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Le Grotte della Cassina

Le Grotte della Cassina

«So di non sapere». Socrate lo diceva già 400 anni prima di Cristo, gli Operation Ivy la traducevano in Punk nel 1989 con l’intramontabile Knowledge, un super classico ripreso poi dai Green Day nel 1990. «Tutto ciò che so è di non sapere». A complicare la situazione ci si sono messi anche Dunning e Kruger che, nel 2000, hanno rimarcato quanto sia pericoloso “credere di sapere” così come il “credere di non sapere”. Citando Shakespeare: «Il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio». Quindi, comunque la fai, la sbagli… La mia scarsa esperienza mi porta a pensare che il percorso che conduce alla conoscenza non sia lineare, bensì un’intricata serie di ramificazioni, di bivi e vicoli ciechi. Ogni scelta giusta è il risultato di una serie di scelte sbagliate: la ricerca come costante alternarsi dinamico di tesi ed ipotesi. Tuttavia come direbbe Leslie Claret, così come riportato nel suo famoso libro “The Integral Principles of the Structural Dynamics of Flow”, il problema principale è andare dal punto A al punto B. Purtroppo in questo io sono un completo fallimento ed anche oggi, nel tentativo di trovare il percorso migliore tra A e B mi sono distratto e mi sono smarrito. Così, sulla strada tra A e B, ho scoperto cose di cui ignoravo completamente l’esistenza. La vera conoscenza si ottiene quindi distaccandosi dai propri obiettivi? Il cazzeggio come metodo di ricerca? 50 e 50 direi. Ma andiamo con ordine. Parcheggio il Subaru in una piazzola lungo il lago. Conoscevo l’esistenza di questo spiazzo perchè a) ci ero già stato b) avevo studiato sulle mappe il possibile itinerario c) avevo fatto un primo sopralluogo con Krulak mesi fa con tanto di rilevazione georeferenziata. La piazzola è a poca distanza da una vecchia scala in sasso da cui parte un vecchio sentiero che, stando a quanto presumo dalle informazioni raccolte, risale verso Caprante e verso Oneda. Il tratto di sentiero che risale verso Caprante è stato ormai verificato, confermato anche da alcune vecchie scritte a vernice sui Faggi. Quello verso Oneda rimane invece ancora un mistero: è indubbio che passi da quelle parti ma il tempo, gli alberi e le rocce cadute, hanno cancellato ogni certezza della traccia. Restano solo delle scritte a vernice e dei “segni”, sempre a vernice, che probabilmente appartengo ad un’altro sentiero che punta invece verso sud anziché alzarsi di quota. Con grande diligenza ed impegno sono quindi giunto all’ultimo “punto certo” di questa traccia ed ho cominciato a cercare. Tuttavia dapprima sulla sinistra è apparso un muflone, maschio con grandi corna, sorpreso ed infastidito dalla mia silenziosa presenza. Poi, sulla destra, in lontananza due caprioli sono fuggiti verso l’alto costeggiando la base delle pareti della “Cassina”. La mia mente ha quindi iniziato a divagare. «Ma se queste pareti si chiamano “sasso della cassina” esiste una correlazione con la Val Cassina che, dividendo il Sasso Cavallo dal Sasso di Seng, si trova quasi esattamente dirimpetto sull’altro lato del lago? Cosa significa realmente “cassina” nel vecchio dialetto?» Seguendo questi pensieri avevo già smesso di ripercorrere gli sbiaditi segni del vecchio sentiero imboccando invece le “chiare autostrade” tracciate da mufloni, cinghiali e caprioli attraverso il bosco. A giustificare, almeno in parte la mia deviazione, il ritrovamento di un vecchio costrutto umano: il basamento quadrato e squadrato di un antico riparo a ridosso della parete. La strada degli animali prosegue verso l’alto in un susseguirsi evidente di orme e tracce nel fango. Anche io mi adatto al loro stile e li seguo imbattendomi in una stranezza. Trovo infatti un barattolo in plastica rigida per le caramelle avvolto con lo scotch nero da elettricista. Nel bosco, specie a ridosso delle grandi pareti al di sotto di insediamenti umani, si trovano spesso rifiuti “archeologici” di ogni tipo. Questo però è particolarmente fuori luogo. Aprendo il barattolo tutto mi appare più chiaro: è una geocache. Con l’avvento dei GPS economici (ma grazie anche al fatto che gli Americani hanno smesso di disturbare i segnali GPS per usi civili nel 2000) è nato un curioso gioco: qualcuno nasconde un barattolo, pubblica su internet la posizione gps, qualcun’altro prova a cercarlo. Una specie di caccia al tesoro. All’interno del barattolo un oggetto “testimone” ed un foglio di carta dove “annotare” il nome di chi l’ha trovato. Il primo in quest ricerca (o forse colui che ha lasciato il barattolo) è tale “Selvatik” nel 2015. L’ultimo, in ordine di tempo, a ritrovarlo è invece “Clo22” nel 2018. E’ curioso che un gioco che si basa sull’uso dei satelliti e della world wide web si risolva poi con carta e penna rievocando i vecchi libretti di vetta tanto in voga prima dell’era digitale. Ripongo tutto nuovamente nel barattolo inquadrando meglio la situazione. Il barattolo si trovava infatti in un canale che avevo iniziato a risalire per meglio osservare una “cavità interessante” che avevo intravvisto. Il barattolo quasi sicuramente stava lassù prima di rotolare verso il basso: la cavità infatti è una vera e propria grotta. Più che una grotta è una multigrotta. Originata da una frana è infatti caratterizzata da 3 cavità poste una sopra l’altra. Quando mi avvicino all’ingresso noto una scritta rossa sulla roccia: 2375. Quella scritta indica il numero identificativo della grotta nel Catasto Speleologico Lombardo. La scoperta mi sorprende perchè è da qualche settimana che ho nostalgia delle grotte e mi riprometto di riodinare il vecchio archivio fotografico. Tuttavia, ingenuamente, non mi aspettavo di trovarne da quelle parti. Il piano inferiore è facilmente fruibile, una bella stanza aperta facilmente visitabile. I due piani superiori sono invece raggiungibili con una breve arrampicata decisamente poco consigliabile (è tutta terra e roccia viscida e c’è una sola presa solida a cui mi sono quasi disperatamente aggrappato per scendere). C’è una saletta ed una nicchia concrezionata ma, tutto sommato, non vale il rischio. Mentre vi scrivo, dopo aver consultato il catasto, posso dirvi che la 2375 ha un nome: “La grotta della Lella”.

