Verdi colline d’Africa

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E.H.
E.H.

“Ho una vita interessante, ma devo scrivere perché se non scrivo in una certa misura non posso godermi il resto della mia vita”

Oggi è il 2 Maggio e per me è una giornata diversa, differente da come nessuna altra durante l’anno può esserlo. E’ forse il giorno in cui tutto è cominciato o forse quello in cui tutto ha smesso di avere un senso. E’ un giorno folle reso quasi sopportabile che solo dal ricordo degli anni felici che l’hanno preceduto. Non è un buon giorno per scrivere, per lasciare uscire ciò che si agita dentro.

Questa notte ci aspetta l’aereo verso il Cairo e poi via verso Casa. Per chiudere il ciclo delle nostre avventure africane gioco il Jolly e chiamo in mio soccorso niente meno che un premio Nobel. Ecco un passaggio di Ernest Hemingway:

Sicché il mattino dopo partimmo alla testa dei portatori. Scendemmo attraversando le colline e una valle profondamente boscosa per risalire e attraversare un lungo altipiano ricoperto di erba altissima che rendeva il camminare molto difficile, e via e su e giù e per traverso, riposandoci di quando in quando all’ombra di un albero, sempre tra erbe altissime tra le quali ci si doveva aprire una strada, e sotto un sole scottante. Tutti e cinque in fila indiana. Droopy e M’Cola con una grossa carabina per uno, carichi di tascapani, borracce e macchine fotografiche, tutti quanti grondanti sudore nel sole, Pop e io con i nostri fucili e la memsahib che cercava di imitare il passo di Droopy col suo Stetson sulle ventitré, felice di trovarsi in una spedizione, e dei suoi stivali tanto comodi. Arrivammo infine a una macchia d’alberi spinosi su di un burrone che scendeva dal sommo di una cresta sino all’acqua, appoggiammo i fucili contro gli alberi, entrammo sotto l’ombra spessa e ci sdraiammo a terra. P.V M. cavò fuori dei libri da uno degli zaini. Lei e Pop si misero a leggere, mentre io scendevo nel valloncello sino al ruscello che usciva dal fianco del monte e trovai un’orma fresca di leone e molte gallerie aperte dai rinoceronti nell’erba più alta di un uomo.Faceva un caldo tremendo a risalire il pendio sabbioso, e fui felice d’appoggiare la schiena a un tronco d’albero e leggere Sebastopoli di Tolstoj. È un libro di giovinezza, con una bella descrizione di battaglia, là dove i francesi conquistano la ridotta, e io pensavo a Tolstoj, al gran vantaggio che l’esperienza di una guerra rappresenta per uno scrittore. La guerra è certamente un gran soggetto, difficilissimo a trattare con verità. Gli scrittori che non l’hanno vista cercano di farla passare per un soggetto poco importante, o anormale, o morboso, mentre in realtà è semplicemente qualcosa di insostituibile che è sfuggito loro. Sebastopoli mi ricordò il boulevard Sebastopol, il mio ritorno in bicicletta da Strasburgo sotto la pioggia, le rotaie sdrucciolevoli del tram, la sensazione di avanzare su dell’asfalto untuoso e scivoloso e sul lastrico di pietra nel gran traffico sotto la pioggia, e il fatto che fummo lì lì per abitare sul boulevard du Temple; e mi tornava alla memoria l’aspetto di quell’appartamento, i mobili, la tappezzeria: ma invece avevamo preso in affitto il piano superiore d’un padiglione in rue Notre Dame-des-Champs in un cortile dove c’era una segheria (e lo stridere improvviso della sega, l’odore della segatura e il castagno al di sopra del tetto e la pazza del pianterreno), e quell’anno pieno di seccature e di difficoltà in fatto di denaro (tutte quelle novelle rifiutate che mi ritornavano per posta attraverso una fenditura della porta della segheria, con delle lettere che non le chiamavano mai novelle, ma aneddoti, bozzetti, racconti, ecc.: non ne volevano sapere e noi vivevamo di cipolle bevendo vino di Cahors annacquato), e le fontane cosi belle nella place de l’Observatoire (con l’acqua lustra che mormorava sul bronzo delle criniere, sulle schiene e i petti di bronzo, verdi sotto l’esile filo d’acqua), e il giorno che innalzarono il busto di Flaubert nel giardino del Lussemburgo, nella scorciatoia che taglia il parco verso la rue Soufflot (un uomo nel quale credevamo, che amavamo senza riserve, ora pesante nella pietra come dev’essere ogni vero idolo). Egli non aveva visto guerre, ma aveva visto una rivoluzione e la Comune, e la rivoluzione è anche meglio, pur di non diventare fanatici, perché tutti parlano