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Argo Express

Argo Express

1-1-dscf7448La faccenda era imbarazzante: in uno dei miei recenti giri esplorativi sul versante orientale del Moregallo avevo intravisto, isolata su una cresta al sole apparentemente irraggiungibile, una piccola casetta di sassi. “Birillo, lassù hanno costruito una casotta e tu non hai la minima idea di come fare ad arrivarci! Come la mettiamo?”. Già, il versante est è infatti un territorio sconosciuto fatto di prati verticali e salti rocciosi che in spaventosi canali precipita nel lago. Studiando le mie foto mi ero fatto una mezza idea ma le incognite erano ancora moltissime. Salvo il sentiero del Cinquantesimo Osa non ci sono sentieri “ufficiali” e quelle poche ed ataviche “linee” conosciute sono tutt’altro da sottovalutare e che, anzi, spesso hanno complessità e difficoltà che sfociano nell’alpinismo esplorativo.

Così, di buzzo buono, sono andato a controllare. Giunto al sasso di Preguda, usando il cannocchiale, ho potuto “confermare” l’esistenza della casotta ed il fatto che in qualche modo fosse anche ben tenuta da qualcuno. “Quindi ci si arriva, ma da dove?” Da qualche parte un piccolo segreto permetteva di vincere canali e pareti sconfinando nel “mondo selvaggio” fin laggiù. Molto probabilmente era possibile arrivarci risalendo il leggendario “sentiero della teleferica”, un tracciato aereo su erba verticale che vince un passaggio di roccia grazie a dei muretti a secco costruiti dai vecchi. Il buon “Guerra”, che l’ha già percorso, è stato molto chiaro nel mettermi in guardia dall’affrontarlo da solo senza conoscerlo. Per questo, anche per mantenere fede alla promessa di fare “il teleferica” insieme, dovevo trovare il modo di raggiungere la casetta dall’alto anzichè dal basso. Già, ma chi conosce quella zona può capire quanto rognoso possa diventare esplorare in discesa quei canali.

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L’idea era riuscire ad intercettare l’uscita della cresta per poi tentare la discesa. Il problema però era innanzitutto riuscire ad orientarsi scegliendo la cresta giusta, evitando al contempo di trovarsi a sbalzo su salti troppo alti o troppo difficili da ridiscende. L’alternativa, attraversare i canali, sembrava anche più dissennata e quindi, per scendere, non potevo far altro che salire.

Al primo tentativo ho sbagliato e sono salito fin al grande torrione che simpaticamente ho ribattezzato “il naso di Smugg” per via del il grande tetto “a naso” che lo contraddistingue. Ho attraversato il canale franoso che attacca alla base della parete e raggiunto la successiva cresta erbosa. Oltre il crinale mi si è spalancato davanti un universo di canali e strapiombi di cui neppure immaginavo l’esistenza. Il vento che soffiava da nord aumentava, e di non poco, l’ansia di trovarsi da solo in posti luoghi così remoti, complicati ed aerei. Curiosamente in quel momento Ivan Guerini mi ha mandato un “what’s-up”: “Biriz, quanti chiodi ti sono rimasti per domani?”. Gli ho risposto che ero impegnato inviandogli però una foto della cresta davanti a me. Un gesto semplice, forse, ma che è riuscito ad alleggerire (e di non poco) la tensione di quell’isolamento: “qualcuno ora sa dove sono”.

1-dscf7398La mia cresta erbosa, oltre ad essere sbagliata e temibilmente in ombra, sembrava morire in un salto roccioso molto alto. Così ho riattraversato il canale inseguendo il sole ed il conforto del bosco. Tutavia avevo scoperto abbastanza per fare un ulteriore tentativo su una cresta promettente, dove paglione e betulle sembravano invitare verso una strada sicura. Sotto di me la cresta, ora ben visibile ed ancora illuminata dal sole, scivolava infatti verso la casotta. Tuttavia il crinale impenna in un significativo dislivello, tutto da decifrare, dove il paglione si mischia a piante e roccette a sbalzo verso il canale. “Qui si salta un po’…”

Esplorare in discesa è un vero casino, il rischio di scivolare si somma all’impossibilità di valutare i salti di roccia fino quando non ci arrivi a ridosso: bisogna essere davvero cauti e prudenti perchè il rischio del “tuffo” è in agguato. “Sì però, Birillo, dall’alto non si vede davvero un ostia!” In qualche modo mi abbasso tra le piante disarampicando su roccette esposte ma solide. Senza cadere, ovviamente, cerco di arrampicare fuori dal paglione per riuscire ad orientarmi nella discesa.

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Poi succede qualcosa di assolutamente imprevisto. Aggrappato a degli speroni mi muovo per raggiungere una comoda cengia erbosa su grosso sasso. Quando però carico il piede sull’erba della cengia questa crolla all’improvviso: quello che sembrava un grosso sasso coperto dalla terra è in realtà due massi incastrati su un canale, l’appoggio si trasforma in un buco, in una trappola. La gamba sinistra precipita nel buco fino a metà coscia mentre io piombo di schianto con il gomito e con il petto su uno dei due massi: il panico!

Per un istante rimango raggelato, solo all’ultimo mi ero reso conto della situazione e solo fortunatamente ero riuscito a reagire con abbastanza prontezza perchè la gamba non andasse in torsione. “Puttana eva!”. Avevo sbattuto duro ma avevo impedito che il corpo sbandasse facendomi precipitare o spezzandomi la gamba nel buco. Una stramaledetta trappola assassina: se avessi rotto la gamba in quel punto della montagna sarei stato davvero fottuto oltre limiti accettabili…

La gamba, a penzoloni nel vuoto tra i due sassi, è fortunatamente intatta ma lo spavento è stato una mazzata. “Stramaledetto buco!” Per qualche istante la mia mente pensa solo ad “fuggire” dalla montagna tornandomene in fretta sui miei passi. Poi però mi acquieto e la mente, quasi in automatico, trova i passaggi successivi. “Forza, tirati su: se risolvi queste roccette lassotto sembra esserci persino una specie di sentiero”.

Riprendo a disarmpicare cercando di infilarmi tra diedri e canaletti maledendo la mia incapacità di “vedere il trucco” che probabilmente rende possibile vincere quel passaggio con maggiore facilità. Finalmente sono di nuovo sulla cresta erbosa ed in men che non si dica raggiungo la tanto agognata casetta. Il punto di osservazione attorno a me è incredibile: è pieno di cose che non avevo mai visto! “Ma quelle placche son roba vera?!?”

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Mi guardo intorno felice e, proprio in quel momento, succede un’altra stranezza inattesa. Mi vibra il cellulare e mi arriva un’email. Già, sto in un posto fuori dal mondo e mi arriva un email! Mi scrive infatti Giuseppe, che ancora non conosco, perchè dopo aver letto il mio articolo su “Cima” (“Sequesto è un uomo“) voleva condividere con me le sue esplorazioni di quella zona ed il modo che aveva scoperto per raggiungere proprio la casotta davanti a cui mi trovavo in quel momento. La tempistica era quasi surreale e rendeva quel fortuito incontro a distanza ancora più speciale. “Sì Giuseppe, dalla casotta si possono vedere davvero una miriade di altri luoghi interessanti dove poter curiosare: ben volentieri spero di esplorarli insieme!”

1-dscf7449Divertito dall’accadimento volevo lasciare un regalo anche allo sconosciuto amico che si prende cura della casotta. Volevo lasciargli una testimonianza ma allo stesso tempo volevo rassicuralo che non avrei turbato la riservatezza e la serenità di quel posto che di diritto gli appartiene. Così, infilandolo attraverso la feritoia della porta in legno, ho appoggiato sulla piccola panchina all’interno uno degli adesivi dei Badgers, fermandolo poi con un piccolo sasso perchè non volasse via scosso dal vento. Visto dove si trova il suo rifugio segreto ha di certo le carte in regola per essere uno dei Tassi del Moregallo!

