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Dascio – Novate Mezzola

Dascio – Novate Mezzola

“L’Autorevole Birillo” mi definì tempo fa, con evidente intento denigratorio, un “vecchio con il trapano”, uno di quegli opachi altruisti che esplora, scopre, attrezza, pubblicizza e reclamizza all’uso ed al consumo delle masse le segrete meraviglie dell’arrampicata. Meraviglie che, in verità, erano già note da tempo e nella loro integrità risalite senza ammenicoli a batteria o patacche di sorta. Che poi, in vero, l’arrampicata si dimostrerebbe gran poca cosa se necessitasse di essere valorizzata – termine inquietante – da cotanta mediocrità. Io stesso, se così fosse, dovrei accettare di aver a lungo sprecato tempo e coraggio attribuendo erroneamente ad un inutile passatempo, oggi tanto in voga ed addomesticato, un senso più profondo che non gli apparterrebbe. Ma io, ahimè, sono più spesso autoritario che autorevole e quindi il mio pensiero, “Huginn”, è di poca utilità. Ciò che più conta è “Muninn”, la memoria. In questo senso io sono solo un viandante, uno sciocco che raccoglie testimonianze di ciò che fu e ciò che ancora può essere. Lo scritto che segue è di Giorgio Gobbi, storico compagno di arrampicata di Ivan Guerini sia sulle sponde del lago di Mezzola che nella valle degli specchi. Cercando nel mio archivio una foto di Giorgio è apparsa l’immagine qui sopra: un disegno di Guerini tratto dal suo ultimo, e ancora poco noto, libro sulla val di Mello. Il disegno mostra infatti una via che hanno tracciato insieme: “L’uomo deltoide del XXI° secolo” – I.Guerini, G.Gobbi – settembre 1981- 45 m – VIII°. La Valle qui centra poco, forse niente, forse è solo un’altra “svista climatica”, ma il disegno di Ivan, nella sua tipica semplicità, mi è subito piaciuto. Lo scritto, inviatomi per posta come molti altri prima di questo, parla invece delle pareti che scendono sul lago e che ora, i soliti noti, stanno “rivalorizzando” con la consueta ottusa ciecità di chi non capisce e non vuol capire.

Curiose contorsioni viste oggi, quelle che facemmo una mattina di ottobre per raggiungere in barca da palude la struttura a picco sull’acqua del lago di Novate Mezzola. Già remare si deve fare alla veneziana in avanti, il fondo piatto del sandolino non taglia l’acqua ma sembra voler spostare tutta quella che gli si para innanzi, insomma uno sforzo notevole unito ad una nostra tecnica remiera approssimativa porta ad un risultato accettabile solo perché ci permette di avvicinarci alla parete dopo oltre un’ora dalla partenza da Dascio. Ma che parete è? Una mezza volta di cattedrale gotica, con un doppio fondale percorso da una fessura segnata da massi incastrati su cui avevano in passato nidificato i gabbiani, come testimoniato dalle strisce biancastre che verticali rigano il granito. Il termine 40 metri più in alto, 8 a destra e 6 fuori dalla verticale della sosta su barca, al più grande dei blocchi incastrati: se la campata del mezzo arco acuto avesse una sua parte opposta discendente a completarla, sarebbe iniziata in quel preciso punto.

Ivan salì da primo, assicurandosi dove la natura minerale aveva lasciato rade discontinuità nella omogeneità cristallina, abbracciando con robuste fettucce le pietre incagliatesi nell’intaglio della gola rocciosa, ricorrendo a camme espandibili che in opposizione fra loro colmano lo spazio vuoto fra due rupi eroso nel fluire delle ere geologiche, su fino alla termine delle linee di volta: non rammento se poi seguii oppure Piera, ma la sosta instabile ed angusta e poi la discesa a corde doppie fino a risalire sulla barca, e di ritorno a Dascio questa volta con un po’ di brezza a increspare l’acqua del tardo pomeriggio.

