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Siebenundfünfzig

Siebenundfünfzig

Josef chiama la Valle Due Pile “Moregallo Natural Climbing Area”, area di arrampicata naturale del Moregallo: è convinto che i divieti riescano solo ad ottenere l’effetto opposto di quello desiderato,  così preferisce qualcosa che sia più propositivo e positivo. I miei non sono veri e propri divieti, io li considerò più “salutari avvertimenti”, qualcosa in stile “Cum Terebro: Cave Canis” (Con il trapano attenti al cane!). Josef è un Maestro di Yoga e sul suo casco ha scritto “Pace, Amore e Rispetto”. Io sono un Pirata e sul mio c’è scritto, a gibolli, “Vis Pacem Para Bellum”. Tuttavia credo abbia ragione lui, anzi, credo siano le nostre differenze ciò che ha permesso di creare questa “cosa”, qualsiasi cosa sia. Senza di lui nessuna delle vie, ormai numerose, sarebbe stata possibile. D’altro canto Josef non fa che ringraziarmi – e questo per me è un grande piacere – per aver trovato nuove linee e per aver dato vita al nostro piccolo ma compatto gruppo di amici. Già, io mi avventuro in esplorazione per i meandri del Moregallo, su e giù per paglione e roccette, in cerca di tesori nascosti. Poi mi schiero in seconda linea, alla sicura, alla manovra delle corde, assistendo alla magia con cui Josef supera la gravità. Tutte le vie aperte fino ad ora le abbiamo aperte insieme, io e lui, ma mai soli: con noi si sono via via alternati giovani membri della nostra squadra che, in alcuni casi, sono poi diventati istruttori o membri del soccorso. Per tutti è stata un’indimenticabile esperienza autentica: una ruota che gira, solo apparentemente in modo lento, creando una spirale sempre più ampia.


La “Torre Bifida” è uno dei principali torrioni indipendenti della Valle Due Pile. Si innalza per oltre 40 metri alla biforcazione della Valle Due Pile con la Valle del Bech. Si innalza e si impenna in una curiosa torsione che culmina in una cima doppia, bifida. Josef voleva (e tutt’ora vuole!) affrontarla frontalmente, nel suo versante più alto ma anche più fragile. La roccia di quel lato, gialla e friabile, non mi convinceva molto, anzi, affatto. Così, osservando la torre così come il Colonello Troutman osservava la miniera in cui era prigioniero John Rambo, ho cercato un’alternativa… ed alla fine la Natura mi ha premiato! Sul lato orientale la torre si appoggia su alcune strutture rocciose più piccole che, quasi nascosto, formano uno scivolo erboso che rimonta, alle spalle, lo zoccolo più fragile della torre. Risalendo il canale si poteva quindi raggiungere la parte più solida (in senso relativo) della torre approcciando un’inaspettata fessura verticale che rimonta tutta la sua lunghezza. 

Così è nata Siebenundfünfzig alla Torre Bifida nella Moregallo Natural Climbing Area. Venti metri, VI+. Un chiodo lasciato in via, un cordone di calata per la doppia sulla sommità. La cima della Torre Bifida è più sottile della cime dell’Ago Teresina in Grignetta: provare per credere!

Josef Prina, Gabriele Prina, Ruggero Riva, Davide Birillo Valsecchi

Un ringraziamento a tutti i Tassi: alla loro amicizia, al loro impegno, alla loro eterna voglia di fare festa! 😉 