La via del ritorno, ora in salita e partendo da un punto noto, è stata di gran lunga più semplice e la sottile traccia mi ha insegnato molti trucchi per aggirare i tratti esposti che avevo percorso in discesa. Superate le rocce il sole illuminava di rosso il paglione giallo scosso dal vento del nord, le difficoltà erano finite e potevo abbandonarmi alla bellezza del Lario, al fascino selvaggio del Moregallo nei colori dell’autunno: non male come giretto!

Davide “Birillo” Valsecchi

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Sequestro è un uomo

Sequestro è un uomo

19-1-dscf7245La testa mi scoppia e gli occhi sembrano implodere. Mi sono infilato sotto una doccia calda ma senza risultato, steso sul letto in mezzo ai gatti mi domando se sto per morire. Tutti gli esami dicono che sono sano come un pesce ed in discreta buona forma per un quarantenne, ma quando la testa inizia a martellare mi sento appeso ad un filo che si spezza. Forse il corpo è sano ma la mia mente sembra voler fuggire, scappare inorridita da una realtà che non riesce più a comprendere o tollerare. Curiosamente sono questi i momenti in cui ho più paura di morire …e spesso ci ho anche provato: ho chiuso gli occhi anche se avevo paura di non riaprirli più, ho cercato sollievo, ho sognato di ricominciare tutto da capo, in modo nuovo, lontano. Ma nulla: ero ancora vivo ed avevo ancora il mal di testa. Nessuna soddisfazione.

Così come uno zombie mi sono alzato dal letto, ho cercato di infilarmi dei vestiti caldi, un berretto e sono uscito di casa. Il mio riflesso nella porta a vetri era la sentenza peggiore sul mio stato. “Sei ridotto uno straccio!!” Camminavo disorientato, quasi confuso ed assente. Riuscivo solo a pensare al ritornello di una canzone “Where is my mind?” dei Pixies. Dov’è la mia mente? Già, dov’è la tua mente Birillo?

Dal sentiero del vivaio, quello che passa davanti alla stalla del Don Guanella, volevo raggiungere il sentiero che risale da Parè verso il Sasso Preguda. Speravo che il sole d’inverno, il colore delle foglie ed il vento cristallino e grigio delle Grigne riuscisse a scuotermi, a trattenermi mentre scivolavo via. Mi muovo come uno di quei milanesi che affollano le statistiche del Soccorso Alpino, una voce dentro di me urla disperata “…vai alla chiesetta e torna a casa, non fare nient’altro!” Ma ad una svolta del sentiero tiro dritto, come uno stalker che con indifferenza si infila dietro le quinte puntando ai camerini.

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“Non sei lucido, traballi …e siamo a sbalzo sulle case di Parè. Dove stai andando? Dove hai la testa?” Ma il mio viaggio è una sequenza confusa e sconosciuta di crinali che come pagine di un libro scorrono verticali sul vuoto del lago, l’azzurro delle pareti, il giallo del riflesso del sole. Erba, roccia, alberi ed una gravità imperante: io no, ma il mio corpo sembra sapere esattemente cosa fare, muovendosi con leggerezza ed infito tatto.  Supero un primo canale mentre le barche bianche ondeggiano sotto le mie gambe: Parè è ormai lontana, sotto di me solo la cava. Ogni crinale è un’incognita ma la mia mente sembra incuriosita: sembra un bambino che all’improvviso smette di frignare davanti ad una nuova meraviglia da scoprire. Il mio corpo sembra cambiare, il mio passo rinsaldarsi, il mio sguardo aprirsi. Punto verso nord in un interminabile traverso e la mia mente, scossa dalle difficoltà, è nuovamente viva e vivace, padrona del momento. Osservo l’affascinante abisso che sprofonda verso il blu del lago: “Buongiorno Birillo!! Rischiavi di non svegliarti oggi…”

Poi giungo alla cresta che delimita la prima grande ed inaccessibile valle che sovrasta la vecchia strada del lago. Sono da qualche parte sotto il sasso di Preguda, esattamente dove mi ero promesso di arrivare molti mesi fa esplorando dall’altra riva del lago sul San Martino: la base delle costole oblique! Il canale ritorto! Forse la mia mente non era spenta, forse ero io che mi ostinavo a non seguirla mentre lei sapeva benissimo di cosa avevamo bisogno.

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Quelli del Cantiere navale e della cava hanno bloccato e recintato la strada costiera inibendo completamente l’accesso a quella zona (di per sè terribilmente inacessibile) del Moregallo. Di fatto la nuova galleria (e ve la raccomando a piedi!) è il solo modo per aggirare questo blocco improprio: nemmeno lungo la riva è oggi possibile passare (ed hanno messo pure le telecamere!). Il dito medio della mia mano sinistra si alza di concerto con il ghigno compiaciuto che appare sul mio viso: “Bastardi! Ho finalmente trovato il modo di dare il giro alle vostre recinzioni del cazzo!!” Sì, ora sono decisamente sveglio.

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“Bene, Robin Hood, ora che hai aperto il passaggio a Nord-Ovest come ce ne andiamo da questo guaio?” Bhe, di solito la soluzione è sempre quella: verso l’alto! Cos’ risalgo un po’ di roccette cercando di trovare i passaggi più solidi e meno esposti. Lecco è così lontana, ma forse persino bellina con i suoi ponti nella bassa luce dell’inverno. Trovo una specie di canale tra due strette creste rocciose, ci sono un paio di piante nel canale e questo trasforma quella spaccatura in un “ascensore” verso l’alto. Quando ritrovo la cresta sono rapito dalle belle maniglie rocciose che ne adornano la forma. “Lo so! Lo so! Non dovrei! Ma mi sporgo solo un pochino, solo un istante!” Afferro le prese migliori e piazzo piedi e baricentro ben piantati a terra, poi, guardo oltre: un muro verticale di erba e placche. “Spettacolo!”

La valle è formata da diversi canali: ne studio le forme, i salti, le vulnerabilità, i passaggi. “Secondo me si riesce sia a risalire che ad attraversare!” La parete del Tempo perduto è lontana, nascosta dietro una cresta che è ancora tutta da scoprire: niente di quello che osservo appare tra le pagine dell’Isola senza Nome. Ma lassù, dove ancora non so come arrivare, appare ben visibile una vecchia casetta in sassi: “Dannazione, guarda dove hanno costruito i vecchi!”

La mia mente ora tracima di fantasie ed idee. Un’ultima rampa e sono al sasso Preguda per un ultimo sguardo alle Grigne. Viviamo in un mondo buffo: “Birillo, anche oggi ti sei rapito da solo (e nessuno è venuto a pagare il riscatto!!)”

Davide “Birillo” Valsecchi

L’Asino chiama, il Tasso risponde

L’Asino chiama, il Tasso risponde

1-dscf7174E’ appollaiato sulla dodicesima cassetta impilata che mi rendo conto di quello che sto facendo. Dall’alto la colonna mi appare assolutamente inclinata, fuori controllo: fuori baricentro muovo tutto il peso fuori asse tentando di mantenerla in equilibrio. Provare ad aggiungere una cassetta ormai per me equivale a precipitare.

Per un istante mi sento come il Dottor Sam Beckett di Quantun Leap: «Che diavolo sono venuto a fare quassù? Ed ora come scendo!?»

