Author: Ivan Guerini

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Il signore dell’attenzione

Il signore dell’attenzione

IL SIGNORE DELL’ATTENZIONE di Ivan Guerini – Ricordando Giovanni Rossi.

Nell’ambito della mia vita e in rapporto a chi ho conosciuto, l’amicizia intercorsa con Giovanni Rossi è iscritta ben sopra le ragioni inerenti l’ambito della società alpinistica grazie alla quale ci siamo conosciuti.

Le nostre voci s’incontrarono telefonicamente per la prima volta all’inizio degli anni ’70 quando mi chiese informazioni sulle prime ascensioni che a quel tempo avevo compiuto assieme a Mario Villa nelle zone più disertate delle Alpi Centrali, mentre stava aggiornando la guida Masino Bregaglia Disgrazia di Aldo Bonacossa.

La nostra amicizia trovò un fermo punto d’incontro tre decenni dopo, nel 2004, in occasione di un elogio che espresse a proposito de: La Natura Verticale alla luce della libera esplorativa, la prima monografia che scrissi sull’Annuario Accademico CAAI, importante “sciabolata Etica” al pensiero ignavo dei pavidi Anti-Etici.

Giov, come era consuetudine chiamarlo nell’ultimo decennio della sua vita in cui assieme a Monica lo frequentammo con costante assiduità, dall’alto del suo nono decennio d’età e cultura tradizionale non ebbe resistenze verso la mia cultura singolare, così ci trovammo talmente bene che sua figlia Sabine tuttora stenta a credere come la nostra amicizia fosse potuta attecchire.

Come la sua proverbiale rettitudine abbia mai potuto reggere con tanta pazienza al mio balzare di palo in frasca in balìa della deflagrazione di mille argomenti e interessi nati contemporaneamente che di volta in volta gli sottoponevo con abituale irruenza, è davvero un mistero che credo sia la fonte che alimenta la stima e l’affetto tra individui ineguali.

Sono certo che per un professore come Giov, con quella sua spiccata predilezione per la sintesi, i nostri dialoghi telefonici estemporanei e soprattutto prolungati, avranno certamente rappresentato delle vere e proprie prove.

Dal giorno in cui andai con Monica a trovarlo per la prima volta nella sua villa di Varese, gli appuntamenti con lui non s’interruppero più. Ogni volta, dalle cose che ci stavano più a cuore, dette e ridette come scorci con differenti angolature, scaturivano riflessioni impensate, considerazioni impreviste, sfumature osservative sfocianti in tematiche sempre nuove.

Di tante di queste il tempo vissuto ci ha consentito di realizzarne solo una minima parte ma, come suggerisce una visione della vita priva di confini spaziali o scadenze temporali e proprio per questo: “Tutto ciò che non si è fatto in tempo a fare trova risposta in tutto ciò che non avremmo mai pensato di fare”.

In quegli incontri eravamo circondati e come osservati dalle foto di montagne che sua moglie Luciana, scalatrice caparbia, aveva appeso ai muri della tavernetta, diventati specchi meditativi dei ricordi che l’hanno confortata negli ultimi mesi della sua inesorabile malattia; dal malinconico primo piano di Teresa la seconda figlia persa prematuramente e dall’immagine della gatta Ippolita immortalata in un momento in cui osserva attenta Giov mentre corregge la bozza di una delle tante traduzioni inedite di testi alpinistici tedeschi o britannici realizzati uno dopo l’altro con instancabile e irriducibile costanza.

Tanti furono i pranzi conviviali, durante i quali noi tre discorrevamo con ironia: sorvolati dai salti degli scoiattoli in volo sulle alte fronde degli alberi del giardino, osservati dalla comparsa delle nubi temporalesche d’una giornata che ci aveva concesso comunque il tempo per una camminata prealpina e una volta anche rallegrati dal fuoco del camino che per se difficilmente accendeva se non in compagnia di amici.

E puntualmente a una certa ora del primo pomeriggio le sfiancanti chiacchierate terminavano con una mano davanti agli occhi di Giov: era il segnale discreto che per noi era ora di andare.