Soddisfatto del ritrovamento torno al mio piano “A verso B” seguendo nuovamente le tracce degli animali. Poco oltre le tracce formano un nuovo bivio. Una traccia prosegue costeggiando la base della parete, un’altra rimonta degli speroni rocciosi verso un terrazzino più in alto. Sbuffando con me stesso inizio a risalire gli speroni di roccia instabile e terra bagnata maledicendo la mia pericolosa curiosità. Poco sopra trovo una bella grotticella rosa: una nicchia ad altezza uomo profonda tre o quattro metri e caratterizzata dal colore rosa assunto dalla roccia. Probabilmente gli animali salgono quassù per prendere il sole e ripararsi in quella cavità. Le tracce a terra però dicono che c’è dell’altro: le seguo lungo il terrazzamento e, girato uno sperone, trovo l’ingresso di una grotta decisamente più grande ed articolata. Dal buco d’ingresso si accede ad una grande stanza attraversata da un arco roccioso e spalancata verso l’esterno graie ad un’apertura più grande sulla parete. La grotta, orizzontale, è ampia e si addentra alta e percorribile per una decina di metri, illuminata sia dalla grande apertura sulla parete, sia una “lucernario” quasi sul tetto. Risalgo attraverso quest’apertura e mi ritrovo su un secondo terrazzamento dove evidentemente anche gli animali vengono spesso: io però trovo i 40 metri di vuoto sottostanti decisamente inquietanti e, sebbene tentato, decido che senza un pezzo di corda ed un socio a fare sicura è decisamente sconsigliabile proseguire oltre nelle pieghe della parete. All’ingresso della grotta un segno rosso, in buona misura sbiadito dall’acqua, riporta: 2376. Nel Catasto questo numero possiede un nome: “Grotta dell’Arco”. Senza gli animali ed il loro passaggio non avrei trovato questa grotta che nell’antichità poteva essere considerato una specie di super attico di lusso. Viene da chiedersi cosa si possa trovare più in alto, là dove gli animali non riescono ad arrivare. Corni di Canzo e Moregallo hanno però pochissime grotte, quasi tutte sono piccole e principalmente create da frane più che fenomeni carsici. Nulla vieta però di fantasticare sulla presenza di una grande e mai scoperta cavità che inoltri nelle profondità della montagna (come ad esempio avviene nella zona del San Primo).

