Gino Soldà

“Un vicentino sulla Marmolada” intervista di Stefano Ardito (Rivista della montagna 1983). Rifugio Contrin, agosto 1936. La grande parete della Marmolada allinea il suo arsenale di pilastri e di placche, incisi in alto da canali repulsivi. E una parete impressionante, per decenni è stata il simbolo dell’impossibile in Dolomiti: ma questo è il momento della conquista. Sette anni prima l’impresa di Micheluzzi e compagni sul Pilastro sud della Marmolada di Penia: ora i riflettori sono puntati sulla parete sud ovest, un problema all’attenzione delle più forti cordate d’Europa. Un problema che Gino Soldà e Umberto Conforto risolvono al primo tentativo e in bello stile, dal 28 al 31 agosto. Il 28 attaccano, raggiungono la grande cengia, ridiscendono a dormire al rifugio. Tornano all’attacco l’indomani, e stavolta vanno a fondo: escono in vetta il 31, alle 6 di sera, dopo aver superato lunghi tratti di estrema difficoltà ed un’ultima, estenuante lotta nel canale sommitale intasato di ghiaccio. Con questa salita, scriverà Reinhold Messner, Soldà «supera di mezzo grado quello che Solleder ha fatto portando la scuola del Kaisergebirge nelle Dolomiti». E la salita della Marmolada a imporre il nome di Soldà all’attenzione del mondo alpinistico europeo. Oltre alla notorietà, gli porta la medaglia al valore sportivo, con stretta di mano del Duce. Eppure non è, probabilmente la sua salita più dura. Secondo Messner, la gigantesca parete nord del Sassolungo (salita da Soldà con Bertoldi, tre giorni prima della Marmolada) è più difficile. Se non per i passaggi, per l’ambiente repulsivo, per le difficoltà di ritirata, per i problemi di orientamento. A sentire Soldà, due delle sue vie sono più difficili ancora. La prima è il grande diedro ovest del Gran Campanile del Sassolungo, cioè della Punta Wessely. La seconda è una via di palestra, o poco più: il Dito di Dio, nelle Piccole Dolomiti vicentine, le montagne di casa di Soldà. Sesto superiore o settimo meno? L’importanza della questione, in questi casi, è di dettaglio. Recoaro, dicembre 1982. L’incontro con Gino Soldà è una raffica di sorprese. La cordialità, innanzitutto. Poi la vitalità stupefacente di quest’uomo, nato qui a Recoaro nel 1907, alpinista dal 1923 e guida dal 1928, tuttora in attività sulla roccia e sugli sci. Per presentare un alpinista però, ci vuole una lista di salite. Quella di Soldà è presto fatta. Della Marmolada, del Sassolungo, del Campanile Wessely abbiamo detto. Aggiungiamo ora la parete sud ovest dell’Ortles (è l’unica prima di stile occidentale di Soldà), la parete nord est del Dente del Sassolungo, la grande fessura della frequentatissima (oggi) parete sud del Ciavazes, lo spigolo sud della Torre di Babele in Civetta. A queste vanno aggiunte decine di vie nuove, alcune di estrema difficoltà, sulle Piccole Dolomiti, e centinaia di ripetizioni di vie classiche ed estreme in tutte le Dolomiti. Tra le altre la seconda ripetizione della Cassin alla Ovest di Lavaredo: due anni prima, per un infortunio, Soldà aveva dovuto rinunciare a tentare la via insieme a Raffaele Carlesso. Nel gruppo di punta degli alpinisti italiani degli Anni ’30, ancora secondo Messner, Soldà è il primo «per le forze fisiche, l’equilibrio, l’esperienza, l’istinto». Sono giudizi che, sul conto di Soldà, hanno anticipato o ripetuto tipini come Georges Livanos, Lothar Brandler, Hermann Buhl, Cesare Maestri. Raccontando di una salita, scrive Gaston Rébuffat a proposito di Soldà: «non si aggrappa alla roccia ma la sfiora, la tocca appena con la punta delle dita, con la punta dei piedi. Senza esitazioni ma senza scatti, sembra che egli non salga; tanto i suoi movimenti non mostrano sforzo alcuno. Superiorità del suo stile!». Chi volesse documentarsi di più potrà  leggere gli scritti di una dozzina di alpinisti, raccolti nel volume Arrampicate con Gino Soldà, curato dal suo amico Franco Bertoldi, edito nel 1980 da Tamari. Nel 1954, Gino Soldà è con la spedizione italiana al K2: è il più anziano, a quarantasette anni compiuti. Nel 1960, a cinquantatre anni, è protagonista del film Direttissima di Lothar Brandler, che vincerà il Gran Premio del Festival di Trento. Insieme a Brandler e a Scheffler, Soldà supera nel film, con stile perfetto, i grandi strapiombi della Cima Ovest. E ad arrampicare continua, come ad insegnare lo sci. Fino ad oggi.