Giov era una persona assai disponibile laddove ci fossero la necessità l’urgenza o l’importanza, era invece notevolmente insofferente dell’inutilità dispersiva di tutto ciò che è banale e non occorre ad avanzare a livello personale, sociale, ambientale; mai lo sentii screditare chi non la pensava così ad eccezione dell’ambiguità deplorevole di quel pensiero diffuso che intende sostituire l’altezza dell’Autenticità con i bisogni della Mediocrità: dall’Alpinismo, allo Stato, al Cristianesimo non più Tradizionale che rimpiangeva con nostalgia e del quale fù osservante e studioso, soprattutto di quello Medievale.

Pareva snob ed era invece umile volontario a fianco dell’Etica anche Alpinistica, dalla maggioranza oggi così disdegnata o ignorata; e dall’Etica fu nobilitato, tantè che appena “prima di lasciarci riuscì a lasciarci” il primo libretto che parlasse di lei: “Alpinismo Si o No”, che fece stampare di tasca sua in cento copie numerate chiedendomi di distribuirle alle persone più sensibili.

Le avvisaglie di questo legame indissolubile si avvertivano già nella scelta del quadro di Caspar Frederich in cui si vede allontanare una figura femminile in un orizzonte di luce che inserimmo nell’apertura d’uno scritto in ambito accademico, dove in didascalia stava scritto: “Dea Etica volta al Tramonto”.

Giov scrisse colte presentazioni e scritti sintetici e forbiti per i miei due ultimi libri d’esplorazione alpina, uno su una valle e l’altro su un intero territorio. Immedesimandosi in esperienze alpine assai diverse dalle sue e centrandone la valenza intima con la precisione di un “fuciliere culturale” scelto, come a dire che la capacità conoscitiva, focalizzando l’essenza, si raccorda a tutte le cose.

Dopo magagne saltuarie, delle quali non si lamentò mai, ma sulle quali fece parecchia ironia, si manifestò la malattia che lo avrebbe accompagnato nella dimensione dei trapassati.

Alla progressiva debolezza reagì con lucidità e forza, scrisse fino all’ultimo e fino all’ultimo disse e pensò solo cose necessarie a se perché lo fossero anche agli altri, perchè raggiungessero il futuro nel quale ci attende riflettendosi nella vita di chi gli è stato amico.

Degli ultimi incontri, ricordo il rumore dei suoi passi dosati, sempre più secchi e scanditi come rintocchi di un metronomo diventato pendolo, per salire al piano di sopra, dove si trovava il suo studio: in senso assoluto il punto più luminoso della casa, pervaso dalla luce radiante della cultura perenne, dove saliva ogni volta a prenderci qualche libro o pubblicazione che riteneva indicativi e puntualmente, ogni volta, ci donava.

Rivedo come fosse ora l’ultima volta che ci siamo incontrati mentre risale lentamente le scale che lo avevano condotto in cantina per prendere le copie delle sue pubblicazioni e consegnarcele con la fatica di una picozza conficcata sul punto sommitale della vita.

E prima di congedarci seduto in poltrona con una mano sugli occhi mentre muoveva le dita eleganti al ritmo di parole misurate con le quali ci dava le sue ultime indicazioni: un congedo rimasto vivo che fa sentire netta e accanto la sua voce.

Stanco e mai vinto, come un soldato schierato al fronte della correttezza per la preservazione dell’Etica.

Ivan Guerini
6 giugno 2018

Addendum di Monica Mazzucchi
Giov soleva rafforzare i carteggi con noi con poesie dei grandi letterati anche tedeschi e britannici: Maurice Maeterlinck, Whintrop Young, Giosuè Carducci, Giacomo Zanella, ma anche raccontare sogni come preziosi doni di riflessioni o tremendi incubi come quelli in cui la montagna affiorava dal mondo urbano.