Riprendo il mio cammino sulla “pista degli animali” e mi imbatto in un altro segno rosso, questa volta evidente ancora prima della cavità. Il segno, 2834, è posto alla base di un ripido e scivoloso canale di terra stretto tra due alti fianchi rocciosi. In cima al canale si vede la cavità. Lungo il canale è abbandonata una vecchia corda e sull’ingresso è visibile un armo a catena. La faccenda è decisamente differente rispetto alle altre grotte ed è evidente che lassù gli animali non ci vanno. Nello zaino ho 30 metri di statica (“perché non si sa mai”) e posso quindi prendermi il lusso di risalire il canale con la sicurezza di avere una corda buona per ridiscendere. Il vecchio canapo, fissato in alto ed in basso con due anelli, è inquietantemente zuppo e viscido. Lo tengo con la sinistra mentre risalgo con le gambe in opposizione sui due fianchi di roccia: la terra in centro al canale è uno scivolo e la corda è assolutamente inaffidabile (quindi evitate di salire!!). Il fatto che gli speleo abbiano attrezzato e lasciato una fissa a cui poi hanno aggiunto un solido armo a catena mi insospettisce. La grotta, superato l’ingresso, compie un piccolo salto di un metro, poi prosegue verso il basso facendo una curva nel buio verso sinistra. Il buon senso mi dice di non entrare, tuttavia mi scoccia non approfondire la faccenda. Così, con grande attenzione scendo il primo salto ed accendo tutte le luci a mia disposizione. Davanti a me ho due o forse tre metri camminabili, stretti in un corridoio, poi una curva ed il buio vero. Resto immobile a riflettere. Poi giro i tacchi e rimonto il metro di roccia che mi separa dall’uscita. Le grotte sono un mondo bellissimo… e cannibale! Sono per certi versi uno degli ambienti più estremi e pericolosi in cui ci si può imbattere. Sono solo, non conosco la grotta, c’è un armo speleo: davanti a me, nel buio, potrebbero esserci anche solo un paio di metri di salto ma se per qualsiasi motivo, anche senza infortunarmi, quei pochi metri riescono a tenermi prigioniero non c’è modo di avere aiuto dall’esterno. Senza cellulare, in un posto simile, chi mai potrebbe trovarti? Non è mai buona cosa dare le “tu” ad una grotta, specie quando la luce smette di filtrare ed inizia a puntare verso il basso! Con il mio fidato spezzone ridiscendo in doppia fino all’esterno riguadagnando la tranquillità di quel bosco detritico. Alla base trovo, quasi a ricompensa, un colorato camion giocattolo che spunta dalla terra. Il numero sul muro mi dice ora che quella grotta si chiama “Pozzo della Cassina”. La grotta è stata rilevata da Marco Bomman e Adolfo Merazzi nel 1977, rilevata nuovamente da Andrea Maconi nel 2018. Così, grazie ai social media, ho contatto “Maconi” che gentilmente mi ha inviato il rilievo: ora posso dirvi che oltre il buio mi attendeva un salto verticale di 30 metri. Un “tuffo” che mi avrebbe reso “immobile prigioniero” della grotta fino al prossimo rilievo (probabilmente tra altri 40 anni!!). Questo solo per rimarcare i pericoli delle grotte e di questa nella specifico.