Il primo incontro fra essere umano e natura, in un puntuale irripetibile istante della loro esistenza, avvenne grazie all’interpretazione dei segni della linguaggio della roccia che l’uomo aveva appreso fin lì nell’intenso volgere del suo tempo. Questo è un appiglio, potrà aiutarmi nel traslare verso un futuro il mio corpo, quest’altro è troppo liscio per affidargli il desiderio di movimento, ma carezzarlo potrà darmi comunque una gradevole sensazione tattile che seppur inanimato non risulterà sgradita neppure al ricevente, poco oltre la fessura opportunamente sfruttata darà sollievo al desiderio di sicurezza. Arrampicare è tutto ciò, stupore e curiosità del mondo, capacità di ascolto e di risposta, ammirazione e interpretazione dell’esistente. E forza morale interiore, l’unica nostra risorsa che possiamo paragonare alla meraviglia insondabile di un cielo stellato.

Il presente che passa genera nostalgia di se stesso, non solo per metafora ma come atto deliberato di reazione spaventata all’invecchiamento che ne è sottinteso, il debole altera lo stato originale del circostante convinto di plasmarlo al suo desiderio di eternità: se decide di salire su roccia fora, scalpella, talvolta aggiunge: modifica l’esistente per ancorarsi ad un presente già obsoleto, ansioso di obbedire a regole di convenienza e miope profitto. Qualunque sarà il futuro di queste strutture discontinue, magma o sabbia o lapide edile, cesseranno memoria e significato dell’oltraggio adattativo subito, e sul loro autore l’oblio pietosamente stenderà il proprio velo, opaco ed eterno.

Giorgio Gobbi

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Ancora Albonico

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Ancora Albonico

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Questo ha tutta l’apparenza, ma anche la sostanza del classico caso umano: mi è giunta notizia che Albonico e zone limitrofe sono state spittate. Ora, non so chi sia stato. C’è questa eco che parla di Andrea Savonitto, ma non ho potuto avere conferma.  Chiamerò quindi l’autore del gesto con delle iniziali a caso, che so… DH, oppure TdC. Orbene se qualcuno conosce tale persona deve aiutarlo!

Personalmente sono sinceramente dispiaciuto per DH, è triste vivere in un mondo incolore… Non so se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di mettere piede in quella zona. Ogni posto, quando è lasciato libero di essere possiede la sua magia. Su quel versante però la Natura è come si fosse divertita a svelarsi attraverso il paesaggio, il gioco delle luci, la forma delle cose, i colori, le brezze… Ed ecco che arriva TdC e cosa vede in tutto questo? Una bella falesia a spit! Penso che il DH in un assolato prato pieno di fiori individui solo un’area asfaltabile da trasformare in parcheggio.

Ma se la cosa è molto triste per lui lo è altrettanto per noi perché gente come TdC, magari inconsapevolmente, inquinano e rovinano. Pensare che la persona umana sia centro e fine di tutte le cose ci sta portando a breve a sbattere il muso, tutti ormai lo stanno intuendo. Forse DH fa finta di niente o è distratto. La persona umana è solo una parte della Natura e non ha alcun diritto di vederla come suo possesso da usare per i propri scopi.

Ma anche rimanendo solo alle norme della buona educazione, se una cosa è di tutti perché non appariene a nessuno abbiamo il dovere di lasciarla come l’abbiamo trovata e non di usarla come più ci aggrada Se poi vogliamo approfondire l’argomento da un punto di vista alpinistico, tagliare con file beote di spit itinerari già esistenti in loco è antistorico, scorretto e cafone.