Albonico Original

Albonico Original

La conoscenza e il rispetto della montagna sono le condizioni indispensabili per la pratica dell’alpinismo. L’autoregolamentazione si riferisce al mantenimento o al ripristino di condizioni ambientali conformi all’essenza dello sport alpino (wilderness = solitudine in ambiente selvaggio). L’accettazione del rischio è parte integrante dell’alpinismo che è una attività che presenta rischi e chi la pratica se ne assume la responsabilità; sono soprattutto le competenze, le capacità e il livello di preparazione fisica e psichica che possiede l’individuo a stabilire il grado di prevenzione del rischio e a imporre le conseguenti azioni. La conoscenza e il rispetto della montagna uniti a un’onesta valutazione delle proprie capacità sono condizioni indispensabili per una pratica in ragionevole sicurezza dell’alpinismo. Inoltre il rischio assunto e condiviso nello spirito di cordata è un momento culturale essenziale nella pratica, dell’alpinismo dove il confronto personale dell’individuo con le difficoltà opposte dalla natura ne costituisce il fascino. Tuttavia l’eccessiva commercializzazione, alla quale anche l’alpinismo sembra non sfuggire, rischia di snaturarne sempre più l’etica…. L’apertura di nuovi itinerari di scalata dovrà basarsi sulla struttura naturale della montagna e sul rispetto delle vie logiche di salita. L’uso dei mezzi artificiali che comportano la perforazione della roccia dovrà essere evitato o limitato a casi straordinari, simili a quelli in cui essi sono stati tradizionalmente tollerati, ossia ai casi in cui essi consentono il superamento di brevissime interruzioni della linea di salita naturale, e ai casi di emergenza.

Questo è ciò che riporta il Bidecalogo del CAI fin dal 2013. Poi però, con un certo disappunto, trovi istruttori di Scuole CAI che corrono ed accorrono a farsi selfie sulle placche di Albonico, appesi alle neo-spittate linee de “L’Amico Gigante” che, incurante tanto del bidecalogo quanto delle vie originali aperte e documentate già negli anni ’90, si è messo ancora una volta a fare il “reuccio a batteria”.

Vergognatevi anziché sorridere: per quanto mi riguarda l’uso del trapano nel 2019 è come il Rohypnol, la droga dello stupro. Il più squallido della compagnia butta la pastiglia nel bicchiere della ragazza che non riesce a conquistare: stordita ed incapacitata trascina la poveretta in un angolo dove gli amici del branco, scattandosi diverti foto, ne abusano compiaciuti in gruppo vantandosene sui social. Se gli chiedi perchè lo fanno ti rispondono “Perchè meritava troppo!” “Perchè volevamo solo divertirci”, ma l’abuso lascia segni indelebili ed irreversibili. Ecco i “maniaci dell’arrampicata”: coloro che chiamano libertà la propria ossessiva e superficiale violenza.

Il “soggetto” in questione – “io faccio quello che voglio dove voglio!” – si fregia poi della patacca azzurra di Guida Alpina e questo lancia preoccupanti ombre sulla validità del monopolio di tale Istituzione e sulla natura dei compromessi ritenuti accettabili per soddisfare clientela e clientelismo.

Il mio disprezzo per questa gente è ormai incontenibile e generalizzato. Scrivo queste poche livorose parole solo per mostrarvi ciò che era Albonico e che avrebbe potuto essere anche nel futuro se l’ignoranza e la presunzione non fossero state sdoganate come cultura di massa. Ecco l’arrampicata ad Albonico prima dello stupro a spit, ecco Albonico Original!