Il mio piano originale, “tracciare il sentiero che sale verso Oneda e poi quello che scende fino al fiume nella valle delle Moregge – A verso B” è ormai inevitabilmente fallito: le grotte mi hanno “rubato tempo” e ben presto mi verrà fame e voglia di tornarmene a casa. Quindi cerco di rimediare e salgo comunque fino alla falesia, incrociando la strada che sale verso Oneda alla prima stanga. Qui, nel bosco, trovo un cranio di muflone femmina, senza corna salvo un accenno. Potrei scendere per la strada asfaltata ed infilarmi nuovamente sulla dorsale della Cassina all’altezza della “piazzola ecologica” (perchè discarica sembra dispregiativo). La fame inizia a farsi sentire, ma l’asfalto è una vera noia. Opto invece per il bosco cercando una linea che mi porti verso il basso. Nel bosco c’è un “taglio”, un netta striscia libera di vegetazione, attraversato dai piloni della luce che scende verso il Nautilus, sulle sponde del lago. Qualcuno su un pilone ha scritto con vernice bianca “Lago” aggiungendo una freccia. Stessa cosa sul pilone successivo. Così, come un orso ottuso, inizio a scendere. Raggiungo una bella radura che i proprietari di alcune baite probabilmente tengono falciata e pulita. Quila traccia scompare, così come ogni indicazione. Forse sono i a sbagliare l’uscita, ma l’unica linea percorribile è nuovamente una traccia di animali che scende, fangosa ma battuta, lungo un canaletto ripido. Probabilmente sono l’unico bipede che frequenta quelle parti e la scritta “lago”, recente o antica che fosse, non ha nulla a che fare con quella linea. Dovrei continuare a cercare ma, anche se trovassi quella giusta, dovrei poi camminare a piedi sull’asfalto lungo il lago per tornare al Subaru. Credo che la Provinciale 583 Lecco-Bellagio, la “Lariana”, sia stata piacevole da percorrere a piedi solo una volta nella sua intera esistenza: in pieno lockdown quando era chiusa al traffico per la frana (dal 27 ottobre 2020 al 15 Dicembre 2020). Quindi no, decido di tagliare verso nord cercando di attraversare orizzontalmente in cerca, nuovamente, del sentiero che dalla scaletta sale ad Oneda (Il nostro irrisolto problema “da A verso B”). A darmi man forte sono ancora una volta gli animali: le loro strade sono efficaci ma a realizzate a loro misura. Quindi rocce, canali, rovi ed alberi abbattuti non rappresentano per loro problema, lo stesso però non vale per me. Lungo la via del ritorno trovo però una “quasi grotta”. In tempi antichi la Cassina è andata letteralmente a pezzi: è un sovrapporsi di strati di calcare sedimentario che, innalzandosi verso l’alto, si sono aperti come le pagine di un libro rovinando verso il basso. Per questo motivo a valle della parete ci sono “Massi” di dimensioni enormi che creano piccoli ma intricati labirinti. In uno di questi due grossi massi, circondati da massi più piccoli, si sono incastrati creando una piccola grotta asciutta. Al sui ingresso i “vecchi” hanno costruito un muricciolo. Al suo interno, molto alto, c’è persino un comodo lucernario che rende la standa piacevolmente “abitabile”. Curiosamente, proveniendo da un angolazione diversa, si potrebbe non notare la grotticella e camminarvi sopra, senza nemmeno accorgersi dei piccoli lucernari. La fortuna ha uno strano ruolo nel cammino della conoscenza…

Riflettendo mi accorgo anche che il mio presente percorre un cammino stranamente equidistante – nello spazio e nel tempo – tra i segni dell’uomo, sbiaditi e dimenticati, ed i segni degli animali, vivi e contemporanei. Questa strana attitudine mi porta ad addentrarmi da solo in un luoghi sperduti, senza tempo: strana cosa davvero, comincio a chiedermi quale effetto, alla lunga, possa avere sulla psiche un’esperienza simile…