Per cui esorto chiunque conoscesse TdC ad aiutarlo. Sono sicuro non sia cattivo o stupido, probabilmente è solo mal consigliato o come accennavo prima, prigioniero di un triste mondo incolore

Andrea Maiocchi

Non vede e non vuol vedere

Non vede e non vuol vedere

Il macabro esempio di chi “non vede e non vuol vedere”
(di Monica Mazzucchi 13/01/2019)

Sembra che sia sempre più necessario cancellare quanto accaduto. Coloro che si comportano come recentemente successo sulla Fracia ma anche come fu tentato di fare all’Avorio e invece fu realizzato in modo ambientalmente disastroso a Pradello, a Giazzima, a Fiumelatte, a Piona ed ora ad Albonico, dimostrano di essere dei veri cultori del “posto fisso e sicuro nella storia” con la tipica aggressiva mentalità degli ignoranti che dichiarano “adesso ci siamo noi, chi se ne frega di quel che è successo prima”.

Togliere i chiodi trovati, ignorare chi li ha messi, che vicende ha vissuto nel farlo e nel salire, non per salire sullo specchio del proprio ego ma su una Parete che porta in cima, è probabilmente un importante alibi per poter spittare linee di salita, ottusamente innaturali che per giunta intersecano le vie Storiche.

Il macabro esempio di chi “non vede e non vuol vedere” essendo privo di quella fantasia e di quel coraggio verso l’ignoto che gli arrampicatori veramente appassionati hanno sempre avuto e avranno nell’affrontare il Nuovo.

Un penoso bisogno di dare nuovi nomi ai luoghi e ai tracciati rimuginando l’idea di vivere una storia nuova cancellando le tracce vissute da altri per sovrapporvi le “fatue” esperienze che dicono di vivere.

Un po’ come se Jean Michel Basquiat volendo dipingere per una volta su tela anziché sui muri, fosse andato al Louvre avesse preso il quadro della Gioconda, l’avesse grattato con la carta vetrata, per rendere la superficie ben liscia e darci due mani di base bianca che una volta asciugata gli permettesse finalmente di mettersi all’opera!

Non me ne voglia Basquiat per averlo scomodato dentro questa lugubre ipotesi ma proprio perché era un artista realmente creativo e una persona vitale non avrebbe mai attuato né concepito un comportamento del genere.

Nella sua purtroppo breve vita ha saputo “vedere” gli spazi smisurati da percorrere con i suoi dipinti vivendo una Storia inedita e appassionata perché era un autentico esploratore nel suo campo, come gli apritori di vie nuove lo sono stati e lo saranno sempre in montagna.

Colonizzare le pareti su cui si trovano vecchi itinerari, schiodando spittando mettendo in sicurezza con la speranza di creare dei nuovi affollati parchi per arrampicatori è la sguaiata idea di chi vuol “fare marketing in e con la Natura”.

Il Mondo, piccolo o grande che sia e che circonda ciascuno di noi, è pieno di luoghi inesplorati basta vederli.

Occorre fare chiarezza iniziando a definire le “Zone No Spit” per salvaguardare sì la Storia lì avvenuta lasciando intatte le possibilità di interagire con l’essenza della roccia e della pietra alle generazioni che verranno, ma principalmente per salvaguardare le Pareti che ne sono le protagoniste principali: “gli uomini passano Loro restano”.

Monica Mazzucchi


Nota del Birillo: per accompagnare il testo di Monica, scritto con delicato acume, ho scelto questa foto scattata nel 2016 sulla “Gary Hemming” al Pizzo Boga. E’ una foto indelicata, che mi è rimasta impressa a lungo e che mi ha dato l’opportunità di riflettere e di capire. Quella piastrina, inutile come miliardi simili, è una “distrazione”, un “obbligo”, una “forzatura” che abbaglia e quasi impedisce di vedere tutto il resto: la storia, le persone, la natura, se stessi. Si è “sequestrati” dal disegno e dagli intenti degli attrezzisti a batteria:  sconosciuti – spesso opportunisti umanamente squallidi – a cui dovremmo silenziosamente e ciecamente affidare tanto la pelle quanto il futuro?