>Recoaro cioè le Piccole Dolomiti. È arrivato prima l’alpinismo o Gino Soldà?
L’alpinismo, l’alpinismo. Però le vie erano poche, aperte da gente di fuori, in paese se ne sapeva poco o nulla. La più difficile comunque era lo spigolo del Baffelàn, salito da Berti nel 1908. Poi c’era qualche guglia minore, interessante. Ma sono cose che ho saputo più tardi.

>Dopo aver iniziato, cioè?
Proprio così. All’inizio avevo soltanto entusiasmo, un entusiasmo enorme. Era il 1923, avevo 16 anni. Lavoravo per un amico, capitano degli alpini, che gestiva l’albergo di Pian delle Fugazze. Ero lì, e le montagne pure: e allora ho provato. Quasi subito mi sono messo in un guaio, su un pendio verticale più di erba che di roccia, non sapevo che fare. Però sono riuscito a calmarmi, a scendere, mi sono reso conto che ero capace di controllarmi. E stato molto importante.

>Poi, dall’erba sei passato alla roccia.
Già, la stessa estate. Con l’amico capitano sono andato a fare il Frate, una bella guglia. Andava lui da primo, ma non avevamo relazione. E finito fuori via, sotto uno strapiombo, non riusciva a passare. Allora ho provato io, un po’ più a destra, e sono passato: da quella volta ho arrampicato da primo. Qualche giorno dopo abbiamo fatto il Baffelàn: in due, con quattro metri di corda.

>E poi sei andato sulle vere Dolomiti.
No, no: quelle sono venute più tardi. Nelle Piccole Dolomiti ho fatto in tempo a fare la mia salita più pericolosa, e il mio passaggio più duro. La prima proprio all’inizio. Era una solitaria invernale: è così che si dice oggi, no?

>Certo, ma racconta.
Era il 17 gennaio del 1924, la festa del patrono. lo volevo fare a tutti i costi lo spigolo del Baffelàn, ci tenevo proprio. Non sono riuscito a convincere nessuno, così sono andato da solo. Prima mille metri di dislivello nella neve, a batter pista: e bada che avevo i calzoni corti. Poi la salita vera e propria. Il canale di attacco era tutto di ghiaccio, da far paura: e io lì, a far gradini con un martello da falegname. Più in alto le condizioni erano un po’ migliori. Per farla breve: sono arrivato in cima, sono riuscito a scendere, e sono diventato famoso in tutta Recoaro. Ma quella è rimasta la salita più pericolosa della mia vita.

>Però da solo andavi spesso, mi pare.
Non molto. In quei primissimi anni ero costretto: o andavo da solo o non andavo per niente. Come per il Soglio della Favella: una parete rossa, strapiombante o verticale, solcata da due fessure, che ho salito nel ’25.

>Sempre nelle Piccole Dolomiti?
Proprio lì, di fronte a Pian delle Fugazze. Insomma: c’era questa parete, bellissima, il capitano l’ha vista da lontano e ha detto subito di no. Ma io la volevo fare: così ci sono andato da solo, qualche giorno dopo.

>Da solo e senza materiale?
Solo, certamente. Materiale, mah: avevo due chiodi, che erano poi due sostegni della grondaia dell’albergo, staccati di nascosto. Sono uscito dalla finestra alle quattro del mattino, non volevo che si sapesse. Poi sono andato all’attacco, ho fatto la salita. Sotto il passaggio più duro sono perfino riuscito a piantare uno dei due chiodi: alle nove e mezza ero di nuovo al lavoro. Ho cercato di tenere la cosa nascosta, ma poi si è saputa. Anche oggi è una via di quinto.

>Resta da dire del passaggio più duro.
Quello è sul Dito di Dio, una piccola guglia strapiombante da tutti i lati. Ma era passato qualche anno: era l’estate del ’30, oppure del ’31. Una dozzina di metri sotto la vetta c’era uno strapiombo durissimo. La prima volta sono volato: avevo una corda sola, si sono rotti due trefoli su tre. AI secondo tentativo avevo una corda di manilla e una di canapa: sono volato di nuovo, e la corda di manilla si è spezzata. La terza volta sono passato. Ma un passaggio così duro…

>Più duro della Marmolada?
Più duro della Marmolada, ho buona memoria per queste cose. E poi erano gli stessi anni. Prima, avevo dovuto smettere, quasi.