Davide “Birillo” Valsecchi

Le cascate di Caprante

Le cascate di Caprante

Qualche tempo fa dovevo effettuare dei rilievi per georeferenziare delle particelle catastali nella zona sottostante alla frazione di Caprante, a Valbrona. Le mappa catastali sono quasi sempre imprecise, specie in un territorio difficile come la zona di boschi e rocce che sovrasta il lago. Caprante è una frazione agricola, un altipiano verde e pianeggiante che si trova a 300 metri di quota. Appena oltre i bordi di questo altipiano il crinale precipita rapidamente verso il lago circa 100 metri più sotto. Attualmente un solo “sentiero ufficiale” permette di risalire questo versante partendo dal lago, esattamente dalla palina dell’autobus,  “fermata Onno Guancito” linea Lecco-Bellagio: è un buon sentiero, rimesso a nuovo dai volontari della ProLoco di Valbrona qualche anno fa. La peculiarità di questa zona è infatti quella di essere l’unica propagine dei Corni di Canzo che raggiunge il lago, così come l’unico accesso alle sponde all’interno del territorio comunale di Valbrona. La frazione di Caprante prende il nome dall’omonimo fiume che scorre attraverso la valle e raggiunge il lago superando un vertiginoso orrido finale. Cercare le coordinate precise di una particella è quasi inutile (perchè i dati sono molto approssimativi) quindi mi sono limitato a compiere un sopralluogo individuando e relazionando la tipologia di terreno incontrato: in pratica ho acceso il GSP nello zaino ed ho cominciano ad andare a zonzo scattando fotografie georeferenziate.  Avevo osservato l’orrido dall’alto durante l’estate e ne ero rimasto molto affascinato, soprattutto dagli “scivoli d’acqua” scavati nella roccia. Ad essere onesti avevo dovuto desistere nel continuare la mia esplorazione perchè la quantità e l’altezza della cascate mi impediva di proseguire oltre. Così, dopo aver fatto dei rilievi sulle sponde del lago, il mio viaggio è iniziato proprio sul fiume, questa volta dal basso. Il fiume Caprante, nella sua parte finale, in poco meno di 300 metri di sviluppo precipita per oltre 100 metri di quota: un continuo susseguirsi di cascate strette tra le pareti di roccia. Un secondo fiume, di cui non ho ancora trovato il nome, affluisce sulla destra poco prima dell’ultima cascata. Prima dell’orrido è il fiume della valle di Tovera a congiungersi con il Caprante. L’inverno non è certo il periodo migliore per il torrentismo (l’acqua è fredda e tanta!), per superare le cascate era quindi necessario continuare ad attraversare il fiume aggirando di lato i salti. Il fiume è quasi sempre incassato in una forra, quindi i “trucchi per passare” andavano spesso cercati anche lontano dalla sede del fiume. Questo mi ha obbligato e permesso di scoprire molto sulla conformazione di quella zona. Inaspettatamente ci sono molte strutture rocciose e sono tutte molto articolate. La forra principale, quella in cui scorre il fiume, è circondata da “quinte rocciose”: piani calcarei che si sono innalzati verso l’alto ed incurvati. Inoltre ci sono punti in cui sembra che la montagna si sia aperta “a libro” creando pareti di roccia compatta, alte anche oltre i trenta metri, che come pagine si fronteggiano in strette gole. La vegetazione nasconde queste pareti finchè non ti appaiono davanti all’improvviso, confondendo l’orientamento e gli spazi. A farmi da guida in quel labirinto erano soprattutto gli animali che, nei passaggi obbligati, rimarcano i propri percorsi abitudinari. Questo mi ha permesso di alzarmi sul lato sinistro e quindi, grazie ad un passaggio insperato, di abbassarmi sul fiume attraversando poi nuovamente verso destra. Le pozze del fiume sono bellissime, oasi di quiete che inframezzano i grandi salti e gli scivoli.

