Ogni tanto, quando sono triste, malinconico o sentimentalmente confuso, c’è un episodio che mi torna spesso alla mente. Risale a tanti anni fa, quando davvero ero più giovane e forse ancora più ingenuo di quanto sia oggi.
Era il 1999 ed io ero il più giovane della spedizione Hindokush99, una delle numerose spedizioni che il Cai Asso aveva organizzato in quegli anni.
Eravamo nel territorio più a nord del Pakistan, tra le montagne al confine con l’Afganistan. Avevamo avuto il permesso di esplorare una valle dove, a memoria d’uomo, nessuno straniero aveva ancora avuto occasione di entrare. Era una valle incredibilmente verdeggiante in mezzo a montagne brulle, arse dal sole e dal freddo.
Ci vollero quattro giorni a piedi per raggiungere il Lago Bhari, nella parte più nord della valle, e piazzare il nostro campo base a 3100 metri. Subito sotto il nostro campo vi era il villaggio di Mathanter, uno sparuto raggruppamento di case di legno e fango su un costone sopra il fiume.
Per qualche difficoltà linguistica io venni confuso per un medico. I miei rudimenti di medicina si limitavano però solo all’anatomia ed ai vari brevetti 118 presi militando nella croce rossa. Non ci fu modo di chiarire l’equivoco e così, per tutta la valle, io divenni il nuovo “local doctor” ed iniziarono le mie, piuttosto forzate, visite a domicilio.
Sotto l’occhio attento degli anziani del villaggio iniziai a visitare i bambini, i vecchi ed i malati. Per lo più erano ferite, abrasioni o scottature dovute al sole e alla quota. Usavo bende, mercurio cromo e qualche pomata. Con gli anziani ed i loro dolori me la cavavo con l’effetto placebo somministrando con grande serietà cucchiate di aranciata in polvere.
Sembravo cavarmela abbastanza bene e così decisero che avrei potuto visitare anche le donne del villaggio. Credo che fosse una cosa inconsueta perchè, all’improvviso, il villaggio si riempì di ragazze. Io avevo vent’anni ed ero parecchio lontano da casa, quella situazione era per certi versi imbarazzante ed anche piuttosto pericolosa visto che ero in paese rigidamente mussulmano.
Giovanissime ragazze, nei loro vestiti più colorati, si misero in fila perchè spalmassi la mia crema solare sulla punta del loro naso scottato dal sole. Le più piccole ridevano divertite civettando tra loro ed attendendo scherzose il proprio turno: sedevano davanti a me, allungavano il viso con gli occhi chiusi e lasciavano, parecchio compiaciute, che le incremassi per bene. Una volta fatto, si alzavano, ridevano e se ne andavano di corsa.
Era una situazione strana, per certi versi divertente. Non avevano mai visto uno straniero, specie uno biondo con gli occhi azzurri. Si divertivano in quello che probabilmente era uno strappo alla regola consueta. Io, dal canto mio, dovevo fare attenzione a non indispettire il capo villaggio perchè, da che mondo è mondo, le donne son donne e guai a chi le tocca: il fatto che io stessi loro incipriando il naso la diceva lunga sulla delicatezza della mia posizione.
Una dopo l’altra sfilaro via via tutte finchè giunse lei: era la figlia di un pastore, viveva in capanne di legno e fango ma il suo viso aveva i lineamenti più delicati che avessi mai visto, la sua pelle, resa scura dal sole di montagna, esaltava i suoi grandi occhi verdi e le sue labbra. Indossava un pesante vestito scuro decorato con ricami a forma di fiore e portava sulla testa un piccolo cappello rigido di lana. Viveva tra le montagne e le capre ma era bellissima.
Si inginocchiò davanti a me e, seria, protese in avanti il suo viso verso il mio. Al contrario delle altre non chiuse gli occhi ma rimase a fissare i miei. La sua espressione era forte e delicata allo stesso tempo: ci stavamo guardando, non solo vedendo. Senza pensare tolsi i guanti di lattice che avevo usato fino ad allora e, con la punta delle dita, iniziai ad accarezzarle il viso senza che i nostri occhi si separassero mai.
Misi in quel gesto semplice tutta la delicatezza che possedevo e, una volta terminato, rimanemmo seduti, uno di fronte all’altro, guardandoci per un altro interminabile attimo. Poi, con lo stesso contegno con cui si era seduta, si alzò e con un breve inchino della testa si alzò tornando a sedere tra le ragazze più giovani che sembravano ora divertite come non mai.
Ero rapito e qualcuno dei miei compagni, da dietro, mi diede uno scossone per farmi riprendere. Proseguii per un’altra ora a medicare i malati ed i feriti del villaggio: Lei immobile era seduta poco distante ed i suoi occhi non mi lasciavano nemmeno per un attimo.
Prima di sera il capo villaggio mi ringraziò offrendoci una pentola colma di yogurt acido che, mio malgrado e con con chili di zucchero, dovetti mangiare tra i presenti. Nei giorni successivi non scesi più al villaggio, i malati ora arrivavano da altri villaggi e li portavano direttamente davanti alla mia tenda al campo base. Volevo almeno rivederla e spesso mi sedevo sul promontorio ad osservare le capanne cercando di intravvederla di nuovo senza mai successo.
I giorni passavano e la nostra spedizione diede l’attacco a Cima-Asso, uno sperone di roccia di 5100 metri a strapiombo sul lago. Di ritorno dalla cima iniziammo a prepararci per il rientro smontando il campo e preparando gli asini ed i bagagli.
Era mattina presto quando ci mettemmo di nuovo in viaggio. La nostra piccola carovana percorreva un sentiero sul lato del fiume opposto al villaggio. Tutti i pastori sembravano dormire chiusi nelle proprie capanne e non c’era nessuno ad assistere alla nostra partenza.
Ero triste senza motivo e fu allora che la rividi. Era lei, con lo stesso vestito di quel giorno, a non più di trenta metri al di là del torrente. In piedi, immobile, ci guardava partire. Mi fermai e la guardai anche io mentre i portatori, gli asini, tutti i bagagli e probabilmente il mondo intero mi sfilavano accanto. Eravamo divisi solo da un fiume ma distanti come due galassie, ma lei era lì, l’unica del villaggio, e mi guardava con la stessa forza e dolcezza di quel giorno. Eravamo così vicini e così distanti ma, innegabilmente, eravamo lì, nello spazio di uno sguardo.
Sapevo che non l’avrei mai rivista, che non avrei nemmeno saputo il suo nome. Sapevo che probabilmente nulla ci avrebbe accumunato, che niente, oltre al essere un uomo ed una donna, ci poteva legare. Eppure, eppure quel giorno mi ero perso nei suoi occhi e forse anche lei, in piedi silenziosa in un mattino grigio, aveva visto qualcosa nei miei.
Il tempo di un attimo, niente più che uno sguardo, un ricordo indelebile, un’illusione forse. Ogni tanto, dopo più di dieci anni, la mia mente vaga ancora tra le montagne dell’Himalaya in cerca di una ragazza che silenziosamente mi diceva addio.
Così, nel dubbio, la mente vaga, sogna e spera, ricordando quell’attimo, quell’illusione, quella speranza, quell’istante d’infinito ed inspiegabile amore racchiuso in un semplice sguardo.
Davide Valsecchi