Albonico Original

Albonico Original

La conoscenza e il rispetto della montagna sono le condizioni indispensabili per la pratica dell’alpinismo. L’autoregolamentazione si riferisce al mantenimento o al ripristino di condizioni ambientali conformi all’essenza dello sport alpino (wilderness = solitudine in ambiente selvaggio). L’accettazione del rischio è parte integrante dell’alpinismo che è una attività che presenta rischi e chi la pratica se ne assume la responsabilità; sono soprattutto le competenze, le capacità e il livello di preparazione fisica e psichica che possiede l’individuo a stabilire il grado di prevenzione del rischio e a imporre le conseguenti azioni. La conoscenza e il rispetto della montagna uniti a un’onesta valutazione delle proprie capacità sono condizioni indispensabili per una pratica in ragionevole sicurezza dell’alpinismo. Inoltre il rischio assunto e condiviso nello spirito di cordata è un momento culturale essenziale nella pratica, dell’alpinismo dove il confronto personale dell’individuo con le difficoltà opposte dalla natura ne costituisce il fascino. Tuttavia l’eccessiva commercializzazione, alla quale anche l’alpinismo sembra non sfuggire, rischia di snaturarne sempre più l’etica…. L’apertura di nuovi itinerari di scalata dovrà basarsi sulla struttura naturale della montagna e sul rispetto delle vie logiche di salita. L’uso dei mezzi artificiali che comportano la perforazione della roccia dovrà essere evitato o limitato a casi straordinari, simili a quelli in cui essi sono stati tradizionalmente tollerati, ossia ai casi in cui essi consentono il superamento di brevissime interruzioni della linea di salita naturale, e ai casi di emergenza.

Questo è ciò che riporta il Bidecalogo del CAI fin dal 2013. Poi però, con un certo disappunto, trovi istruttori di Scuole CAI che corrono ed accorrono a farsi selfie sulle placche di Albonico, appesi alle neo-spittate linee de “L’Amico Gigante” che, incurante tanto del bidecalogo quanto delle vie originali aperte e documentate già negli anni ’90, si è messo ancora una volta a fare il “reuccio a batteria”.

Vergognatevi anziché sorridere: per quanto mi riguarda l’uso del trapano nel 2019 è come il Rohypnol, la droga dello stupro. Il più squallido della compagnia butta la pastiglia nel bicchiere della ragazza che non riesce a conquistare: stordita ed incapacitata trascina la poveretta in un angolo dove gli amici del branco, scattandosi diverti foto, ne abusano compiaciuti in gruppo vantandosene sui social. Se gli chiedi perchè lo fanno ti rispondono “Perchè meritava troppo!” “Perchè volevamo solo divertirci”, ma l’abuso lascia segni indelebili ed irreversibili. Ecco i “maniaci dell’arrampicata”: coloro che chiamano libertà la propria ossessiva e superficiale violenza.

Il “soggetto” in questione – “io faccio quello che voglio dove voglio!” – si fregia poi della patacca azzurra di Guida Alpina e questo lancia preoccupanti ombre sulla validità del monopolio di tale Istituzione e sulla natura dei compromessi ritenuti accettabili per soddisfare clientela e clientelismo.

Il mio disprezzo per questa gente è ormai incontenibile e generalizzato. Scrivo queste poche livorose parole solo per mostrarvi ciò che era Albonico e che avrebbe potuto essere anche nel futuro se l’ignoranza e la presunzione non fossero state sdoganate come cultura di massa. Ecco l’arrampicata ad Albonico prima dello stupro a spit, ecco Albonico Original!