>Ti era passata la voglia?
Sei matto. Sono dovuto andare a lavorare in fabbrica a Vercelli, e montagne nemmeno a parlarne. Avevo un bisogno di muovermi pazzesco, andavo la sera a correre ai giardini, e la gente mi dava del matto. Due volte mi hanno fermato i carabinieri. Erano altri tempi.

>Però qualche anno dopo sei diventato guida.
Nel ’28, quella è stata l’estate importante. Intanto ho fatto altre due vie difficili sulle montagne di qui: il pilastro nordest del Baffelàn, e la prima via sulla Sisilla.

>Ancora da solo?
No, con Franco Bertoldi, e sul Baffelàn c’era anche mio fratello Aldo. Ma ti dicevo dell’estate del ’28. Preso il brevetto da guida, ho iniziato a girare con i clienti: è così che ho conosciuto le Dolomiti. Nel ’29 sono stato quasi un mese in Brenta, poi sono andato in Lavaredo.

>E gli altri che arrampicavano forte, li hai conosciuti così?
Qualcuno sì. Però Raffaele Carlesso, Bortolo Sandri e Mario Menti li ho cono sciuti qui: lavoravano alla Marzotigggi Valdagno, e venivano qui a ripetere le mie vie. Mi è sempre piaciuto portare gli alpinisti di fuori, quelli forti, ad arrampicare qui. Sai, è una cosa un po’ speciale…

>Perché ridi?
Ci sono state scene divertenti per colpa della roccia. Non è che sia pessima, però qualcosa ti resta in mano dovunque. Poi c’è l’erba, e se non sei abituato ti metti paura, c’è poco da fare. Un alpinista di città può passare su qualsiasi strapiombo, ma certe cose tocca averle fatte da bambino: se uno è bravo però, col tempo si abitua. Con Carlesso ho anche fatto una via nuova alle Sibelle, nel ’33. Più tardi, con lui, ho fatto la seconda ripetizione della Cassin alla Ovest di Lavaredo.

>E gli altri, li conoscevi?
Cassin lo avevo incontrato in Civetta, con Ratti ho fatto amicizia…

>Amicizia o competizione?
Ma no, era amicizia. L’unico a cui ho soffiato una salita sotto il naso è stato Comici. È stato alla Marmolada. Sono arrivato al rifugio il giorno dopo aver fatto la Nord del Sassolungo: volevo riposarmi, studiare la parete, attaccare dopo un giorno di riposo. Ma poi ho visto Comici entrare in rifugio: sai com’è, la mattina siamo filati all’attacco. D’altronde ero proprio in forma, a fare quella salita ci tenevo.

>Insomma, chi era il più forte?
È difficile da dire, tutti abbiamo fatto salite importanti. Rispetto a Comici e Cassin, io andavo di più in libera. Ce ne voleva, per farmi piantare un chiodo: lo mettevo solo quando pensavo «qui rischio davvero». Se vedevo uno forte passare in artificiale dove si poteva salire in libera mi dispiaceva per lui, quasi da piangere. E quando ero poco allenato, e toccava a me chiodare troppo, mi prendeva una rabbia…

>Un po’ d’agonismo c’era, allora…
Macché agonismo, era voglia di far bene. L’agonismo con la montagna non c’entra proprio, è un’altra cosa.

>Ma tu non ti allenavi?
Certo che mi allenavo, ma non era una cosa scientifica. Di mani e di braccia ad esempio, non sono mai stato allenato come prima di sposarmi. Andavo a trovare la fidanzata, e poi arrampicavo su un vecchio muro lì vicino. Tra lo sci e l’arrampicata stavo sempre in movimento.

>E i tedeschi degli anni ’30 li conoscevi? Erano pazzi nazisti, o alpinisti come gli Altri?
Sai, loro avevano Hitler, ma noi avevamo Mussolini. La medaglia al valore sportivo l’hanno data anche a me, a Roma, con stretta di mano del Duce: ma contava quel che contava. Piuttosto i tedeschi sono sempre tedeschi, sai come sono fatti. Uno mi ha anche spiegato che «arrampicare è come andare in guerra, vai all’assalto e poi o la va o la spacca»: ma era già nel dopoguerra. Con alcuni ho fatto amicizia, come con Erich Waschak, ad esempio. L’ho incontrato in Lavaredo, lui aveva appena fatto la quarta salita della Nord dell’Eiger, la prima senza bivacco. Ci hanno presentato, e siamo andati a fare lo Spigolo Giallo: avevo un cliente che aspettava, insomma, ci abbiamo messo un’ora e un quarto. Oppure con Brandler e Scheffler, nel ’60. Abbiamo arrampicato insieme in Lavaredo: poi il film di Lothar, Direttissima, ha vinto il primo premio a Trento.