Davide “Birillo” Valsecchi

Archivio fotografico Ivan Guerini

Zucchero e Canditi

Zucchero e Canditi

“Sono andato in discarica a buttarmi via”. Avevo scritto questa frase su un post-it giallo e Bruna l’ha conservata appesa sul frigorifero per quattro o cinque anni. In qualche modo era la perfetta sintesi dell’inquietudine che mi assale in certe mattinate. Ad aggravare la situazione la cupa incertezza per Tom nelle sconsolanti notizie dal Pakistan. Così ho smesso di girare tra le dita, come una specie di santino, un adesivo dei Badger su cui Tom ci aveva lasciato un autografo, abbozzando poi il disegno di un omino che arrampica. Ho infilato le scarpe, tre magliette, una sopra l’altra, e sono uscito di casa: niente zaino, niente corda, niente idee. “Sembra la Nord Del Lyskamm” aveva detto ridendo Josef qualche settimana fa. Insieme a Ruggero stavamo risalendo il ripido crinale sul lato sinistro della valle Due Pile inseguendo la cresta del grande sperone roccioso, quello alla cui base ombreggia un evidente e buio tetto ben visibile dal sentiero che dalla Forcellina attraversa verso Sambrosera. Il crinale erboso, oltre ad essere estremamente ripido, è costellato da insidiose placche di roccia spesso poco visibili. Per riuscire a risalire è necessario fare la “giusta rotta” tra le nicchie e le guglie. Se anzichè l’erba ci fosse la neve sarebbe una salita quasi prestigiosa anzichè una modesta e bistrattata ravanata senza corda. Josef, ed ormai anche Ruggero, sono incredibilmente più forti di me sulla roccia, ma sul paglione, attraverso le labirintiche linee del Moregallo, affidano a me il compito di guidare la carovana e, intendiamoci, io lo considero un grandissimo onore. Lassù, oltre il crinale, sapevo bene cosa ci attendeva: nella valle Sambrosera la torre Quattordio si innalza creando un alta muraglia, ben nota e visibile sulla destra a tutti coloro che risalgono verso l’attacco della Crestina Osa. Tra la Muraglia del Quattordio ed il crinale che stavamo salendo vi è un’ampio anfiteatro di guglie e pinnacoli. Io conoscevo la parte bassa dell’anfiteatro perchè vi avevo cercato una vecchia via di Ivan Guerini su una di queste guglie. La via, ancora oggi, è riconoscibile per un nat incastrato nella parte più alta della fessura a cavatappi che solca la torre. Con Ruggero e Josef, raggiunto l’anfiteatro, ci eravamo abbassati rientrando verso la base del Quattordio. Avevo curiosato verso la parte alta dell’anfiteatro ma la cresta del Quattordio sembrava chiudersi in un incastro di rocce difficilmente superabili. Lungo i canali erano poi ben visibili crolli rocciosi ed alberi abbattuti: non sembrava molto invitante. Tuttavia i segni di passaggio dei Mufloni sembravano promettenti ed il mio desiderio di scoprire cosa ci fosse oltre si faceva insistente. Settimane più tardi, in un altra gita a cui si era aggiunto anche Gianni, avevamo a lungo discusso di come la cresta del Quattordio non fosse mai stata percorsa e come, nonostante le evidenti difficoltà, fosse un’idea intrigante. Così, tornando al presente, sono uscito di casa carico di pensieri mentre la caviglia, rigida e dolorante, cercava di disperatamente scaldarsi. “La via diretta”. Nella mia mente una strana linea rossa univa i sassi della parte bassa della valle Due Pile, rimontava la cascata del Grande Sasso Verde e risaliva il crinale affrontato con Josef e Ruggero, attraversava l’ignoto dell’anfiteatro e si ricollegava alla crestina Osa, da qui fino alla cima del Moregallo. “La via diretta”. Dovevo quindi scoprire cosa custodiva l’ignoto dell’anfiteatro alto. Risalendo il sentiero verso Sambrosera ho quindi deviato verso la casa abbattuta e preso il crinale che risale dritto per dritto verso l’anfiteatro. Il sole era caldo ed i miei passi lenti, sconsolatamente lenti. Due anni fa era tutto diverso: ci si rende conto del proprio livello solo quando lo si perde. Consapevole dei miei nuovi limiti faccio il mio solitario ingresso nell’anfiteatro rimontando alcune rocce rotte. Sono in un’angolo sconosciuto ed isolato del versante Sud del Moregallo: se mi giro alle mie spalle vedo casa, ma sono decisamente solo quassù. La testa segue il ritmo del respiro affannato e batte i suoi colpi a tradimento. Raggiungo il pinnacolo roccioso dove, con Josef e Ruggero, avevamo rimontato il crinale iniziando a scendere. Davanti a me ho solo l’ignoto e qualcosa nel profondo si agita. Non mi sento forte, anzi, a tenere banco sono soprattutto le mie debolezze. Per un attimo la mia incertezza diventa paura. Quindi respiro e, parlando da solo, pronuncio le regole a voce alta: “Andiamo solo fino alla base della muraglia. Facciamo un sopralluogo e se non ci ispira passare oltre torniamo indietro: missione finita, nessun problema, obiettivo raggiunto”. Potremmo chiamarlo il “metodo Gollum” ma ora che le mie regole di ingaggio sono state pronunciato l’inquietudine di perdere il controllo della situazione, la vera