Questo è l’annuale party degli AsenPark, l’Animal House per l’alpinismo del Lario Orientale. Ai piedi della colonna, con il naso all’insù verso un anziano Birillo incrodato sulle cassette di plastica dell’acqua minerale, c’è una platea di giovani arrampicatori, sciatori ed alpinisti. Berna ed il Tarlo ne hanno impilate venti: chissà, forse mi serviva un’altra birra per aggiungere la mia tredicesima. “Ciò che non riesce ad andare su deve per forza andare giù”. Speriamo che Gandalf tenga! Volo, la colonna crolla, cassette schizzano in ogni dove mentre resto appeso ad uno stravagante imbrago da lavoro! Accidenti! In dodici mesi è la seconda volta che volo: l’altra era sulla nord del Moregallo, ma la strizza è la stessa!

“Accidenti che agghiaccio! Andiamo a bere!”. La catarsi è compiuta, si accendono i falò, attaccano la musica e si riempiono i bicchieri: ora si inizia davvero a fare festa!   

1-dscf7217La mattina successiva è intrisa d’erba fradicia sulle pendici del Moregallo, ogni passo trasuda di quell’intruglio che è il “220”, una magica pozione composta da vino bianco, campari e gin che noi sull’Isola chiamiamo “Coppa Aurora”. Abbandoniamo il sentiero del Cinquantenario Osa per inseguire tracce ormai quasi dimenticate che si immergono sui fianchi delle valli più nascoste. “L’asino chiama ed il tasso risponde”. Lontano dagli uomini, sotto lo sguardo dei Mufloni, gli animali del Moregallo si scambiano i segreti pazientemente carpiti alla montagna selvaggia.

Vecchi casotti, scolorite indicazioni e passaggi insospettati per mille metri di dislivello fuori sentiero: gli animali dell’Isola hanno la loro arca di Noè.

Davide “Birillo” Valsecchi

La grotta rosa del Moregallo

La grotta rosa del Moregallo

dscf6480Il sole illuminava la Crestina Osa invitandomi ad approfittare della mattinata di sole che stava asciugando la roccia: infilo le scarpette da arrampicata in uno zainetto e mi metto in cammino dietro casa. Quando arrivo alla fontana di Sambrosera delle voci dall’alto mi arrivano chiare e distinte: “Molla tutto!” “Vengo?” “Recupero!” “Ma vieni o no?” “Aspetta!”. Non potevo vederli ma era chiaro che una cordata stava risalendo la Crestina: questo mandava a monte i miei piani. Raggiungerli solo e slegato mi sembra irrispettoso per la loro salita, ma sopratutto un loro eventuale errore può costarmi la pelle.

Così, vista la situazione, ho deciso di andarmene a zonzo curiosando nella zona della Crestina Verde. Dopo le piogge dei giorni precedenti non era consigliabile avventurarsi in qualche ravanata ma, ormai, ero deciso quantomeno a scattare qualche foto. Nonostante i miei propositi venti minuti più tardi ero appeso sulla roccia a curiosarne le forme e la compattezza. Quel settore è formato da guglie e creste non altissime, quasi soffocate dalle piante del bosco, in qualche modo ricorda i pilastri del Moregallo senza però averne l’estensione o la difficoltà. Mi sono alzato sulla roccia di una decina di metri e, come un giardiniere ho cominciato a guardarmi intorno.

La vegetazione, le piante morte e le foglie cadute dai settori sovrastanti, ricopre una distesa molto ampia di roccia umida quasi invisibile da lontano. Placche, pilastri e piccole creste quasi mai completamente verticali: qualcosa che da queste parti, dove tutto strapiomba, è decisamente raro. Faccio saltare un paio di sassi instabili e rimonto altre prese solide: questa zona può diventare il giusto anello di congiunzione tra le “Rocce degli Elfi”, la “Crestina Osa” ed i “Giardini Pensili”.

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Ci si può alzare abbastanza per spingersi oltre il bouldering, ma i tiri rimangono comunque corti e non verticali, c’è la possibilità di uscire e di riparare su piante. Certo, al momento tutto questo non è ancora visibile e la precarietà della roccia rende tutto decisamente pericoloso, tuttavia ripulendo il giusto, non troppo, e sfoltendo i rami delle piante (assolutamente da proteggere) si può permettere ai raggi del sole di asciugare e pulire la roccia. Ci vorrà un po’, ma confesso che è un esperimento che mi rilassa e mi diverte.

Ormai sotto di me ci sono una quindicina di metri e per proseguire oltre, fintanto che non è esplorato e ripulito, mi serve perlomeno un pezzo di corda con cui assicurarmi a qualche pianticella. Così, piego in un canale ed inizio una ravanata da antologia! Già il canale si rivela molto più arrembante del previsto e sono costretto a guadagnarmi l’uscita del “couloir” mettendomi decisamente d’impegno con qualche passo piuttosto impegnativo (ma mi sono anche divertito una cifra!!)

Uscito dal canale a colpi di spaccate e mastrufolate selvagge ed ardite mi ritrovo davanti un’altro canalone formato da due creste verticali e parallele. Decisamente meno impegnativo lo risalgo sbirciando il Corno Orientale da un punto d’osservazione insolito. Ridiscendo il canale puntando verso casa ma, visto che ormai sono lì, rimonto il camino dietro la grande placca abbattuta rimontandolo fin sotto l’uscita. Ad incastro tra le due pareti del camino mi manca solo un passo per uscire in cima, ma slegato e con le scarpette da trekking, non me la sento di saltare in piedi allo sperone e mi limito ad allungare il naso oltre le spigolo. Il camino è formato da un’enorme lama che appoggia sulla parete, sul lato opposto a quello in cui forma il camino è una placca che in una decina di metri arriva a terra: non è completamente verticale ed offre difficili ma rugose prese (minimo 6a credo). Senza bucare la roccia la placca è improteggibile, tuttavia attraverso il camino è possibile provarla corda dall’alto e questo per me al momento può decisamente bastare.

Sono ormai deciso a tornare verso casa ma nel bosco vedo un grosso pilastro che si innalza tra le piante: è una pila di sassi tenuta insieme dal muschio e dall’umidità ma dalla sua cresta conto di scattare qualche bella foto alle pareti di rimpetto. Con prudenza raggiungo il mio nuovo punto d’osservazione e mi godo il panorama: “Ma quella è una grotta?”. Ai piedi della parete appare una curiosa insenatura nascosta dietro una pianta: “Bhe, andiamo a vedere”.

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Riattraverso il bosco e raggiungo la parete. Ad un paio di metri da terra una vecchissima rosa selvatica nasconde una vulva rocciosa che si innalza verso l’altro di tre o quatto metri. In spaccata cerco di raggiungere la rosa. Il tronco è enorme, ma anche antichissimo e fragile.Le parti morte si sbriciolano al tocco ed ho paura che caricandoci il mio peso si stacchi tutta la pianta. Inzio uno strazno balletto da contorsionista sgusciando con il corpo tra le spine allungando le braccia fino alle labbra della grotta: sembra un parto al contrario! Finalmente riesco a distendermi all’interno rimanendo stupito da quello che mi circonda: mi aspettavo una piccola nicchia ma la camera interna è decisamente molto più grande ed alta di quanto mi aspettassi o apparisse dall’esterno. Inoltre la volta della grotta è completamente ed incredibilmente rosa! Uscire è una specie di parto nel vuoto in cui serve la giusta attenzione per slvaguardare la rosa e la propria pelle. Una grotta rosa nascosta dietro una rosa selvatica: davvero una scoperta inattesa e bellissima!

Davide “Birillo” Valsecchi

Moregallo Live and Let Die

Moregallo Live and Let Die

dscf6181Alle otto, come ogni stramaledetta domenica mattina, la mia vicina ha cominciato a berciare contro i suoi figli. Più o meno nello stesso istante Bruna ha cominciato a darmi gomitate nelle costole cercando di zittire le “madonne” con cui facevo eco alla vicina. Ormai svegli abbiamo scoperto che il sole era finalmente, ed inaspettatamente tornato: il che era una fortuna visto che a Valmadrera si festeggiava la giornata “Vivi il Moregallo”. Ci siamo fatti un caffè ed un’interminabile colazione. Bruna, per via del piede, ancora non può affrontare una salita alla cima, così si è preparata per un’oretta di riabilitazione in palestra. Io invece ho infilato le mie FiveTen nuove di pacca e sono partito per un saluto a quelli in vetta.