Davide “Birillo” Valsecchi

Archivio fotografico Ivan Guerini

Albonico e Brentaletto

Albonico e Brentaletto

Per come la vedo io arrampicare con il trapano, nel 2019, è come costruire una tettoia in amianto davanti alle scuole: “Almeno i bambini restano asciutti… mentre si beccano il carcinoma polmonare”. Quarant’anni fa poteva forse sembrare una buona idea ma, oggigiorno, sappiamo benissimo che è una scelta sbagliata sotto un’infinità di punti di vista. Tuttavia, nonostante sempre più spesso si discuta di “bonifca e tutela” delle pareti (e per estensione dell’arrampicata), qualcuno ancora insiste nei propri intenti, spesso più autocelebrativi che di pubblica utilità. Nello specifico riporto qui alcuni appunti che mi sono stati inoltrati da Ivan Guerini in merito alla “spittatura seriale” in corso sulle pareti di Albonico. Nello specifico il dissennato progetto oltre ad essere nocivo rischia di scadere nel ridicolo: se il Guerini trent’anni fa ha arrampicato lassù senza trapano, perchè tale possibilità dovrebbe essere preclusa ai giovani di oggi?

Certamente, come ha scritto qualcuno, «Non si può vivere nel “fumus persecutionis” della apodittica dichiarazione unilaterale della vaga e misterica NO SPIT ZONE!». Tuttavia la documentazione c’è ed è chiara da quasi trent’anni. Riporto infatti, in coda allo scritto di Ivan, anche i pdf delle pubblicazioni Rivista della Montagna negli anni ’90: una sul Sasso di Dascio (n°110) e l’altra sulla Cima delle Dune (n°149).

Considerazione personalissima: i vecchi in posa con il trapano mi fanno un tristezza infinita. Molto meglio un veterano d’altri tempi che cucina stinco e patate, che è custode e conoscitore di pareti intatte divenute meta di giovani ed arrembanti arrampicatori in cerca di  grandi o piccole avventure autentiche. Mettete quindi via sto dannato trapano, ci fate solo danni e brutta figura…

Davide “Birillo” Valsecchi


CASO DEGLI SPERONI DEGRADATI DI ALBONICO E BRENTALETTO – ZONA NO-SPIT
Documento Etico – Ivan Guerini – 3 febbraio 2019

La rete della dis-informazione

Pur considerando che lo stare tanto tempo a contatto con gli Ecosistemi Verticali sconosciuti contribuisce ad acquisire un certo distacco dai ragionamenti e dalle necessità difformi dell’agire comune, di tanto intanto capita che qualche amico m’informi di ciò che avviene, nella dimensione mirabolante e immateriale del social network, dove le convinzioni valide ruotano nel vortice delle web-opinioni superficiali e prettamente tecnicistiche dei blog.

In quel red carpet autoreferenziale che è Facebook, dove si ha l’impressione che tutti possano diventare protagonisti assoluti, campioni e star delle proprie convinzioni (ahimè spesso banali), pare si neghi con mascherata ipocrisia che spesso “questo apparire” è l’unico atto vitale adeguato per dissimulate la propria mediocrità esistenziale.

In questa dimensione virtuale ecco che compare ricorrentemente chi per costruire le proprie “ambizioni di protagonismo” con mezzi ambientalmente sleali, annuncia la “scoperta e l’apertura di pareti e itinerari nuovi”.

Difficilmente si considera che magari nei decenni appena trascorsi in quei luoghi c’è già stata una Storia Esplorativa consistente, consolidata, comprovata magari dal rinvenimento di qualche raro e vecchio chiodo che non attiva minimamente il dubbio e la curiosità di considerare “chi l’ abbia messo” e “cosa abbia fatto lì” ed è così la “scoperta e l’apertura di pareti e itinerari nuovi” che diviene “invenzione” Anti-storica!

Proprio come successe al Sass Negher negli anni scorsi, oggi nel comprensorio di Albonico, sulla Cima delle Dune al monte Berlinghera e sulle pareti del Lago di Mezzola si vuole “costruire una storia nuova” iniziando dal ribattezzare questi luoghi: Vandea, trent’anni dopo la Storia lì vissuta!

Della Storia Esplorativa di quella zona non fu mai fatto cenno?