anticamera dalla paura, un po’ si acquieta. Alla base della muraglia che spezza il canale erboso ci sono due opzioni. La prima, seguita dai mufloni, rimonta sulla destra una sottile cengia di terra e sassi che rimonta la struttura rocciosa proseguendo sulla cresta della stessa. La cengia, decisamente ripida, è costellata da grossi sassi poco rassicuranti ed inoltre non conosco l’esposizione sull’altro lato di questa cresta. E’ molto probabile mi ritrovi sulla vetta dello sperone roccioso con il grande tetto alla base: decisamente una posizione vertiginosa! La seconda opzione punta alla muraglia rocciosa. Sfruttando il lato destro è possibile rimontare con facilità metà della sua altezza sfruttando poi un’albero di rubinia per avere aiuto nel vincere il tratto finale. Opto per la seconda e raggiungo l’albero di rubinia usandolo per spaccare prima sulla sinistra, entrando quindi in placca, e rimontando poi sulla destra lasciandolo alle mie spalle a modi “rete del trapezio”. Se volo, oltre la pianta, ci sono quattro/sei metri verticali che precipitano su un terrazzino pieno di sassi ammassati. La mia mente stila una lunga serie di “imprevisti e probabilità” sull’esito di un eventuale caduta. Come nota aggiuntiva riporta anche “E’ il compleanno di tuo nipote: se muori oggi rovini la festa per tutti gli anni a venire!”. Mi concentro e passo. Posso ridiscendere dalla muraglia, ma non sarebbe troppo semplice farlo, quindi ora conviene trovare una via d’uscita verso l’alto. La mia mente si agita di nuovo. E’ possibile osservare la propria mente? Non so se sia possibile ma “rilevo” che la mia testa sta facendo due cose: la prima è guardarsi intorno, sono nella parte alta dell’anfiteatro, non ho idea se vi farò mai ritorno e la mia mente sembra osservare e catalogare tutto quello che le sta intorno. Il secondo processo mentale, quasi in opposizione al primo, sembra analizzare e scartare tutto ciò che non è significativo alla ricerca di una via d’uscita. Parallelamente il mio corpo, cercando di mantenere il ritmo, continua a muoversi. Scatta quindi una strana gara tra il corpo che insiste nell’avanzare e la mente che cerca di individuare la giusta rotta. E’ una cosa decisamente curiosa, probabilmente legato a qualche istinto biologico primario. Fermarsi e guardarsi intorno, apparentemente la soluzione logica più ovvia, non sembra un’opzione plausibile: probabilmente mi arenerei in qualche movimento o in qualche pensiero. Tutto ciò che posso fare è abbassare con la respirazione il ritmo del corpo lasciando campo e tempo alla mente per decidere. Individuo due possibili e promettenti passaggi e poi scorgo qualcos’altro: un rampa franosa porta ad uno stretto diedro sulla cresta del Quattordio. Il mio schema mentale cambia ancora, forte delle due possibilità (ancora tutte da verificare) ho una linea per raggiungere la cresta, una cresta su cui forse nessuno è mai stato prima. Il piano cambia così come qualcosa nella mente e nel corpo: l’incertezza diventa una specie di eccitazione. Ci sono un sacco di sassi ammassati ed incastrati tra roccia e terra, sembra un castello di carte: mi ci infilo cercando di arrampicare sui piedi ed uso la schiena come appoggio aggiuntivo. Qualcosa cede ma avanzo bene. Con una mano afferro il bordo della cresta, ho la tentazione di alzarmi oltre, di assumere una posizione imperiosa e trionfale sulla cresta, ma la quantità di roccia fragile che mi circonda lo sconsiglia vivamente ed ho il più fondato terrore nello spingere il mio barricentro verso il vuoto sull’altro lato.  Allungo la testa e sono là, dove forse nessuno è mai stato prima. Guardo i Corni, le creste della Osa e del Cinquantenario, i canali alle spalle della Torre Marina. Conosco tutti quei luoghi ma, da quel punto di osservazione, non li avevo mai vista. “Nella vita è importante saper cambiare il proprio punto di vista”. L’inquietudine con cui ero uscito di casa è scomparsa ed al suo posto c’è qualcosa di nuovo: che sia felicità? Per un secondo lascio che la mia mente si abbuffi di immagini, poi scatto qualche foto, perchè la memoria è debole ed i piani futuri necessitano di informazioni certe. Poi, sazio, inizio la mia cauta discesa verso il canale: ora devo trovare il modo di superare la cresta più a monte e cambiare versante. Sfrutto la protezione di alcune piante rimontando in un canale verso destra. Mi allungo fino ad una sella oltre la quale trovo una breve prato in discesa alla cui base fa bella mostra di sè la palina della Cresta Osa. Sono Fuori!! I miei calcoli erano giusti: la linea de “La Via Diretta” esiste, parte dal cancello di casa mia, risale la valle Due Pile bassa fino alla cascata, rimonta il Crinale, si infila nell’anfiteatro, lo risale superando la cresta del Quattordio e si collega alla Crestina Osa fino alla Cima del Moregallo. Mille metri di avventura: ora non resta che questo vecchietto li unisca tutti insieme con una singola salita!