Al suo estro letterario ricambiavamo con sonetti spontanei fatti da noi, nello scrivere spicciolo usava parole del tempo che fù come: “fatto inaudito, pignolesche osservazioni, prognosi nefasta, famigerato legamento, evidente impresentabilità, pasto frugale, ubbie del pensiero, delusioni esiziali, megera”, con cui descriveva i fatti e i comportamenti d’individui particolarmente fastidiosi o estremamente gravi, con notevole senso dell’ironia.

Giov aveva pochi amici autentici con i quali si trovava, a partire da Carlo Zanantoni che fino agli ultimi giorni gli stette accanto, il Colonnello Masera, Fabio Masciadri, Bianca di Beàco.

Con Bianca fu un’amicizia che perdurò fino alla fine e proprio lui ci annunciò che era mancata l’ultima volta che ci incontrammo.

Giovanni Rossi, ottantunenne, alla Rocca di Orino durante una breve arrampicata sul muro di cinta della Fortezza. Uomo di grandissima cultura era attento a ogni espressione della scalata, sopratutto alpinistica, che stimava solo se eticamente corretta.

Avventura ed Esplorazione

Avventura ed Esplorazione

ivan-gueriniVi siete mai chiesti che differenza ci sia tra Viaggio, Avventura ed Esplorazione? Tra Esplorato ed Inesplorato? Personalmente non avevo mai avuto motivo di chiedermelo fino al momento in cui questa domanda si fece per me così importante da diventare un balcone da cui osservare un panorama del tutto sconosciuto.

Solitamente quando si pensa all’Esplorazione degli spazi sconosciuti balzano alla mente gli ostacoli principali che li contraddistinguono: solitudine in isolamento, fatiche spropositate, rischi, pericoli, tentativi ed anche tragedie.

In trent’anni d’attività esplorativa di tanto in tanto mi sono domandato come mai escursionisti, alpinisti e arrampicatori così difficilmente si recano in un bosco, lungo una valle, sul fianco d’un monte in mancanza del sentiero. Ed abbiano sempre bisogno del sentiero o di un itinerario attrezzato come incentivo.

Pensandoci bene l’idea d’Esplorare è oggi più che mai “fuori percorso” dalla maggioranza dei punti di vista. Costeggiata dal pensiero meditativo dei Viandanti non interessa nemmeno ai Pellegrini un tempo impegnati a seguire un percorso lastricato dalla certezza d’una Fede. La stessa certezza che staccatasi per Laicismo da essa è diventata prima Escursionismo e poi Trekking. Tutte forme di cammino che persino gli Atei eseguono in maniera inconsapevolmente religiosa ben sapendo che, pur senza necessità d’espiazione ed avendo fiducia nel sacrificio della fatica, essa li condurrà a una qualsiasi Mèta. Tale cerchio ideologico ha occorso da sempre a chiudere l’individuo di là da una comprensione percezione più universale della Natura in cui agisce.

La memoria che lega i più all’Esplorare è rinchiusa nell’immagine di uomini sudati, che procedono a fatica con abiti lisi in un punto imprecisato d’una foresta, tormentati dai moscerini di innumerevoli disagi, sprofondati fino alla cintola in situazioni scomode, ed ovunque ammaccati dalle insidie.

Per la maggioranza d’oggi la parola Esplorare [in senso stretto] non ha valore poiché associa l’esser “fuori sentiero” alla pratica del Survivor, la pratica di chi si avventura fuori sentiero non per conoscere ma per provare a sopravvivere testando la propria autonomia nei disagi, il più delle volte contenuti dai mezzi.

Certo un tempo Esplorazione ed Avventura erano come le due parti della stessa medaglia. Invece ora chi si Avventura, pur trovandosi fuori sentiero, vive il Mondo in cui agisce in funzione all’accumulo di sensazioni della propria esperienza personale, e lo fa trovandosi suo malgrado sulla fatidica pista che combatte ostacoli perseguendo una Prova. Mentre invece, quando si Esplora, ci si inoltra per addentrarsi senza certezza di Scoprire.

