“L’Autorevole Birillo” mi definì tempo fa, con evidente intento denigratorio, un “vecchio con il trapano”, uno di quegli opachi altruisti che esplora, scopre, attrezza, pubblicizza e reclamizza all’uso ed al consumo delle masse le segrete meraviglie dell’arrampicata. Meraviglie che, in verità, erano già note da tempo e nella loro integrità risalite senza ammenicoli a batteria o patacche di sorta. Che poi, in vero, l’arrampicata si dimostrerebbe gran poca cosa se necessitasse di essere valorizzata – termine inquietante – da cotanta mediocrità. Io stesso, se così fosse, dovrei accettare di aver a lungo sprecato tempo e coraggio attribuendo erroneamente ad un inutile passatempo, oggi tanto in voga ed addomesticato, un senso più profondo che non gli apparterrebbe. Ma io, ahimè, sono più spesso autoritario che autorevole e quindi il mio pensiero, “Huginn”, è di poca utilità. Ciò che più conta è “Muninn”, la memoria. In questo senso io sono solo un viandante, uno sciocco che raccoglie testimonianze di ciò che fu e ciò che ancora può essere. Lo scritto che segue è di Giorgio Gobbi, storico compagno di arrampicata di Ivan Guerini sia sulle sponde del lago di Mezzola che nella valle degli specchi. Cercando nel mio archivio una foto di Giorgio è apparsa l’immagine qui sopra: un disegno di Guerini tratto dal suo ultimo, e ancora poco noto, libro sulla val di Mello. Il disegno mostra infatti una via che hanno tracciato insieme: “L’uomo deltoide del XXI° secolo” – I.Guerini, G.Gobbi – settembre 1981- 45 m – VIII°. La Valle qui centra poco, forse niente, forse è solo un’altra “svista climatica”, ma il disegno di Ivan, nella sua tipica semplicità, mi è subito piaciuto. Lo scritto, inviatomi per posta come molti altri prima di questo, parla invece delle pareti che scendono sul lago e che ora, i soliti noti, stanno “rivalorizzando” con la consueta ottusa ciecità di chi non capisce e non vuol capire.
Curiose contorsioni viste oggi, quelle che facemmo una mattina di ottobre per raggiungere in barca da palude la struttura a picco sull’acqua del lago di Novate Mezzola. Già remare si deve fare alla veneziana in avanti, il fondo piatto del sandolino non taglia l’acqua ma sembra voler spostare tutta quella che gli si para innanzi, insomma uno sforzo notevole unito ad una nostra tecnica remiera approssimativa porta ad un risultato accettabile solo perché ci permette di avvicinarci alla parete dopo oltre un’ora dalla partenza da Dascio. Ma che parete è? Una mezza volta di cattedrale gotica, con un doppio fondale percorso da una fessura segnata da massi incastrati su cui avevano in passato nidificato i gabbiani, come testimoniato dalle strisce biancastre che verticali rigano il granito. Il termine 40 metri più in alto, 8 a destra e 6 fuori dalla verticale della sosta su barca, al più grande dei blocchi incastrati: se la campata del mezzo arco acuto avesse una sua parte opposta discendente a completarla, sarebbe iniziata in quel preciso punto.
Ivan salì da primo, assicurandosi dove la natura minerale aveva lasciato rade discontinuità nella omogeneità cristallina, abbracciando con robuste fettucce le pietre incagliatesi nell’intaglio della gola rocciosa, ricorrendo a camme espandibili che in opposizione fra loro colmano lo spazio vuoto fra due rupi eroso nel fluire delle ere geologiche, su fino alla termine delle linee di volta: non rammento se poi seguii oppure Piera, ma la sosta instabile ed angusta e poi la discesa a corde doppie fino a risalire sulla barca, e di ritorno a Dascio questa volta con un po’ di brezza a increspare l’acqua del tardo pomeriggio.
Il primo incontro fra essere umano e natura, in un puntuale irripetibile istante della loro esistenza, avvenne grazie all’interpretazione dei segni della linguaggio della roccia che l’uomo aveva appreso fin lì nell’intenso volgere del suo tempo. Questo è un appiglio, potrà aiutarmi nel traslare verso un futuro il mio corpo, quest’altro è troppo liscio per affidargli il desiderio di movimento, ma carezzarlo potrà darmi comunque una gradevole sensazione tattile che seppur inanimato non risulterà sgradita neppure al ricevente, poco oltre la fessura opportunamente sfruttata darà sollievo al desiderio di sicurezza. Arrampicare è tutto ciò, stupore e curiosità del mondo, capacità di ascolto e di risposta, ammirazione e interpretazione dell’esistente. E forza morale interiore, l’unica nostra risorsa che possiamo paragonare alla meraviglia insondabile di un cielo stellato.
Il presente che passa genera nostalgia di se stesso, non solo per metafora ma come atto deliberato di reazione spaventata all’invecchiamento che ne è sottinteso, il debole altera lo stato originale del circostante convinto di plasmarlo al suo desiderio di eternità: se decide di salire su roccia fora, scalpella, talvolta aggiunge: modifica l’esistente per ancorarsi ad un presente già obsoleto, ansioso di obbedire a regole di convenienza e miope profitto. Qualunque sarà il futuro di queste strutture discontinue, magma o sabbia o lapide edile, cesseranno memoria e significato dell’oltraggio adattativo subito, e sul loro autore l’oblio pietosamente stenderà il proprio velo, opaco ed eterno.
Giorgio Gobbi
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