Davide “Birillo“ Valsecchi

Nota: la cresta del Quattordio è “zucchero e canditi”. I canditi sono i grossi ed instabili massi che la roccia fragile, lo zucchero, inspiegabilmente trattiene nel vuoto contro ogni logica di gravità.

Albonico e Brentaletto

Albonico e Brentaletto

Per come la vedo io arrampicare con il trapano, nel 2019, è come costruire una tettoia in amianto davanti alle scuole: “Almeno i bambini restano asciutti… mentre si beccano il carcinoma polmonare”. Quarant’anni fa poteva forse sembrare una buona idea ma, oggigiorno, sappiamo benissimo che è una scelta sbagliata sotto un’infinità di punti di vista. Tuttavia, nonostante sempre più spesso si discuta di “bonifca e tutela” delle pareti (e per estensione dell’arrampicata), qualcuno ancora insiste nei propri intenti, spesso più autocelebrativi che di pubblica utilità. Nello specifico riporto qui alcuni appunti che mi sono stati inoltrati da Ivan Guerini in merito alla “spittatura seriale” in corso sulle pareti di Albonico. Nello specifico il dissennato progetto oltre ad essere nocivo rischia di scadere nel ridicolo: se il Guerini trent’anni fa ha arrampicato lassù senza trapano, perchè tale possibilità dovrebbe essere preclusa ai giovani di oggi?

Certamente, come ha scritto qualcuno, «Non si può vivere nel “fumus persecutionis” della apodittica dichiarazione unilaterale della vaga e misterica NO SPIT ZONE!». Tuttavia la documentazione c’è ed è chiara da quasi trent’anni. Riporto infatti, in coda allo scritto di Ivan, anche i pdf delle pubblicazioni Rivista della Montagna negli anni ’90: una sul Sasso di Dascio (n°110) e l’altra sulla Cima delle Dune (n°149).

Considerazione personalissima: i vecchi in posa con il trapano mi fanno un tristezza infinita. Molto meglio un veterano d’altri tempi che cucina stinco e patate, che è custode e conoscitore di pareti intatte divenute meta di giovani ed arrembanti arrampicatori in cerca di  grandi o piccole avventure autentiche. Mettete quindi via sto dannato trapano, ci fate solo danni e brutta figura…

Davide “Birillo” Valsecchi


CASO DEGLI SPERONI DEGRADATI DI ALBONICO E BRENTALETTO – ZONA NO-SPIT
Documento Etico – Ivan Guerini – 3 febbraio 2019

La rete della dis-informazione

Pur considerando che lo stare tanto tempo a contatto con gli Ecosistemi Verticali sconosciuti contribuisce ad acquisire un certo distacco dai ragionamenti e dalle necessità difformi dell’agire comune, di tanto intanto capita che qualche amico m’informi di ciò che avviene, nella dimensione mirabolante e immateriale del social network, dove le convinzioni valide ruotano nel vortice delle web-opinioni superficiali e prettamente tecnicistiche dei blog.