Una cosa è Esplorare per conoscere il Mondo, altra cosa è Avventurarsi rispecchiando nel Mondo l’orgoglio della proprie Esperienze. Purtroppo, se questo inapparente frainteso non decade nel secondo caso il Mondo lo si calpesta ma non lo si percorre, e ci si realizza ma non lo si conosce. Al traguardo d’ogni risultato si è premiati dalla statuetta d’una Gioia caduta e andata nei mille pezzi di una felicità irraggiungibile. Frantumi di soddisfazioni e meriti a brandelli.

Cosa caratterizza i due intenti? Se è vero che “il falegname ed il poeta non vedono un bosco allo stesso modo” (Galimberti) affrontare la propria insensibilità è d’importanza fondamentale per vivere un’esperienza non circoscritta a se stessa che chiuda l’individuo fuori dalla percezione sovraterritoriale del luogo in cui agisce.

Cercando di individuare il senso dell’Esplorazione, le intenzioni che spingono a praticarla ed i punti di contatto sostanziali tra i differenti punti di vista dei modi d’intenderla, si evidenziano le discrepanze etiche che muovono a considerare l’Esplorazione (delle zone effettivamente sconosciute) stessa cosa dell’Avventura (del servirsi dei luoghi per provarsi).

Ciò che differenzia l’Esplorare dall’avventurarsi, è il fatto che quando ci si Avventura si affronta una situazione soggettivamente sconosciuta (che un individuo prova in se e identifica in quello che fa) mentre invece quando si Esplora ci si addentra in una condizione oggettivamente sconosciuta ed (uguale per tutti) che caratterizza le zone realmente Inesplorate.

Ecco perché praticare una propria esperienza in un qualsiasi luogo o la salita di un itinerario attrezzato può essere un’Avventura interiormente grandiosa ma non è detto che ciò corrisponda all’Esplorazione grandiosa del Mondo.

Ciò fa subito considerare che l’Esplorazione esula dal concetto di itinerario, e quindi Inesplorato è soprattutto un luogo mai percorso più in relazione al Territorio che alla Geografia.

E’ anche vero che non molto si è detto a proposito del valore che ha l’inesplorato che da sempre precede ogni forma d’avanzamento esplorativo: un territorio inesplorato è caratterizzato dalla mancanza di definizione geografica e di precedenti storici, altrimenti non sarebbe tale, lambito dal mondo conosciuto è oggi scrutato dai rilevamenti della geografia satellitare.

Lo si comprende bene quando si affronta un territorio, magari non complesso, ma effettivamente privo di riferimenti storici e geografici, dove ci si addentra in una terra che sconosciuta-incognita lo è per davvero poiché ciò che un individuo di se non conosce entra in relazione con ciò che del luogo non conosce.

Ciò che oggi s’intende per Inesplorato è paragonabile ad un marchio DOC citato soprattutto dai VIP del grande alpinismo e delle grandi traversate quasi fosse un plusvalore, che fa da contenuto aggiuntivo ad un’impresa per caricare il vuoto geografico di segretezza, ma il più delle volte non aggiunge granché a proposito del suo significato. Se non ai giornalisti che, dopo una conferenza stampa, riportano pareri nei corrispettivi quotidiani.

Eppure, colui che Esplora (se anche ha una mèta iniziale che lo spinge a partire state sicuri che la perderà strada facendo, distratto a prestare attenzione all’evento che lo decentrerà) davvero inspira l’aroma di spiragli celati, ode l’essenza delle sostanze in essi contenuti, avverte in anticipo il cambiamento delle condizioni che sta per incontrare. Se non avvenisse in lui questa sconnessione sensoriale difficilmente sarebbe in grado di continuare ad Esplorare.

Certo è che Esplorare è una cosa pure diversa dal viaggiare, col Viaggio ci si porta ai margini dei luoghi Inesplorati, e tramite essi si raggiunge l’orlo di qualcosa di tremendo e grandioso che andremo in seguito a considerare: l’Ignoto che li contiene.