Il dire che “della Storia Esplorativa di queste zona non fu mai fatto cenno” è asserzione falsa e priva di fondamento, forse un impacciato modo di celare ai disinformati una Storia lì già avvenuta?
Sono due le monografie esplorative pubblicate sulla Rivista della Montagna negli anni ’90: una sul Sasso di Dascio (n°110) e l’altra sulla Cima delle Dune (n°149) (che potrete leggere qui di seguito) ma anche Alessandro Gogna e Angelo Recalcati, nella loro Guida T.C.I sulla Mesolcina riportano fedelmente tutta la parte cronologica di cui erano informati.
Inoltre in occasione di un incontro culturale nella sede del Club Alpino Italiano di Novate Mezzola sono stati informati verbalmente di quella Storia esplorativa anche coloro che da sempre sono legati a quei territori tra cui la presidente Marcella Fumagalli, Gualtiero Colzada, i fratelli Rossano e Valentino Libéra e Pietro Nonini.

La negazione della Storia

Grave errore sarebbe considerare questo comportamento ingenuo e disinformato, quanto invece tipico di chi fa partire la storia “da sè stesso” magari per un conflitto con le capacità esplorative ed eticamente corrette dei predecessori.

Il Sass Negher, il comprensorio di Albonico e le pareti del Lago di Mezzola sono state “equipaggiate” in sordina e senza preavvertire coloro che le avevano in precedenza esplorate: porre di fronte al “fatto compiuto” evitando pavidamente quelle che non sarebbero state polemiche infondate ma un confronto chiarificante e diretto con i predecessori, ne è la dimostrazione.

Agendo con questa “manifesta furberia” gli attrezzatori, arrivati molto tempo dopo una Storia già avvenuta, sperano forse di cancellarla prima ancora che venga scritta, come ben testimoniato dal bisogno di ri-denominare le strutture ed i tracciati.

La menzogna della mancanza di tracce

Gli attrezzatori scagionano la manifesta negatività del loro operato, sostenendo come su quelle rocce non vi siano o quasi tracce di passaggio ma omettono il fatto che su quel tipo di roccia levigata, compatta e uniforme, quando salirono trent’anni prima i predecessori usarono esclusivamente mezzi tecnici di protezione in sedi naturali, praticando l’arrampica libera esplorativa e lasciando testimonianze di passaggio esigue o nulle.

La mancanza di testimonianze, naturalmente non vale soltanto per la zona para-granitica in questione ma anche per quelle calcaree, laddove i chiodi di testimonianza sono invece difficilmente visibili perché, come già detto recentemente a proposito delle pareti soprastanti Calolziocorte. “i chiodi utilizzati scompaiono nella quantità dei numerosi itinerari compiuti”.

Bisognerà rassegnarsi al fatto che gli attrezzatori sono così lontani dall’arrampicata, da non sapere che salire in libera su roccia assai poco chiodabile, comporta l’uso di POCO MATERIALE e pochissimo abbandono in loco dello stesso?

Le inevitabili ripercussioni

Il punto di vista che muove azioni del genere, apparentemente frutto di una mentalità solo superficiale, implica invece gravi ripercussioni assai pericolose!

  • Indebolisce progressivamente la capacità critica degli individui, abituandoli all’idea che l’attrezzato ti preserva dai rischi e dai pericoli naturali, fino ad annientare la presa di coscienza che i rischi e i pericoli sono parte integrante e dunque inestirpabile, delle esperienze esistenziali come nella vita così sulle pareti.
  • Induce il pensiero comune a considerare che “attrezzare sistematicamente” gli Ecosistemi Verticali intatti, corrisponda a “valorizzarli”, mentre così facendo avviene l’esatto contrario!
  • Si trasformano “pareti sconosciute” percorribili con mezzi tecnici geo-compatibili, in “cantieri realizzativi” di tracciati degradati dalle difficoltà alterate e innaturali.
  • Cantieri preparati per richiamare i “salitori con spit” il più delle volte insensibili a tutto ciò che circonda il loro risalire da uno spit all’altro.

Il giogo di quest’utilizzo delle pareti non lo percepiscono, tanto sono sedotti dalla macabra illusione di farcela a passare!