In quel red carpet autoreferenziale che è Facebook, dove si ha l’impressione che tutti possano diventare protagonisti assoluti, campioni e star delle proprie convinzioni (ahimè spesso banali), pare si neghi con mascherata ipocrisia che spesso “questo apparire” è l’unico atto vitale adeguato per dissimulate la propria mediocrità esistenziale.

In questa dimensione virtuale ecco che compare ricorrentemente chi per costruire le proprie “ambizioni di protagonismo” con mezzi ambientalmente sleali, annuncia la “scoperta e l’apertura di pareti e itinerari nuovi”.

Difficilmente si considera che magari nei decenni appena trascorsi in quei luoghi c’è già stata una Storia Esplorativa consistente, consolidata, comprovata magari dal rinvenimento di qualche raro e vecchio chiodo che non attiva minimamente il dubbio e la curiosità di considerare “chi l’ abbia messo” e “cosa abbia fatto lì” ed è così la “scoperta e l’apertura di pareti e itinerari nuovi” che diviene “invenzione” Anti-storica!

Proprio come successe al Sass Negher negli anni scorsi, oggi nel comprensorio di Albonico, sulla Cima delle Dune al monte Berlinghera e sulle pareti del Lago di Mezzola si vuole “costruire una storia nuova” iniziando dal ribattezzare questi luoghi: Vandea, trent’anni dopo la Storia lì vissuta!

Della Storia Esplorativa di quella zona non fu mai fatto cenno?

Il dire che “della Storia Esplorativa di queste zona non fu mai fatto cenno” è asserzione falsa e priva di fondamento, forse un impacciato modo di celare ai disinformati una Storia lì già avvenuta?
Sono due le monografie esplorative pubblicate sulla Rivista della Montagna negli anni ’90: una sul Sasso di Dascio (n°110) e l’altra sulla Cima delle Dune (n°149) (che potrete leggere qui di seguito) ma anche Alessandro Gogna e Angelo Recalcati, nella loro Guida T.C.I sulla Mesolcina riportano fedelmente tutta la parte cronologica di cui erano informati.
Inoltre in occasione di un incontro culturale nella sede del Club Alpino Italiano di Novate Mezzola sono stati informati verbalmente di quella Storia esplorativa anche coloro che da sempre sono legati a quei territori tra cui la presidente Marcella Fumagalli, Gualtiero Colzada, i fratelli Rossano e Valentino Libéra e Pietro Nonini.

La negazione della Storia

Grave errore sarebbe considerare questo comportamento ingenuo e disinformato, quanto invece tipico di chi fa partire la storia “da sè stesso” magari per un conflitto con le capacità esplorative ed eticamente corrette dei predecessori.

Il Sass Negher, il comprensorio di Albonico e le pareti del Lago di Mezzola sono state “equipaggiate” in sordina e senza preavvertire coloro che le avevano in precedenza esplorate: porre di fronte al “fatto compiuto” evitando pavidamente quelle che non sarebbero state polemiche infondate ma un confronto chiarificante e diretto con i predecessori, ne è la dimostrazione.

Agendo con questa “manifesta furberia” gli attrezzatori, arrivati molto tempo dopo una Storia già avvenuta, sperano forse di cancellarla prima ancora che venga scritta, come ben testimoniato dal bisogno di ri-denominare le strutture ed i tracciati.