Attraversato il fiume verso destra ho provato ad intercettare qualche vecchio camminamento delle miniere di sabbia, oggi abbandonate, del Liscione. Ci ero stato una decina di anni fa con Mattia e, grosso modo, si trovano a monte del Guancito e a valle del Kosmopolitan. Sono vecchie, abbandonate e pericolose. Ripeto: pericolose! Già allora avevano subito importanti crolli ed ero quindi curioso di “tracciarne” l’ingresso e valutarne lo stato. Tuttavia i rovi la facevano da padrone: ho trovato dei vecchi gradini e l’ingresso (spaventosamente puntellato con dei vecchi tronchi) di una miniera che non avevo mai visitato. Cercare quelle più grandi mi stava portando lontano dai miei obbiettivi e così ho preferito puntare verso l’alto (trovate maggiori info in questo vecchio articolo di Cima: grotte liscione). Poco più avanti, nella valle sottostante al Kosmopolitan, mi sono imbattuto in 3 mufloni. Il maschio, con quel suo ridicolo e buffo fischio, ha provato ad intimidirmi: purtroppo per lui quel verso mi fa sempre ridere a crepapelle ed ha dovuto desistere fuggendo deriso. Sempre in quella valle ho trovato le grosse tubature che – se è vero quello che mi hanno raccontato – servono al Kosmopolitan per pompare verso l’alto l’acqua del lago. Non essendo raggiunto dall’acquedotto, sempre secondo quanto mi hanno raccontato, la struttura – che ospita quasi 150 appartamenti ed un enorme piscina – deve captare l’acqua dal basso e depurarla indipendentemente (uno sforzo immane e gravoso!). Stufo di salire verso l’alto (soprattutto perchè il bosco si è riempito di rifiuti ed inerti provenienti dalla sovrastante strada!) ho ripiegato nuovamente verso il basso scavalcando un crinale e cercando di riguadagnare il fiume. Spostandomi mi sono imbattuto in una traccia molto netta che scende dall’alto: sebbene il tracciato appaia piuttosto selvatico un vecchio cippo, su cui è incisa una “S”, ribadiva la natura “umana” di quella linea. Anzichè seguirla verso l’alto l’ho percorsa in discesa ritrovandomi quindi nuovamente ai margini di una grande pozza sul fiume Caprante. Quella pozza è probabilmente la prima “quiete” a valle delle cascate che avevo esplorato in estate, sul limite dell altopiano. A valle di questa pozza il fiume compie un ennesimo grande salto attraverso uno scivolo roccioso.

Dopo avere attraversato il fiume – preferendo l’acqua alta alle scivolose rocce sul vuoto – mi sono imbattuto in qualcosa di inaspettato. Un cavo metallico è fissato lungo la parete, a modi corrimano, con dei chiodi da roccia (dei vecchi Lost arrow della Cassin). I chiodi, più fuori che dentro, sembravano una rudimentale ferrata realizzata, ipotizzo, dai pescatori. Poco più avanti, sul piccolo salto roccioso che rimonta la pozza, un’altra catena – arrugginita e malfida. Un tempo la catena doveva essere ancorata ad una pianta che, ora sradicata, ancora ne conserva un pezzo a penzoloni. La pianta, successivamente, deve essere stata sostituita con dei fittoni ad anello, comunque poco rassicuranti. Mentre mi guardavo in giro cercando di capire è apparso ciò che ha reso tutto chiaro: Aldo Vicini. Tra due pozze c’è infatti una lapide in sasso, con foto e croce, del giovane Aldo. Avevo sentito la sua storia ma non ne sapevo molto, anzi prima di incontrare quella lapide non sapevo neppure il suo nome. Così mi sono fermato un po’ a guardare quell’immagine in bianco e nero. Ora, dopo qualche ricerca, posso dirvi che Aldo, nato  il 20 Luglio 1974, quasi un mio coscritto, ha perso la vita qui il 7 giugno del 1995, mentre si era avventurato sul fiume a pescare. Mi aveva colpito la sua tragica storia perchè mi avevano raccontato fosse morto “annegato”. Guardando le cascate dall’alto, sempre quest’estate, credevo che il problema fosse non “volare”, non precipitare, quindi non capivo. Probabilmente il giovane Aldo conosceva i pericoli ed i segreti di questo fiume meglio di me, sapeva tutti i trucchi per aggirare i passaggi più esposti. Tuttavia il fiume è stretto, impetuoso, compie grandi salti su scivoli ritorti che si infrangono in pozze scavate nella roccia dove l’acqua “frulla su stessa” come nei pericolosissimi “stramazzi” artificiali. Se ci cadi dentro, incosciente per qualsiasi motivo, non c’è possibilità di farcela. Se ci cadi dentro con gli stivali, con una brutta corrente, magari dopo una caduta, diventa davvero difficile “tenere fuori la testa” in quelle pozze, tanto belle quanto infide e profonde. Io sono del ‘76, mi piacerebbe dire che ho un paio d’anni meno di Aldo, ma lui purtroppo lui ne avrà per sempre solo quasi 21. Di fronte alla lapide in sasso, probabilmente infissa per il ventennale della scomparsa, c’è anche una vecchia lapide – probabilmente la prima – realizzata con cemento e conchiglie. Scatto qualche foto e prendo silenzioso commiato dal custode del fiume, di cui ora conosco il nome, il viso e la storia.