Quasi di corsa sono arrivato a Sambrosera: c’era un sacco di gente sul sentiero e qualcuno, visto che ormai erano già le undici, scendeva dalla cima con la classica maglietta ricordo. Per far prima ho scelto il percorso più diretto e meno affollato infilandomi diretto nel canalone Belasa. Volevo arrivare in cima in fretta, salutare il “Perru” e tutti gli altri prima di tornare di corsa a casa da Bruna. Un piano semplice, lineare diretto.”Sì, però, che noia: quante volte l’hai già fatto il Belasa negli ultimi due mesi?” In effetti quando lavoravo a Bergamo, con le giornate più lunghe, lo percorrevo a giorni alterni prima di cena…

Così, consapevole che questo avrebbe stravolto ogni piano e proposito, ho messo un piede fuori del sentiero deviando verso sinistra oltre l’orizzonte della collina. Speravo di scoprire qualcosa di nuovo, di affascinante, ma ero anche consapevole che probabilmente avrei trovato solo bosco e rovi. Ero abbastanza rassegnato e, forse anche per questo, le mie aspettative sono state stravolte e superate.

“Che spettacolo!” Davanti a me ho una specie di via di mezzo tra una piccola “Crestina Osa” ancora selvatica ed un mini “Grissino”. Attacco di lato e mi alzo di qualche metro cercando di capire la roccia. Le difficoltà contenute e la possibilità di uscire di lato su solide piante rendono quella cresta un regalo inaspettato: il luogo ideale dove poter condurre qualche esperimento in solitaria. Ma non oggi, serve di certo qualche chiodo ed una buona dose di pazienza per rimontare questo lungo tiro nascosto nel bosco.

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Potrei accontentarmi ma vien voglia di salire, così mi infilo in un canale/camino lì affianco puntando ad raggiungere l’uscita della guglia. La terra è nera e gonfia di acqua: il peggio! C’è umidità che cola, la terra cede sotto il peso ed i sassi ballano. Dovrei lasciar perdere ma insisto appeso agli arbusti. Mi piazzo di traverso, seduto sul tallone sono in una strana posizione a metà tra il salto dell’ostacolista e la spaccata: un piede su roccia bagnata e l’altro su terra nera. Mi viene un po’ da ridere: “Quando c’è da seguire Ivan con una corda dall’alto ti tiri indietro facendo la figura del pollo, poi slegato ti infili in questi casini… no, no, proprio bravo Birillo!” Mi allungo ed affero una pianticella, sposto il peso ed inizio a gradinare con la punta delle scarpe nuove. “E vai! Sempre meglio Birillo! Gigi che Sbatta è sul granito a provare un 7b trad circondato da tre affascinanti ragazze mentre tu, che un 7b manco con le Jumar, sei qui a ravanare in mezzo allo schifo. Già, già, proprio bravo Birillo!”

Butto via la testa: ho speso una fortuna per un paio di picche piolet da usare in queste “ravate dry-tool” e mai uno straccio di volta che le abbia con me quando mi servono!! Poi, con un elegante spaccata in aderenza erborea afferro il tronco di una pianta e mi tiro sù: “Vetta!”. Assesto un poderoso calcio alla sommità del pilastro e, visto che non è venuta a basso, ci rimonto sopra. Finalmente in cima mi gusto l’inconsueto punto di vista sulle guglie del Moregallo dimenticando tutte le incertezze del canale!!

“Davvero bello. Ed ora? Come si scende?” La vegetazione nasconde la verticalità che mi circonda rendendo insidiose le mie scelte. Posso insistere salendo ma rischierei di impegnare tutta la giornata cercando un’uscita in quel labirinto verticale. Se invece cerco un’uscita laterale devo fare attenzione a non passare di sotto infilandomi in qualche canale munito di salto finale. “Brillo, qui finisce che per scendere ti tocca appenderti alle stringhe delle scarpe. Che poi morire durante il “Vivi il Moregallo” sarebbe davvero di pessimo gusto!”

Fortunatamente la soluzione si dimostra molto più facile del previsto e, seguendo una comoda cengia, riesco a riabbassarmi in un bosco altrettanto pieno di piacevoli sorprese. Dopo una strepitosa placca con pianta mi ritrovo in un anfiteatro di roccia. “Porca vacca! Qui c’è da fare per tre inverni di fila!!” Tutta roba selvatica ed hard-core, vegetazione e sassi instabili, diedri e canali sporchi: se apri gli occhi e guardi bene sembra di essere nel cuore di una di quelle montagne famose, di quelle che spaventano gli alpinisti più eroici. Accidenti che posto!

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Studio eccitato le linee di affascinanti monotiri privi di senso e dignità quando tra le piante appare la grande parete grigia.“BAAAM! Quella non è uno dei miei giochi! Quella è roba seria!” Una spaccatura/diedro che attraversa, che sembra sfuggire tra lo zoccolo verticale e la strapiombante parete compatta. Rimonto un muretto erboso allungandomi verso la roccia: “Sorpresa, una catenella attaccata ad una clessidra” La scoperta aumenta la mia eccitazione: “Qualcuno è stato qui, qualcuno ha avuto la mia stessa idea!” Mi alzo nel diedro canale seguendo la catenalla fino alla base della parete. Vedo un chiodo rosso all’uscita dell’avvolgente semi-camino iniziale. “Ma gli altri?” Guardo e cerco ma non vedo altri chiodi o altri segni. “Bisogna chiedere, bisogna scoprire!”

Il vociare dal bosco si fa più intenso. Un papà prende in giro il figlio chiedendogli quanto manchi al rifugio. Escursionisti felici risalgono da Sambrosera. Sono tutti molto lontani, giù sul sentiero nella valle, ma la loro voce rimbalza ovunque. Vorrei rimontare il canale dove una promettente pianta si staglia sull’azzurro ma, senza corda, ho paura di dare inizio ad una nuova infinita perigrinazione: “Tanto torniamo!”

Mi riabbasso alla base del canale cercando una comoda via di ritorno: non voglio lasciare Bruna a casa tutta sola e le tre ore che mi sono concesso stanno per scadere. Curiosamente mi imbatto in qualcosa di inaspettato: la testa arrugginita e dimenticata di un piccone. Le possibilità che vi sia una cosa simile in un posto come quello sono scarse quasi quanto le possibilità che io, in tutto il bosco, riesca a trovarla: cose strane che mi succedono alle volte. A caval donato non si guarda in bocca e così me lo sono preso e portato a casa: un’altro cimelio!

Prima di addentrarmi nel bosco un ultimo regalo: una crestina Osa in miniatura che a stento emerge tra le piante. Spettacolo!

Davide “Birillo” Valsecchi

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Nota: Mi spiace di non essere arrivato in cima al Moregallo per salutare gli amici. Spero non me ne vogliate troppo e che le foto possano compensare la mia mancanza. Se poi si riuscisse a far saltare fuori una maglia commemorativa anche per me non sarebbe affatto male 🙂

Il ritorno di Tasso Selvaggio

Il ritorno di Tasso Selvaggio

dscf5692Quando ero sbarbatello il mio maestro di Karate mi chiese “Birillo, secondo te è più pericoloso un avversario che ha provato 4000 calci differenti o uno che ha provato solo un calcio, ma quattromila volte?” Queste sono domande dannatamente strane, uno cerca di ignorarle ma rimangono appese e rimbalzano tra i pensieri per anni. Qualche giorno fa Ivan mi ha chiesto invece: “Biriz, secondo te è più forte uno che risale un tiro estremo o uno che risale 1000 tiri diversi di quarto?” Curiosamente questa domanda era diametralmente opposta alla prima e forse, finalmente, avevo la soluzione per entrambe.