>C’è una salita che non sei riuscito a fare, in quegli anni?
Una sola, ma importante: l’Eiger. Nel ‘35 volevo andare a tutti i costi: mi allenavo, e sono caduto da una paretina di tre metri, vicino a Recoaro. Mi sono rotto un polso, e mi è andata pure bene. Allora Carlesso — dovevo andare con lui — ha deciso di andare con Sandri. Ma anche Carlesso è volato, e si è rotto un braccio: quando il destino dice no, non c’è niente da fare. Volevamo provare di nuovo nel ’37, il CAI di Vicenza ci doveva pagare il viaggio, c’era stata anche una cena per festeggiare. Poi sono andato in Civetta a recuperare del materiale, e al ritorno ho trovato che non se ne faceva più niente. Hanno avuto paura di lasciarci andare, dopo tutti i morti del ’36.

>Menti e Sandri, però, sono andati lo stesso.
Gli ha pagato il viaggio Marzotto, loro lavoravano in fabbrica da lui. Sono andati, e hanno provato la via più dura, la diretta: è finita male.

>Ma tecnicamente erano all’altezza?
Sì, diamine. Dove sono passati, sono andati su come razzi. Ma avevano poco materiale, non sapevano il tedesco, non hanno capito le previsioni del tempo, e c’era una perturbazione in arrivo. Però andavano bene; se traversavano invece di andar dritti, la parete era loro. Invece sono morti lì. E mi è toccato andare a recuperare le salme: sai, le guide svizzere non volevano.

>Ma tu su ghiaccio sapevi andare?
Si, è un po’ come sull’erba: è tutta questione d’istinto. Però non ho fatto molto, e le salite più belle le ho fatte con clienti: come sull’Ortles.

>Non eravate tu e Pirovano?
Sì, ma lasciami raccontare com’è andata. Eravamo lì allo Stelvio, ad allenarci per le Olimpiadi invernali, ed è arrivato il bel tempo all’improvviso. Volevamo fare una salita, e c’era la Sud ovest dell’Ortles lì, a portata di mano. Poi Pirovano salta su che qualche lira non fa mai male, e che lui ha giusto due clienti che vanno forte, marito e moglie. La signora di là non ce la volevo portare, ma lui mi ha convinto: insomma, siamo scesi a Merano a comprare un po’ di materiale, e poi abbiamo attaccato. Ah, dimenticavo: abbiamo comprato un po’ di chiodi, il mangiare pure, ma gli scarponi no, costavano troppo. Sono andato con le scarpe da fondo, con i ramponi sopra.

>Ma era difficile?
All’inizio no, un lungo canale pieno di neve fresca. Poi c’erano passaggi più duri, tra cui un salto di roccia difficile: salgo a vedere, riscendo in doppia, e un attimo dopo ti viene giù una scarica grossa come un vagone.

>Non era troppo, per i clienti?
Mah, non so. Comunque la salita l’abbiamo finita, evitando il tratto che scaricava. Una gran bella salita.

>Ma a te piaceva far la guida?
Certo che sì: tra l’altro potevo scegliere, tutti volevano venire con me, e agli scocciatori dicevo di no. Piuttosto, a volte mi sentivo un po’ un forzato.

>Un forzato come?
Come certe volte in Lavaredo. Facevo tre salite al giorno, con tre clienti diversi: tra l’una e l’altra veniva su qualcuno del rifugio, all’attacco, a portarmi qualcosa da mangiare. Però potevo dire di
no, se lo facevo vuol dire che mi piaceva. Ho fatto amicizia con molti, mi scrivono ancora.

>E poi il forzato di Lavaredo è andato al K2.
Sai che all’inizio non mi volevano? Avevo 47 anni, dicevano che erano troppi, che bisognava averne tra i 28 e i 38. Poi però hanno fatto entrare Bonatti, che ne aveva 23, e anche me. Quando ci allenavamo al Rosa ero quello che correva di più: una volta sulla cresta Rey della Dufour, ero con Gallotti, abbiamo sorpassato tutti. L’altro «vecchio» era Compagnoni, anche lui andava mica male. Peccato che abbiamo litigato subito con Desio.