La menzogna della mancanza di tracce

Gli attrezzatori scagionano la manifesta negatività del loro operato, sostenendo come su quelle rocce non vi siano o quasi tracce di passaggio ma omettono il fatto che su quel tipo di roccia levigata, compatta e uniforme, quando salirono trent’anni prima i predecessori usarono esclusivamente mezzi tecnici di protezione in sedi naturali, praticando l’arrampica libera esplorativa e lasciando testimonianze di passaggio esigue o nulle.

La mancanza di testimonianze, naturalmente non vale soltanto per la zona para-granitica in questione ma anche per quelle calcaree, laddove i chiodi di testimonianza sono invece difficilmente visibili perché, come già detto recentemente a proposito delle pareti soprastanti Calolziocorte. “i chiodi utilizzati scompaiono nella quantità dei numerosi itinerari compiuti”.

Bisognerà rassegnarsi al fatto che gli attrezzatori sono così lontani dall’arrampicata, da non sapere che salire in libera su roccia assai poco chiodabile, comporta l’uso di POCO MATERIALE e pochissimo abbandono in loco dello stesso?

Le inevitabili ripercussioni

Il punto di vista che muove azioni del genere, apparentemente frutto di una mentalità solo superficiale, implica invece gravi ripercussioni assai pericolose!

  • Indebolisce progressivamente la capacità critica degli individui, abituandoli all’idea che l’attrezzato ti preserva dai rischi e dai pericoli naturali, fino ad annientare la presa di coscienza che i rischi e i pericoli sono parte integrante e dunque inestirpabile, delle esperienze esistenziali come nella vita così sulle pareti.
  • Induce il pensiero comune a considerare che “attrezzare sistematicamente” gli Ecosistemi Verticali intatti, corrisponda a “valorizzarli”, mentre così facendo avviene l’esatto contrario!
  • Si trasformano “pareti sconosciute” percorribili con mezzi tecnici geo-compatibili, in “cantieri realizzativi” di tracciati degradati dalle difficoltà alterate e innaturali.
  • Cantieri preparati per richiamare i “salitori con spit” il più delle volte insensibili a tutto ciò che circonda il loro risalire da uno spit all’altro.

Il giogo di quest’utilizzo delle pareti non lo percepiscono, tanto sono sedotti dalla macabra illusione di farcela a passare!

Potranno mai essere affascinati dalla vitale soddisfazione di salire sulle caratteristiche di una roccia che è in un habitat naturale con altre sue caratteristiche, luoghi che vanno sfiorati e rispettati sempre consapevoli d’essere visitatori che passando lasciano esili tracce?

Perché tutto questo continua ad accadere?

A conclusione di tanti fatti ricorrenti simili a questo vien da chiedersi: ma non bastava dirlo prima? Non bastava chiedere cosa pensavano gli esploratori della loro iniziativa?

Si sarebbero evitate sia rettifiche storiche, sia l’inutile e dannoso degrado che dagli stessi attrezzatori dovrà essere necessariamente bonificato.

Sarebbe occorsa una certa dose di trasparenza onde evitare un intervento invasivo sistematico che sì annienta la Storia avvenuta, ma soprattutto produce inutili scempi ambientali.

Probabilmente i livelli d’incapacità differenti degli scalatori che si servono degli infissi, necessitano di livelli di capacità illusorie che diano la sensazione dì onnipotenza.

“Riuscire in un modo o nell’altro a salire sempre”: “la panacea di un graal parrocchiale” da proporre agli ignavi utenti coinvolgendo le loro ambizioni per utilizzarli in una vera e propria operazione di marketing non solo economico!

I nove comprensori del M. Berlinghera e Le Scogliere del Lago di Mezzola: ZONE NO-SPIT

L’intero versante che dalla sommità del monte Berlinghera scende a Dascio e si estende fino a San Fedelino, formato dai nove comprensori di: Albonico, Peschiera, Brentaletto, Dalco, Stabiello, Derschen, Prà dell’Oro, Cima delle Dune (Balzùn) e Berlinghera.