Stavo risalendo verso Sambrosera puntando alla Crestina Osa: un giretto in solitaria per festeggiare l’arrivo dell’autunno. Ed ecco la soluzione. “Birillo, sei un pollo! Pesa più un chilo di ferro o un chilo di piume?” Già, la soluzione è semplice: “non è nè più forte nè più pericoloso, possono solamente essere la stessa persona”.

Un karataka, ammesso che non sia un decelebrato che pedissequamente ripeta gesti in modo meccanico, studiano un singolo calcio, anche il semplice calcio frontale, finirà inevitabilmente per esplorare tutti i suoi scenari d’impiego. Avanzando, indietreggiando, di lato, schivando, girando le anche, dandogli una piccola o una grande rotazione, cambiando la posizione d’impatto del piede. Senza rendersene conto le sue 4000 prove gli insegneranno 4000 calci. Anzi, questo è il solo modo in cui qualcuno può davvero imparare 4000 calci.

Un arrampicatore che chiude 1000 tiri diversi di quarto esplorerà roccia di tipologia e forme diverse, posizioni e movimenti diversi, imparerà a muovere il proprio corpo adattandosi alle diverse sfumature della difficoltà. Esplorerà emozioni diverse e formerà tanto il suo corpo quanto la sua mente: questo è il solo modo in cui qualcuno può davvero affrontare e superare un singolo tiro estremo. Certo …ammesso che il tipo del tiro estremo non l’abbia imparato a memoria cadendo mille volte sugli spit come si usa oggi.

Così mi sono chiesto se ripetere la bellissima Crestina Osa mi avrebbe dato quello che stavo davvero cercando. Forse il caldo, forse il vento, ho pensato che potesse essere più interessante curiosare alle base delle pareti. Volevo solo fare qualche foto ma poi, piano piano, ho iniziato ad alzarmi, a curiosare tra le rocce. “Purtroppo” mi ero ormai alzato troppo e non restava che proseguire 🙂

Un biacco ozioso mi è sfilato davanti bello pacifico, ricordandomi che la vera stagione esplorativa al Moregallo inizierà solo tra qualche settimana. Nonostante la foglia ancora alta ho visto grandi pareti e piccoli passaggi di boulder bellissimi, roccia saldissima nascosta tra le piante.

Mi sono alzato ed ho iniziato a seguire la cresta ovest riemergendo da un canale al buio. Fin quando non si supera in altezza i Pilastri del Moregallo (Grissino, Floreanna, ecc) si può scollinare nel canalone Belasa. Superati in altezza i Pilastri il fianco sinistro del Belasa diventa quasi impraticabile in discesa e, per uscire, non resta altro che puntare verso l’alto.

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Una spaccata su un canaletto verticale inquadra la mia situazione “Ecco Birillo, ora siamo in quella parte della giornata in cui se sbagli muori: quindi vedi di non sbagliare”. Per risalire si seguono le tracce dei mufloni abbandonandole per muretti di roccia buona quando queste si inoltrano per canali e terreni poco solidi. Man mano si sale il passaggio diventa sempre più obbligato e, prima del tratto finale di cresta, si deve sgusciare in una serie di diedrini erbosi a rimbalzo tra loro. Ero un po’ preoccupato di infilarmi in un “coul de sac” ma con un po’ di pazienza ho trovato gli incastri giusti. Purtroppo più si sale e più peggiora la qualità dei diedrini che, sebbene molto corti, iniziano ad essere decisamente fragili. Quelli rivolti verso il Belasa a volte sono parzialmente franati e sopratutto nei punti esposti questo non è rincuorante. Forse con una cordata si può rimontare direttamente alcune di queste strutture rocciose.

L’ultima parte di cresta è in comune con l’uscita della via di Ginetto Mora che esce dal Cep della Stria. Contavo quella fosse la mia linea d’uscita ma, immerso nelle piante, ormai potevo solo puntare verso l’alto: trovare finalmente il fittone della Crestina mi ha permesso finalmente di tirar fiato. Bagai!!

Più che una via o un itinerario è una ravanata: una salita nell’ingoto densa di difficoltà forse contenute ma da non sottovalutare. Qualche belle spaccata e qualche movimento delicato, specie sui terreni fragili, richiede qualche brivido. Bisogna fare grande attenzione a quello che si tocca e a quello che si muove.

Mi piace arrampicare, ma per me questo è il massimo: un’esplorazione su “misto verde” di quasi trecento metri di dislivello lungo tutta la cresta. Magnifico!! Alle volte fantastico su come potrebbe essere intensa una salita simile ad una quota maggiore, su creste costellate di grandi rocce incrostate di ghiaccio. Chissà, forse lì i miei 80 chili e la mia testa dura potrebbero trovare il loro ambiente naturale. Chissà, forse è tempo di curiosare anche altrove. Per il momento eccovi il Moregallo Occidentale in tutto il suo splendore!

Davide “Birillo” Valsecchi

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Tempo Rubato (B&R)

Tempo Rubato (B&R)

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Ero tornato dal lavoro e, sprofondato nella poltrona, pregustavo l’uscita in Grigna del giorno successivo leggendomi un buon libro: avevo voglia di camminare, di ritrovarmi solo in grandi spazi aperti. Nello specifico stavo leggendo un volume di Bernard Amy, “Il più grande arrampicatore del mondo”, che avevo comprato in un cestone di libri usati. Il primo a parlarmi di quei racconti era stato Gianni Mandelli ed era stato proprio il suo suggerimento a spingermi quel giorno all’acquisto.

Ero quindi immerso nei racconti di Tronc Feuillu, un giapponese che narrava all’autore la storia di uno scalatore cinese di nome Chi-Ch’ang. “L’ultimo stadio dell’attività è l’inattività…“ una narrazione epica che raggiunge il suo apice nella celebre frase del maestro Kan-Ying: “Scarpe? Roccia? Finché si ha bisogno di scarpe e di roccia per salire, non si conosce nulla di quest’arte. Il vero arrampicatore non ha bisogno di artifici, nemmeno di roccia.” Seduto in poltrona mi sentivo il quinto miglior arrampicatore del mondo: “L’ultimo stadio della parola è il silenzio. L’ultimo stadio dell’arrampicare è il non arrampicare”

Ma è proprio in quel mentre che Bruna mi porta il telefono: è Gianni Mandelli. «Davide, domani vieni ad arrampicare sulla Nord del Moregallo?» Forse era solo una coincidenza ma io non credo molto alle coincidenze, troppo spesso si sono dimostrate il “pendolo” con cui il caso scandisce il proprio tempo.

Gianni, è un accademico, un alpinista tra i più esperti che io conosca nonchè il custode e protagonista di buona parte della storia dell’Isola Senza Nome. Sono sue le pubblicazioni e gli scritti che hanno guidato la maggior parte di noi tra le nostre montagne. Nonostante ci si conosca e si sia diventati amici ormai da qualche anno, non avevamo mai arrampicato insieme. Anzi, in passato avevo declinato alcuni suoi inviti nell’incertezza di non essere abbastanza in forma o preparato.

«Domani vieni ad arrampicare sulla Nord del Moregallo?» Una domanda semplice ma allo stesso tempo complessa. La mia prima volta sulla quelle grande parete in cordata con uno dei suoi più grandi conoscitori: non è qualcosa che si possa trascurare. Tuttavia da oltre due mesi, da quando Bruna si è fatta male, non ho più infilato le scarpette o toccato la roccia. Ho camminato, nuotato, ma nulla più. Ero fuori forma, senza sensibilità, e dovevo rispondere a bruciapelo. Qualcuno una volta mi ha detto che quando il destino chiama bisogna essere pronti, anche quando non lo si è: «Okay Gianni, mi farebbe molto piacere».

