato. Cadendo ha strappato otto chiodi a pressione prima che riuscissi a trattenerlo.  L’ho fermato sull’ultimo chiodo davanti alla sosta. Poi ci siamo calati e per quel giorno abbiam lasciato perdere”. Otto chiodi sono un eternità di tempo e spazio che moltiplicati per la gravità  si traducono in spaventosa velocità e forza “‘Otto chiodi! Ma se arrivava alla sosta?” chiedo stupito. Pietro ride, fa un gesto chiaro con la mano lasciandola cadere verso il basso. “Su quei chiodi non devi volare, devi andar su piano piano”

Davide “Birillo” Valsecchi

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