>Già, Desio. Ma era intrattabile come lo hanno descritto alcuni?
Intendiamoci: il fatto suo lo sapeva. Però si arrabbiava troppo per le piccolecose, e non si scordava nulla. Un giorno sono andato con Compagnoni a Genova, per imbarcare il materiale. Finito il lavoro, abbiamo fatto una gita a Rapallo senza chiedergli il permesso: si è inferocito, e da allora ce l’ha avuta con noi.

>E vi ha punito?
Appena ha potuto. Serviva qualcuno per accompagnare in treno il materiale da Karachi a Rawalpindi? Desio ha mandato noi. Serviva qualcuno per chiudere la carovana, raccogliere i carichi abbandonati, litigare con i portatori? E toccato a noi: sono arrivato al campo-base quando era già stato installato il campo III. Poi però, una mano l’ho data pure io.

>Era dura quella montagna?
Durissima, no. Però i passaggi di terzo, di terzo superiore facevano presto ad incrostarsi di ghiaccio, e c’era poco da stare allegri. Poi abbiamo scelto di evi- tare dei canaloni pericolosi, dove erano passati gli americani. Siamo rimasti sempre sul filo dello sperone: è il posto più ventoso del mondo.

>E tu sei arrivato…
Fino alla Piramide Nera, poco sotto la Spalla, a 7100 metri. Dopo una giornata durissima, e due viaggi dal quinto al sesto campo, ho dovuto passare la notte da solo in una tenda superleggera. La mattina del 26 luglio non sono più riuscito a salire.

>C’è una cosa che ti dispiace, di quella spedizione?
Che vuoi, la vetta è la vetta…

>E una cosa che ti fa piacere?
Una senz’altro: siamo ancora tutti amici.

>Gino Soldà alpinista, Gino Soldà guida. Manca Gino Soldà sciatore, e nemmeno quello è da poco.
Sarebbe una storia lunga anche que- sta. Perché ho iniziato giovanissimo, con l’entusiasmo più che con la tecnica. Ai primi campionati italiani che ho fatto nel ’26, in cima alla salita ero terzo, nonostante una caduta spaventosa. Ma non sapevo scendere, e sono arrivato dodicesimo. Mi dispiaceva, e con gli stessi sci (da fondo! ndr) mi sono iscritto alla gara di salto. Non so come ho salvato la pelle…

>Poi ci sono state le Olimpiadi.
Sì, ma ho avuto sfortuna. Già in America, nella gara pre-olimpica, ero arrivato quinto, dopo quattro norvegesi. Invece a Lake Placid ho sbagliato sciolina, ho sofferto da pazzi, sono arrivato ventiseiesimo. Però è stata una bella esperienza, per due motivi.

>Quali?
Intanto, mi sono divertito. Pensa che, tanto per scherzare, al ritorno, ho salta-
to a piè pari il parapetto del terrazzo dell’Empire State Building, arrivando su un cornicione di mezzo metro. Non ti dico la gente e i poliziotti. Poi però, tornando a casa, la voglia di divertirmi mi ha fatto restare in coperta sulla nave nonostante una tempesta furiosa. Un’onda ha spazzato il ponte, ho sbattuto, mi sono rovinato un ginocchio per quasi un anno.

>E il secondo motivo?
La sciolina, naturalmente. Ho imparato dai norvegesi, e tornato a casa ho iniziato a fabbricarne.

Poi sparisce, scende al pianterreno, dove la ditta «Scioline Soldà» ha uffici e magazzino. Vuole cercare delle vecchie foto, farmi avere un campione di sciolina. Soprattutto deve preparare i suoi sci, per l’indomani: più in là nell’inverno, ci saranno gare anche per lui. «E la sua vita» mi sorride sua moglie, come si volesse scusare. Ma si vede che è contenta.


Dolomiti Anni Trenta

  • Sotto un sole che fu
    “Cose e fatti di Dolomiti Anni Trenta” di Roberto Mantovani
    (Rivista della Montagna 1983).
  • Gino Soldà
    “Un vicentino sulla Marmolada” intervista di Stefano Ardito
    (Rivista della Montagna 1983).

  • Bruno Detassis
    “Il signore del Brenta” intervista di Nanni Villani
    (Rivista della Montagna 1983)

  • Luigi Micheluzzi
    “Il primo sesto grado italiano sulle Dolomiti” di Enrico Camanni
    (La rivista della Montagna 1983).

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