Ho chiuso il libro ed ho cominciato a trafficare con il materiale d’arrampicata nello stanzino degli attrezzi. La mi imbragatura era appoggiata immobile, ancora sporca di terra e sangue, sullo scaffale su cui l’avevo buttata il 21 Maggio, quando a notte ormai fonda ho riportato a casa Bruna dal pronto soccorso. Quell’imbrago è il regalo di Ivan e Josef e, giusto un’anno fa, era coperto di birra e zucchero per i festeggiamenti del mio compleanno.

Bruna ha subito capito che ero di nuovo vittima della stessa ansia che mi monta prima di una grande salita. Da un lato era preoccupata per la mia inquietudine e dall’altro era contenta che mi fossi scosso, che avessi deciso di andare di nuovo ad arrampicare seriamente. Io avrei voluto trascorrere una serata avvolpacchiato sul divano con lei, ma non la smettevo di andare avanti ed indietro camminando pensieroso tra le varie stanze. “Gianni Mandelli, la Nord del Moregallo, sono fuori forma…che guaio!” Avrei potuto dire di no, ma una parte silenziosa di me era sfrontatamente felice di aver accettato.

Dopo il Pizzo d’Eghen non ho più affrontato una grande parete, forse anche perchè, dopo oltre un anno, il buon Mattia non ha smesso di infastidirmi con questa storia di recuperare i chiodi abbandonati nel camino. Ancora in questi giorni una pericolosa bobina da 100 metri di statica aleggia pericolosa nell’aria come una temibile spada di Damocle. Il mio socio continua a ripetermi che serve “a farmi risalire in sella” ma sono ormai convinto che sia lui a dover esorcizzare qualcosa su quel roccione sperduto. Ritrovarsi alla base della parete Nord era quindi qualcosa di assolutamente imprevisto ed inaspettato.

Gianni è come sempre una persona tra le più disponibili e gentili che si possa incontrare. Con naturalezza mi affido a lui come un’allievo diligente, ascoltando i suoi racconti ed i suoi consigli. Lo osservo rimontare il primo muretto che dal canalone centrale conduce fino alla prima cengia erbosa. I suoi movimenti sono fluidi ed eleganti, con estrema naturalezza passa oltre. “Accidenti quanto è forte!” Sul quel muretto, nascosto al suo sguardo, faccio i primi test di funzionamento per capire come sto, come arrampico. Il nuoto ha sciolto molte tensioni ma non ho sensibilità nel gestire la forza, ogni movimento consuma più di quanto produce.

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Sulla prima grande cengia i dubbi in parte si dissolvono. «Avevo sempre voluto arrivare quassù!» Guardo i diedri della OSA e tutto il Moregallo da un punto di vista sconosciuto. Mi piace. Gianni inizia ad arrampicare su “Tempo Perduto”, la via aperta da Giulio Zappa, uno del versante nord dei Corni, un amico d’infanzia. L’attacco è in un diedrino fessurato e ben appigliato, sembra promettente nonostante la quantità di parete che ancora ci sovrasta.

Gianni arriva in sosta e mi chiama a salire. Mi infilo nella fessura del diedro ed arrampico sereno, sfruttando i piedi e salde prese salde. Mi piace, mi sento bene e sono felice. Arrampico leggero cercando di fare bella figura.

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Gianni riparte, allegro e sereno, rimonta il tiro successivo e scompare alla mia vista oltre un’altra cengia. Attraverso l’eco che rimbalza tra le pareti del canalone centrale riesco a sentire il suo “Molla tutto!”. Qualche attimo in cui la corda si mette in tensione e rimbalza il suono del mio “Vengo!”. Mi alzo, ma qualcosa cambia, forse ho frainteso il movimento, sbagliato l’ingresso. Lavoro male con i piedi, tiro con le braccia su prese sempre più piccole e posizioni scomposte. Mi sale una certa ansia mentre inizio a sbracciare sulla roccia come qualcuno che affoga. Continuo a muovermi cercando una posizione che mi dia il tempo di allungare il fiato corto, ma la gravità comincia a prendere il sopravvento della situazione.

Finalmente poggio i piedi in una frattura che mi sembra grande come una terrazza e mi fermo “Lavora bene Birillo, così non va! Lavora bene!”. Rimontato il muretto devo fare un traverso verso destra superando roccette invase dall’erba. Non è un bel passaggio ma è di quelli che mi piacciono, quelli che mi riescono. Traverso e poi rimonto un muretto attaccandomi ai ciuffi d’erba ed ad una piccola pianta. In ginocchio raggiungo la piccola cengia erbosa in cui mi aspetta Gianni.

«Il primo tiro mi è piaciuto molto, questo invece l’ho subito un po’ troppo.» Josef una volta è stato molto chiaro e diretto con me: “Birillo, il secondo di cordata non deve fare fatica mentre sale. Deve essere veloce e non deve stancarsi”. Già una grande verità in cui cercare rifugio. Non ne avevo abbastanza per stare dietro a Gianni in libera, dovevo sfruttare tutti i trucchi, muovermi con calma, senza troppo sforzo e sfruttare la corda come il “quinto appiglio”. L’avevo fatto un sacco di volte, il prossimo tiro sarebbe andato meglio. Ma quando Gianni riparte le mie speranze vacillano, il tiro rimonta uno speroncino e poi inizia un lungo traverso obliquo verso destra a cui segue un lungo contro-traverso verso sinistra. Nel mezzo un passaggio di VI+ (A0) in traverso su appigli ed appoggi piccoli e sfuggenti. Quando Gianni arriva in sosta l’attrito rallenta le corde: purtroppo non ho trucchi validi in una situazione simile.

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Raggiungo il chiodo sporgente su cui si azzera e mi attacco come un primate mentre tutto il corpo sembra voler sbandierare verso destra. Sollevo i miei ottanta chili diritto sul chiodo utilizzano una fettuccia a modi pedale ma la mia situazione non migliora di molto. Devo sganciare il chiodo ed alzarmi ulteriormente prima di traversare verso destra. La corda, obliqua verso l’alto, sembra tutt’altro che amica questa volta. La prospettiva di un pendolo nell’ignoto si fa concreta ed agghiacciante.

Ho azzerato di forza e le braccia sembrano vuote mentre la mia posizione è priva di equilibrio. “Cazzo, cazzo, cazzo…”. Devo muovermi, mi sgancio dal chiodo ed inizio un cammino di fede. I motori al massimo urlano mentre mi aggrappo a prese improbabili, mentre i piedi vagano sulle dune. Un movimento, due. Tutti gli allarmi suonano ma continuo a spingere ed il mondo accellera facendosi sempre più piccolo. Allungo un braccio su uno spigolo che sembra vivo (ma è smussato), allungo anche il secondo braccio, sono disteso verso l’alto con il corpo ad “elle” mentre cerco di contrastare l’attrazione malefica del pendolo sul mio bacino. Devo riuscire, devo riuscire ad alzarmi e riposizionarmi “DAI DAI DAI!” Per un secondo ci credo, forse funziona, dai! Poi niente, volo: sono nel vuoto.

Di isitnto le mani afferrano la corda davanti a me mentre volo via nel vento verso destra. Sento l’eco del mio urlo mentre la corda si tende. Prima che la mia corsa si arresti la corda va in tensione e salta un chiodo a monte del punto si sospensione che allunga ancora il mio viaggio. Come un’elastico teso le corde cantano sulla asperità della roccia mentre il mio corpo cerca la verticale.