la stessa lingua. E la guerra civile è la migliore per uno scrittore, la più completa. Stendhal aveva visto una guerra e Napoleone gli aveva insegnato a scrivere. L’insegnava a tutti, allora, ma nessun altro ne approfittò. Dostoievskij fu formato dalla Siberia: gli scrittori si forgiano nell’ingiustizia come si forgiano le spade. Mi chiesi se mandare Tom Wolfe in Siberia o alle Tortugas sarebbe stato utile per farlo diventare uno scrittore, se questo avrebbe potuto dargli la scossa necessaria perché cominciasse a tagliar corto a tutto quel suo flusso verbale e imparasse che cos’è il senso della misura. Forse sì, forse no. Wolfe pareva veramente triste, come Carnera. Tolstoj era piccolo, Joyce è di media statura e si è rovinato la vista. E quell’ultima sera, ubriaco, con Joyce che continuava a ripetere una frase di Edgar Quinet: “Fraiche et rose comme au jour de la bataille”. La frase non era proprio cosi, lo sapevo bene. E a incontrarlo, era capace di riprendere una conversazione interrotta tre anni prima. Era bello vedere un grande scrittore all’epoca nostra. Quel che io dovevo fare era lavorare, m’importava poco di quel che mi sarebbe potuto accadere, la vita non la prendevo sul serio. Quella degli altri, non m’importa quali, sì, ma la mia no. Tutti desideravano qualcosa che io non desideravo affatto, ma che avrei ottenuto anche senza volere, lavorando. Lavorare era l’unica cosa che mi facesse stare veramente bene; ed era anche la mia dannata vita, e io l’avrei potuta indirizzare dove e come meglio mi fosse piaciuto. E il luogo dove ora l’avevo condotta mi garbava molto. Questo ciclo era più bello di quello d’Italia. Non era per niente vero. Il ciclo più bello era quello d’Italia, di Spagna e del Nord-Michigan di autunno. E d’autunno nel golfo al largo di Cuba. Era possibile trovare un ciclo, ma non un paese più bello. Quel che desideravo sin d’ora era ritornare in Africa. Non l’avevamo ancora lasciata, ma già sapevo che svegliandomi la notte sarei rimasto in ascolto, pieno di nostalgia. Ora a guardare dal corridoio fra gli alberi al disopra del valloncello il ciclo percorso da nubi bianche spinte dal vento, amavo tanto questo paese da sentirmi felice come ci si sente quando si è stati con una donna che si ama veramente, quando, svuotati, lo si avverte che rinasce e gonfia su di nuovo, è lì e non si potrà avete del tutto ma pure quel che c’è ora si può avere, e se ne vuole sempre di più, per averlo ed essere e viverci dentro, per possederlo ora di nuovo e per sempre, per questo lungo e cosi rapidamente terminato “sempre”: e il tempo diviene immobile, tanto immobile talvolta che, dopo, ci attendiamo di sentirlo, a muoversi, ed è cosi lento a ripartire. Ma non si è soli, perché se hai amato davvero con felicità e senza tragedie, essa ti ama sempre. Chiunque lei ami adesso, o dovunque sia, essa ti ama sempre di più. Cosi se hai amato qualche donna o qualche paese ti puoi ritenere fortunato, perché se anche muori, dopo, non ha importanza. Ora, trovandomi in Africa, ne volevo sempre di più, avido dei cambiamenti di stagione, delle piogge quando non hai necessità di viaggiare, dei piccoli disagi per i quali hai pagato perché tutto sembri più vero, dei nomi d’alberi, di piccoli animali e di tutti gli uccelli, e di sapere la lingua, e della possibilità di restarci e di percorrerla senza fretta. Ho sempre amato i paesi, i paesi son molto migliori della gente che li abita. Mi son potuto interessare solo di pochissime persone alla volta. P.V.M. dormiva. Era sempre adorabile mentre dormiva, acciambellata stretta come un animale, senza quell’apparenza di cosa morta che aveva Karl quando dormiva. Anche il sonno di Pop era tranquillo, si vedeva che la sua anima stava ristretta nel suo corpo, che non era più in grado di albergarla convenientemente. Era invecchiato, cambiato, qui si era ispessito perdendo i contorni, lì si era gonfiato un poco, ma sotto era giovane, snello, grande e solido come ai tempi in cui inseguiva il leone nella piana di Wami, e le borse sotto gli occhi non erano che esterne cosicché io lo vedevo ora addormentato come P.V.M. lo vedeva sempre. M’Cola non era che un vecchio addormentato, senza storia e senza mistero. Droopy non dormiva, accucciato sui talloni attendeva l’arrivo dei portatori. Ernest Hemingway

Direi che per oggi possa bastare così…

D.B.V.

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