Riguadagno il crinale sul lato sinistro e mi alzo fino alle bellissime rocce carsiche che delimitano il piano di Caprante. Riguadagno il sentiero del Liscione e proseguo i miei rilievi più verso sud. Individuo un vecchio tracciato riportato sulle IGM, Istituto Geografico Militare: una carta del 1946 realizzata su rilievi del 1888! Il sentiero, che scende verso il lago appena a Sud delle reti paramassi, è ancora visibile ma probabilmente in disuso da più di 70 anni. Il muro sulla provinciale è ormai troppo alto per scendere: saltar giù un paio di metri, quasi alla cieca, sull’asfalto del rettilineo della provinciale mi sembrava una pessima idea. Così sono nuovamente risalito fincheggiando le reti per intercettare il sentiero. Una volta raggiunto mi sono subito annoiato dopo qualche metro ed ho nuovamente deviato verso sinistra cercando un “taglio” che mi permettesse di raggiungere la primissima pozza sul fiume che avevo superato arrivando dall’altro lato. In pratica la strada ormai la sapevo, stavo solo cercando di tracciare linee interessanti sul GPS spostandomi verso una grossa roccia a punta che ricordava quella famosa del Re Leone. Era ormai ora di pranzo e super rilassato canticchiavo mentalmente il motivetto centrale di “on the road again” dei Canned Head,  compiaciuto della mia piccola esplorazione. Ecco, proprio in quel momento mi piombata addosso una delle situazioni più pericolose ed inaspettate!! In un angolino abbastanza ameno, accanto al fiume, a 50 metri in linea d’aria dal Guancito, vedo qualcosa “di vivo” che si muove a terra. Sulle prime mi sembra un grosso uccello marrone,  colto goffamente di sorpresa. Poi la “cosa” si suddivide in più parti, tutte decorate con simpatici pallini bianchi: una nidiata di piccoli di cinghiale! Nella mia mente è come esplosa una bomba! Ho girato i tacchi all’istante e mi sono messo a correre tra i rovi, letteralmente con le ali al culo! Ero passato da quelle parti all’andata e non c’era nulla: probabilmente la madre, mamma cinghiale, li aveva temporaneamente abbandonati per scendere al fiume lì vicino. I “porcellini” si erano quindi accovacciati stretti stretti aspettando che il povero Birillo arrivasse loro vicino a meno di tre o quattro metri. Una parte della mia mente sussurrava “fagli una foto!”. Tutto resto del mio cervello urlava furioso “Vai via! Fanculo la foto! Vattene! Vattene! Vattene!”. I cinghiali sono per lo più pericolosi SOLO quando ti avvicini troppo ai piccoli… ecco, io questa volta ero inavvertitamente ma decisamente troppo vicino ai piccoli!! Non so se mamma cinghiale sia tornata dal fiume in soccorso dei piccoli, io ho smesso di correre a fuoco tra i rovi solo quando sono arrivato sull’altro lato della provinciale! Felice di non aver fatto la sua conoscenza!! 

Nonostante il brivido finale, credo che quella zona sia davvero molto bella. Ci sono indiscutibilmente molti pericoli. Pericoli che non possono essere “eliminati” con chiodi e vecchie catene (che incredibilmente, sebbene insicuri, sopravvivono alla furia del fiume). Pericoli che possono però essere “mitigati” con astuzia, intelligenza e prudenza. Mi piace quella zona, credo che ci tornerò: fino ad allora tenetevi alla larga, aspettate sia io ad accompagnarvi. 

Davide “Birillo” Valsecchi

Aldo Vicini – Caprante (20 Luglio 1974 – 7 giugno del 1995)

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