E’ stato Galileo Galilei ad osservare e definire le leggi del pendolo fisso, parte dello studio con condusse a verificare la teoria copernicana. Tipo interessante Galileo, tutti lo ricordano perchè ha “spacciato per suo” il canocchiale (in realtà non fu una sua invenzione), per la sua famosa “abiura” (eppur si muove) ma la maggior parte della gente dimentica che è stata la sua cociutaggine ribelle, ormai contestato da tutti i poteri forti, a partorire ultra-ottantenne il suo più grande lascito all’umanita: il metodo scientifico.

«Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato.» Ed eccomi qui, al centro del mio mondo, appeso nel vuoto, finalmente in pace con le leggi di gravità che regolano l’Universo. Il Moregallo, la montagna sacra, mi ha buttato di sotto: non male come inizio!

Questo è il mio quarto pendolo. Il primo fu sulla C.R.Is alla Parete Fasana al Corno Centrale: stava grandinando in placca e sono passato di sotto. Il secondo sul penultimo tiro di Valbrona89, al Corno Occidentale: mi sentivo forte su placca, i Corni hanno rimarcato il contrario. Il terzo sull’uscita del Pizzo d’Eghen: placca in tempesta, placca funesta. Il quarto sulla Nord del Moregallo: puoi imparare a suonare la batteria in quattro mesi oppure in quattro anni, il numero di battute che devi fare resta sempre lo stesso. Io probabilmente non ho ancora finito le mie battute.

«Gianni! Come stiamo messi?! Siamo in sicura?» Gianni dall’alto mi osserva per nulla impressionato mentre sono a penzoloni «La sosta qui è una bomba. Stai tranquillo. Solo in mezzo un chiodo è saltato, estratto quando la corda si è raddrizzata verso l’alto.» Non credo di aver sbattuto, non sento dolori strani e tutti i sistemi paiono operativi. La roccia davanti a me sembra anche migliore… forse ora ce la faccio a salire.

Cerco di ritrovare una posizione ma le braccia sono saltate. Non riesco a tenere una presa più piccola di un maniglione antipanico ed anche su quelle non riesco ad alzarmi. Lavoro incastrando i pugni in una grossa spaccatura trasversale mentre le concrezioni graffiano gli avambracci. «Non ne ho più nelle braccia. Provo ad alzarmi fino a raggiungere la verticale. Poi però non so cosa fare: senza quel chiodo rischio di fare un’altro bel pendolo mentre cerco di raggiungerti.» Gianni non è nè preoccupato nè contrariato, la sua serenità compensa il senso di inadeguatezza che mi minaccia alle spalle. «Tranquillo, se non ne hai più posso calarti fino alla cengia.»

Battuto e respinto, B&R come usa dire qualcuno. Tre tiri e mezzo su cinque: non c’è appello. Provo a segnare almeno il punto della bandiera «Vedo di alzarmi e recuperare almeno i rinvii prima del traverso». Questo prevede che io poi debba gestire un pendolo controllato ma almeno evito che tale compito spetti a Gianni mentre scende. Con fatica estrema mi alzo, recupero il materiale e, coordinandomi con Gianni, riprendo la verticale scendendo fino alla cengia erbosa. Gianni attrezza la sua doppia con le corde ancora in un paio di rinvii, si cala in un piccolo traverso verso destra, recupera il materiale e mi raggiunge sulla cengia.

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«Che vergogna! La prima volta che arrampichiamo insieme e combino ‘sti numeri! Ti ho rovinato la salita, scusami.» Gianni ride divertito «Questo è un posto bellissimo in cui sono stato molte volte. Non hai rovinato nulla, è stato comunque un piacere arrampicare qui oggi. Questa roccia è bellissima ma non è semplice.» Rincuorato inziamo a chiacchierare organizzando le doppie. Le calate lungo la parete nord sono di per sè una piccola ma intensa esperienza!

Giunti alla base rifacciamo gli zaini e, liberi dall’incognite dell’arrampicata (almeno per me), iniziamo a perderci in racconti e discorsi. Scopro infatti che il mio strampalato progetto di risalire lo zoccolo della Nord per superare la parete attraverso il canale sommitale non è poi tanto strampalato. Gianni e Franco Tessari hanno infatti già percorso quel tracciato e tutte le mie ipotesi e supposizioni trovano conferma in quanto hanno osservato durante la loro salita. Ma non solo. Anche loro, in gioventù, si erano esercitati “al misto” utilizzando ramponi e piccozza sui verticali prati dalla Nord. «Quando in inverno l’erba diventa gialla e si appiattisce qui puoi imparare molto bene ad usare i ramponi, magari quelli non troppo belli, e come affrontare i passaggi di misto con la picozza.»

Certo, sono volato giù dalla Nord ma la possibilità di chiacchierare con Gianni in quell’ambiente valeva la figuraccia. Uno scossone, alle volte, è quello che serve quando la lucità vacilla: pare che per i miei imminenti 40 anni mi sia regalato qualche istante di vita accellerata!

Davide “Birillo” Valsecchi

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Moregallo FallOut

Moregallo FallOut

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Ci sono zone del Moregallo che sono selvagge, spesso quasi inesplorate ed irraggiungibili. Alcuni di questi luoghi rimarranno tali per sempre. Ci sono poi altre zone dove l’uomo credeva di aver posto il proprio dominio, la propria legge, ma che oggi, nell’incuria e nell’abbandono, stanno tornando selvagge, inesplorate, e spesso irraggiungibili. Il Moregallo è una montagna fatta di contraddizioni e contrasti, una montagna dove l’uomo ci è “andato pesante” senza però riuscire piegare la profonda anima ribelle del gigante inquieto. Cave, gallerie, teleferiche, esplosioni, ruspe e perforatori: il Moregallo non si è mai piegato ed ora è pronto a riprendersi ciò che gli appartiene.

Io e Keko cerchiamo parcheggio tra i bagnanti che si accalcano sulle spiagge accanto al Nautilus. I guard-rail della curva mostrano i segni di chi, uscendo a tutta velocità dalla galleria, si è ritrovato a spintoni sulle vestigia della vecchia strada strada tra Lecco e Bellagio, la Lariana. Con disappunto guardo le macchine sfrecciare accanto ai bambini che con il salvagente, in fila indiana tra le lamiere e l’asfalto, accompagnano i nonni al lago. «Keko, occhio alle auto. Vediamo di non farci scopar sotto da sti coglioni a manetta…»

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Lasciamo le auto, affianchiamo la galleria puntando al cancello. «Se è chiuso tocca scavalcare senza farci baccare» Ma il cancello è solo accostato: sgusciamo dentro, addentrandoci nella “zona morta”. Camminiamo lungo il dorso della galleria che, come un gigantesco verme, si infila nella montagna. Mio fratello non era mai stato da quelle parti e così lo accompagno fino alla vecchia galleria. Ci infiliamo attraverso le sbarre e curiosiamo all’interno, fino alla falesia degli AsenPark, fino alla finestra del DryTooling.

Poi torniamo ad uscire, il nostro obbiettivo è il sentiero che rimonta la grande scala in cemento e si inerpica su per i prati e le rocce fin sopra la galleria. Settimane fa mi ero avventurato da solo lungo il “sentiero della finestra”, il passaggio che costeggia le pareti e rimonta la scogliera sopra i finestroni a sbalzo sul lago (Gavatoio: settore NoSpitZone). Ero risalito fino ad una vecchia casa abbandonata e da lì avevo piegato verso i prati raggiungendo il sentiero del 50° Osa. Oggi volevo trovare linee ed uscite diverse.

Il sentiero si innalza ripido, curve e tornanti aggirano rocce e reti paramassi. Il fondo è per lo più lastricato da gradini in sasso appartenenti ad un tempo ormai perduto e oggi resi scivolosi dalle piogge del giorno precedente. Roccia baganta e vuoto sono sempre una pessima accoppiata, ma Keko sembra non preoccuparse e vien dietro bene.