Potranno mai essere affascinati dalla vitale soddisfazione di salire sulle caratteristiche di una roccia che è in un habitat naturale con altre sue caratteristiche, luoghi che vanno sfiorati e rispettati sempre consapevoli d’essere visitatori che passando lasciano esili tracce?

Perché tutto questo continua ad accadere?

A conclusione di tanti fatti ricorrenti simili a questo vien da chiedersi: ma non bastava dirlo prima? Non bastava chiedere cosa pensavano gli esploratori della loro iniziativa?

Si sarebbero evitate sia rettifiche storiche, sia l’inutile e dannoso degrado che dagli stessi attrezzatori dovrà essere necessariamente bonificato.

Sarebbe occorsa una certa dose di trasparenza onde evitare un intervento invasivo sistematico che sì annienta la Storia avvenuta, ma soprattutto produce inutili scempi ambientali.

Probabilmente i livelli d’incapacità differenti degli scalatori che si servono degli infissi, necessitano di livelli di capacità illusorie che diano la sensazione dì onnipotenza.

“Riuscire in un modo o nell’altro a salire sempre”: “la panacea di un graal parrocchiale” da proporre agli ignavi utenti coinvolgendo le loro ambizioni per utilizzarli in una vera e propria operazione di marketing non solo economico!

I nove comprensori del M. Berlinghera e Le Scogliere del Lago di Mezzola: ZONE NO-SPIT

L’intero versante che dalla sommità del monte Berlinghera scende a Dascio e si estende fino a San Fedelino, formato dai nove comprensori di: Albonico, Peschiera, Brentaletto, Dalco, Stabiello, Derschen, Prà dell’Oro, Cima delle Dune (Balzùn) e Berlinghera.

In questo versante a partire dal 1981 e fino al 1995 si è svolta una Storia Esplorativa vissuta da Ivan Guerini, Monica Mazzucchi, Massimo Casaletti, Carmelina Marziali, Danilo Zuliani, Paola Ravarelli, Carlo De Toma, Giorgio Gobbi, Tiziano Capitoli, Alba Preda, Renato Comin, Enzo La Torre, Andrea Maiocchi, Nicola Gambara, Paola Villa, Paolo Consoli, Paolo Orsenigo, Mariarosa dalle Piane, Berto Dossi, Ci, Mario Villa, Eugenia Campiotti, Christine Stevenege.

Dal 1982 al 1992 con Monica prendemmo in affitto una baita a Dascio e nel corso di tre lustri furono percorse 243 strutture rocciose con 147 itinerari in libera esplorativa, con un esiguo impiego di mezzi tecnici di protezione utilizzati in sedi naturali per rispettarne lo stato di compattezza, elemento sostanziale e preponderante di quelle ma anche di tutte le rocce.

Il numero degli itinerari (che raccorda più strutture) è notevolmente inferiore rispetto al numero di queste, perché su quella roccia uniforme e prettamente inchiodabile furono lasciate esigue tracce di passaggio.

Le Scogliere del Lago di Mezzola

Luogo a parte sono le incombenti Scogliere del Lago di Mezzola che vanno dal Sasso di Dascio alla Scogliera del Brentaletto, 33 strutture esplorate con 76 itinerari significativi dal 1980 al 1982 e 1988 assieme a Monica Mazzucchi, Daniele Faeti, Paola Ravarelli, Enzo La Torre, Tiziano Capitoli, Alba Preda, Omar e Danilo Zuliani, Carlo e Grazia De Toma, Massimo Casaletti, Carmelina Marziali, Piera Panatti, Nicola Giovenzana, Laura Poncia, Leonardo Tagliabue.

Addendum – Chi nutre dei dubbi sull’effettivo percorrimento di tutti gli itinerari in passato, consideri che esiste una documentazione originale di ciascuno di essi corredata da schizzi e trafiletti cronologici compilata negli anni delle prime ascensioni.

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