Ciò che provo oggi dopo molteplici esperienze è di sentirmi baciato in fronte dalla fortuna, grazie anche al fatto che dopo anni di fatiche sulla mia fronte c’è più spazio di prima, ma soprattutto perché pur non avendo girato il mondo, per salire tutti gli 8000, per scalare le grandi pareti inesplorate, per traversare catene non percorse più da decenni o per traversare zone dove sperimentare cose che spesso chi le ha vissute non è in grado di spiegare, forse ho capito cose che muovendosi in lungo e in largo non è detto possano esser focalizzate.

Ivan Guerini

(Tratto da “Il Senso dell’Esplorazione” di Ivan Guerini, pubblicato integralmente su “Rivista della Montagna” nei primi anni ’90 – anno XXXI°– n°247) 

Anti-Etica dell’Arrampicata Vincolata

Anti-Etica dell’Arrampicata Vincolata

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L’EPOCA ANTI-ETICA DELL’ARRAMPICATA VINCOLATA – 1984 – 2016
La ragion d’essere della Vincolata

Chiunque abbia vissuto riflettendo con un minimo di senso critico le vicissitudini che hanno caratterizzato la Storia dell’Arrampicata dei quattro decenni trascorsi, non può non considerare che l’avvento dell’infisso permanente (spit) utilizzato per praticare l’arrampicata vincolata, sulle placche della val di Mello ha avuto un significato di impatto innegabilmente drammatico: sia ambientale in rapporto allo stato di compattezza della natura verticale, sia storico in rapporto alla storia avvenuta e alle possibilità future, sia rispetto all’etica di salita per quanto concerne la natura della difficoltà.

Tutto questo ha condotto sempre più chi si arrampica, nei luoghi attrezzati, a trovarsi a una distanza astronomica dalla possibilità di interagire con l’integrità delle componenti geologiche e la difficoltà naturale su cui i più agiscono senza più interagire. In senso Antropologico è il trionfo della superficialità laica che considera la natura con la ristrettezza mentale di un’ottica fattiva e dell’ego parrocchiale con il culto della condivisione posticcia trasferita all’arrampicata. La maggioranza ignara e consenziente ha agito giostrata da mentalità che hanno portato a trasformare gli elementi di geo-diversità dei Litotipi in un oggetto di autocompiacimento: l’arrampicata libera imprigionata nella “via crucis” di un’arrampicata vincolata da infissi permanenti e la progressione istintiva trasformata in una progressione meccanica e abitudinaria.

Con la vincolata si consolidò l’idea di salire anche i settori naturalmente impercorribili e a quel punto le placche ripide percorribili in aderenza con una dinamica di salita spontanea, istintiva sia facile che difficile, divennero placche a muro ancor più ripide, sulle quali costruire una progressioni deduttive necessarie a trasferire l’equilibrio da posizioni aleatorie a ristabilimenti temporanei che permettono di procedere in funzione ai riferimenti costanti degli infissi, vicini o lontani che siano. E’ la sostituzione distruttiva del Mondo sconosciuto con un altro Ri-costruito.

Se è vero che gli approfondimenti storici di questi ultimi anni hanno dimostrato che la Libera Esplorativa è sempre stata saldata all’Etica di salita, è evidente che l’arrampicata vincolata, non può essere considerata la sua continuazione attualizzata, ma una tipologia di salita Antietica che ha realizzato un’anti-storia. In tre decenni, l’Arrampicata Vincolata da infissi permanenti, ha inesorabilmente omologato anche i suoi praticanti, suddividendoli in tecno-esteti e tecno-cottimisti assuefatti alla tecno-bellezza che offre tecno-soddisfazioni di movimenti vincolati e in più obbedienti alle tecno possibilità delle placche-attrezzate, dove potenziare tecno capacità per superare difficoltà alterate.

Va detto che la vincolata è realizzata da attrezzatori forti della loro superficialità, incongruenza e insensibilità naturalistica e per lo più mossi da un’ambizione realizzativa che rivela una metodologia da contabili. La vera preoccupazione che ne deriva è l’assoluta mancanza di scrupoli nei confronti dell’Ecosistema Verticale unitamente alla mancanza di senso critico nei confronti della storia esplorativa avvenuta come ad approdare all’assoluta dubbia convinzione che: “Il Trapano non si discute”!