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Chi ha aperto il sentiero sapeva il fatto suo e deve essere stata un’ impresa tutt’altro che banale risolvere quei passaggi obbligati. La traccia scorre abilmente alla base di piccole ma verticali pareti concrezionate, ingannando con maestria quel labirinto verticale di roccia e prati. Inaspettatamente ci troviamo davanti un ponte, un ponte in cemento che attraversa uno dei numerosi “colatoi” che dall’alto calano sul sentiero. Potrei aggirarlo più sotto, il passaggio per quanto scomodo sarebbe sicuro. Però un ponte è un ponte. «Osti… aspetta che vedo se tiene» Cammino leggero cercando di ignorare che, se crolla, rotolerò a valle fin dentro il lago accompagnato da simpatici blocchi di cemento. «Okay, tiene! Però non camminare in centro: per scrupolo stai sopra la putrella che lo sostiene» Keko, quasi annoiato dalle mie precauzioni, passa con noncuranza.

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Più avanti incontriamo una valletta. Mi abbasso nella gola fino raggiungere la testa di una cascata asciutta che precipita nel vuoto. Poi, lasciando il sentiero, iniziamo a risalirla. A Kekko piace esplorare in questo modo, credo che la montagna e l’alpinismo lo annoino così come annoiavano me alla sua età. Però esplorare l’ignoto è avventura, niente a che vedere con quell’immagine tronfia e vetusta della ripetizione pseudo-eroica con il gagliardetto del CAI in mano. Già, forse se qualcuno raccontasse ai giovani, con onestà ed umiltà, che “l’alpinismo vero è esplorazione ed avventura” avremmo una nuova generazione di alpinisti straordinari.

«Aspettami qui che è pericoloso» Un colatoio/camino si annalza lungo la parete, la roccia è terribilmente bagnata e resa liscia dallo scorrere della pioggia. Cerco appigli ed appoggi sicuri con i miei scarponi pensanti, ma la sensazione è piuttosto precaria. Appoggio la mia maglietta bianca sul limo verde della parete e mi alzo in opposizione spingendo gambe e braccia sulla schiena. Sto conciandomi da sbatter via, senzo inzaccherarsi i vestiti, ma per il momento resto su, saldo nell’incerto. Mentre salgo racconto a kekko quello che vedo. «Qui il colatoio forma una nicchia e poi riparte con una successiva cascata verticale. E’ un bel posto ma è difficile, soprattutto scendere: è tutto viscido. Aspetta che faccio una foto così lo vedi!». Con una mano estraggo la macchina distendendo il cordino che la assicura alla mia celebre e terrificante borsetta a tracolla. «Già, hai perfettamente ragione!» La faccia di Kekko appare oltre la mia spalla mentre sghignazzando mi tallona da presso. Metto via la macchina fotografica e lo insulto allegramente. Ci scambiamo di posto e, dopo che anche lui ha dato un occhiata, iniziamo a scendere. «Guarda che se scivoli mentre sei in appoggio vai giù in un botto: non hai il tempo di reagire!» Ma forse questi sono discorsi di un quarantenne di ottanta chili, un ventenne di sessanta vede il mondo in modo diverso: «Tranquillo! È pieno di appigli» mi risponde mentre con le sue mani da musicista agguanta microprese viscide.

Riprendiamo il sentiero e raggiungiamo la sommità della scogliera e, da lì attraverso il bosco, la vecchia casa affiancata dal grande masso erratico. «Questo è davvero un bel posto. C’è persino una sorgente d’acqua: dovremmo venire qui a provare questo sasso prima o poi». Gironzoliamo un po’ per il bosco puntando verso la Val di Inferno. Ormai si è fatto tardi, per evitare il caldo siamo usciti a pomeriggio inoltrato ma è tempo di trovare una strada verso casa. Devo fare in fretta ma non sbagliare, non prendere rischi con Kekko ed il buio che si avvicina.

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Esploro il bosco: un’altopiano è circondato da pareti strapiombanti. A Est e a Sud ci sono le scogliere che sovrastano la galleria ma a Nord mi trovo di fronte le grandi pareti che precipitano nella valle. Conosco quelle muraglie dal basso, le ho osservate facendo kanyoning tra le cascate. Non abbiamo tempo per scoprire se i camminamenti degli animali ci possono insegnare qualche nuovo trucco. Tenendomi ad una pianta mi sporgo a dare un’occhiata all’abisso ed alle piante che ci salutano dal basso. «No, di qui decisamente non si passa».

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Dovrei tornare sui miei passi, tornare alla casa, tornare al sentiero. In cuor mio so benissimo, anche per esperienza, che scendere tra i pendii di un bosco circondato da salti rocciosi è una scelta tra le più rischiose, ma la curiosità ha la meglio. «Voglio essere chiaro: proviamo a scendere di qui, ma se non trovo un passaggio che sia accettabile devi essere pronto a rifare tutta la salita senza protestare. Ci sono troppi salti di roccia violenti per pensare di insistere nell’incerto.» Mio fratello accetta il patto ed inizio ad inseguire linee tra le foglie.

A mente cerco di aggiornare la mia mappa, la proiezione del mondo nella mia testa: cerco di intuire lo scorrere delle gole, il movimento dei pendii, il passaggio degli animali. Ma i miei ricordi sono pieni anche di muri bianchi e concrezionati, del ponte, dei passaggi aerei sul lago. Ed ora siamo tra roccie scure ed umide, tra colate di terra e fogliame ammassato. Devo fare attenzione, devo scegliere bene. «Aspetta qui, vado a dare un’occhiata da quella parte. Non ti muovere». Mio fratello senza protestare si siede e si accende una sigaretta. Io, con un bastone in mano, faccio l’indiano nelle terre selvagge. Strano equilibrio il nostro: è al sicuro da fermo, ma sei io precipito non ha l’esperienza per uscirne da solo, specie dopo un’evento simile. Saremmo entrambi perduti, dispersi ad un chilometro o due dalla macchina. Devo fare attenzione, devo scegliere bene.

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Ci vogliono un paio di sigarette perchè trovi la strada giusta, perchè acchiappi la magia. «Trovato!» gli urlo «Aspettami che vengo a prenderti!!» Kekko mi aspetta distratto su un sasso. Affascinante la serenità ed il coraggio incosciente con cui gli occhi della gioventù osservano il mondo: “Gli eroi son tutti giovani e belli” recitava la canzone.

Per riportarlo in una parvenza di civiltà dobbiamo ridiscendere un pendio, attraversare un canale ai piedi di una cascate, rimontare tra le piante fino ad un prato di erba alta che traversa sopra delle roccette. Poi, finalmente, ci si riaggancia al sentiero poco prima che affronti le pareti del ponte di cemento. «Ecco, lo sapevo che mi portavi ancora per prati!» e continua «Queste son cose che farebbe il Paolo!» Nostro padre, il Paolo, è il modello ideale di tutti i nostri difetti e di tutti i nostri inconfessabili pregi. “Come è il tronco, così sono i truccioli” dicono…

Ci sediamo a tirar un fiato d’acqua. Sono sudato fradicio, coperto di terra e foglie. Ma la gioventù non ha comprensione per l’età, o per la fatica. «Sai che mi son proprio divertito in questo giretto: son posti fuori dal mondo!» Mio fratello osserva il lago e nelle onde i riflessi del sole che scende lontano alle nostre spalle. Scendiamo lungo il sentiero, attraverso le reti paramassi, oltre la scala di cemento ed il vecchio asfalto ormai pieno di pietre cadute e cartelli divelti. Un paio di murales, il cancello e siamo di nuovo fuori dalla “zona morta”, forse mai così viva.

“Non far caso a me. Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizzonti dove tu disegni confini”. Recita un adesivo appicciato ad un vecchio cartello di “Divieto di Caccia”.

Davide “Birillo” Valsecchi

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