Come si nota nel parere di Paolo Vitali: “non c’è differenza tra il miglioramento del materiale tecnico e l’impiego degli infissi su roccia”, come a dire che non c’è differenza tra la produzione della plastica e la “nazione di sacchetti” che galleggia nell’Oceano. Un esempio di ragionamento: innovativo, regressivo o inetto?

NO SPITZONE – per la preservazione della Natura Verticale
La roccia non è uno specchio dell’azione umana ma una espressione della natura verticale alla vitalità dell’azione.

Cinque decenni trascorsi a stretto contatto con la condizione sconosciuta della roccia durante i quali: gli anni, i mesi, i giorni e le ore vissuti sono divenuti “momenti di pietra”, mi hanno permesso di capire che la roccia non è soltanto quella superficie immobile o cedevole, facile o difficile, attraente o repulsiva che tutti conosciamo, ma è materia formata da componenti che possono suscitare emozioni che intervengono sulle azioni.

La compattezza e l’instabilità della roccia sono componenti geologiche che insieme agli alberi, l’erba e la terra formano la natura verticale originando anche la natura della difficoltà che deve affrontare chi arrampica.

A metà degli anni ’80 è attecchita l’idea anti-naturalista che proprio quelle componenti fossero le principali responsabili del rischio in arrampicata, fino a considerarle estranee al contesto naturale cui appartengono. Fu così che fu escogitato l’alibi della “messa in sicurezza” per utilizzare deliberatamente mezzi tecnici permanenti (spit-fix) nella natura verticale, realizzando tracciati pre-costruiti di arrampicata vincolata che fossero in tal modo accessibili ai diversi livelli d’incapacità di ognuno.

Con l’andar del tempo la tendenza a servirsene si è rivelata “pericolosa” proprio perché il rischio di incidenti non fa parte delle componenti geologiche, ma è insito nell’incapacità degli scalatori resi dipendenti da una attrezzatura inamovibile e completa che intacca l’autonomia psicofisica. Questo spiega quanto l’integrità delle componenti sia indispensabile per interagire sensibilmente e consapevolmente nel contesto ambientale in cui si agisce sempre con autonomia e sicurezza: in Natura come nella vita quotidiana è di vitale importanza essere costantemente attenti.

Praticare l’arrampicata vincolata da infissi permanenti non solo è incompatibile con l’Ecosistema Verticale, ma annulla nei praticanti 8 capacità sostanziali:

  • interagire con le componenti geologiche di compattezza e instabilità.
  • affrontare la difficoltà intatta insita in loro.
  • percepire il rischio che dipende da noi.
  • valutare il pericolo presente attorno a noi.
  • mantenere l’autonomia psicofisica.
  • riconoscere la storia avvenuta.
  • rispettare le possibilità esplorativa.
  • preservare la natura verticale.

Gli infissi permanenti sono mezzi tecnici geo-incompatibili

Occorre riflettere: mentre i chiodi, i nuts e i friends sono mezzi tecnici geo-compatibili perchè lasciano pressochè intatte le componenti geologiche di compattezza e instabilità della roccia, gli infissi permanenti risultano mezzi tecnici geo-incompatibili proprio perchè incidono sulla integrità di queste componenti con linee parallele e ravvicinate di tracciati metallici che, nelle zone più accessibili sono addirittura sovraffollati.

Alla luce di queste chiarificazioni risulta evidente che gli infissi permanenti NON SONO mezzi tutelativi che preservano la sicurezza degli scalatori, ma mezzi ottenitivi che determinano l’inesorabile impatto ambientale che ha concorso a modificare la natura verticale in una verticale attrezzata. Riducendo gli Ecosistemi Verticali intatti in ciò che già nel 1930 Renzo Videsott, l’inventore dei Parchi Nazionali Alpini, definiva dei veri e propri “Cantieri provvisori per lavori di varia emergenza”.

Ivan Guerini

Articoli tratti dal libro: La valle degli specchi di pietra: Storia esplorativa inedita della Val di Mello

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