In questo versante a partire dal 1981 e fino al 1995 si è svolta una Storia Esplorativa vissuta da Ivan Guerini, Monica Mazzucchi, Massimo Casaletti, Carmelina Marziali, Danilo Zuliani, Paola Ravarelli, Carlo De Toma, Giorgio Gobbi, Tiziano Capitoli, Alba Preda, Renato Comin, Enzo La Torre, Andrea Maiocchi, Nicola Gambara, Paola Villa, Paolo Consoli, Paolo Orsenigo, Mariarosa dalle Piane, Berto Dossi, Ci, Mario Villa, Eugenia Campiotti, Christine Stevenege.

Dal 1982 al 1992 con Monica prendemmo in affitto una baita a Dascio e nel corso di tre lustri furono percorse 243 strutture rocciose con 147 itinerari in libera esplorativa, con un esiguo impiego di mezzi tecnici di protezione utilizzati in sedi naturali per rispettarne lo stato di compattezza, elemento sostanziale e preponderante di quelle ma anche di tutte le rocce.

Il numero degli itinerari (che raccorda più strutture) è notevolmente inferiore rispetto al numero di queste, perché su quella roccia uniforme e prettamente inchiodabile furono lasciate esigue tracce di passaggio.

Le Scogliere del Lago di Mezzola

Luogo a parte sono le incombenti Scogliere del Lago di Mezzola che vanno dal Sasso di Dascio alla Scogliera del Brentaletto, 33 strutture esplorate con 76 itinerari significativi dal 1980 al 1982 e 1988 assieme a Monica Mazzucchi, Daniele Faeti, Paola Ravarelli, Enzo La Torre, Tiziano Capitoli, Alba Preda, Omar e Danilo Zuliani, Carlo e Grazia De Toma, Massimo Casaletti, Carmelina Marziali, Piera Panatti, Nicola Giovenzana, Laura Poncia, Leonardo Tagliabue.

Addendum – Chi nutre dei dubbi sull’effettivo percorrimento di tutti gli itinerari in passato, consideri che esiste una documentazione originale di ciascuno di essi corredata da schizzi e trafiletti cronologici compilata negli anni delle prime ascensioni.

Carrambate col trapano

Carrambate col trapano

“Vigliacchi, fanatici, seguaci di Genserico“. Niente, fa già ridere così. Ma fa ancora più ridere pensare che le vie “moderne” esistano solo fintanto non le si ammassa come ferraglia nel sacco della rumenta: tolti fittoni e piastrine, semplicemente scompaiono. “Il a disparu!”. Una classica, invece, resta una classica anche quando schiodata di tutto, anche quando nessuno la ripete. Perchè oltre ad una linea ed ad una logica possiede una storia, forse persino un anima. In effetti è materia su cui riflettere.

Lo Spedone non appartiene all’Isola, ma la comunità alpinistica di Calolziocorte, fin dai tempi di Ruchin e Palferi, ha con noi un legame speciale ed una tradizione comune. Mi ero ripromesso di non commentare gli accadimenti alla “Fracia”, ma la quantità di ipocrisia ed irritante vittimismo che sta dilagando esige un riequilibrio nelle campane.

Cosa è successo? Una volta i pensionati si dedicavano all’orto o alla cura del bosco. Oggi, complice il viagra ed il trapano a batteria, gli si è alzato il grado: se un tempo si accontentavano di ritrovarsi tutti insieme ad osservare gli scavi del gas bevendo bianchini e campari, ora la “carrambata tra coscritti” la organizzano allestendo in verticale veri e propri cantieri edili. Questo, a grandi linee, è quello che è successo in Fracia. Poi qualcuno, forse stufo di quella scempiaggine pro-expo e delle altre vie ancora incomplete e penzolanti sulla parete, ha perso la pazienza ed ha “sbragato” giù tutto. «I ghè dès chè ghè la libertà». A furia di starnazzare sull’inviolabilità della propria “libertà di fare” era inevitabile che qualcuno iniziasse a ribadire la propria “libertà di disfare”: la legge dell’equilibrio, presto o tardi, domina ogni cosa.

Densità, prepotenza e mancanza di regole per la convivenza non portano certo all’idilliaca Anarchia di Thoreau: “Bisogna essere in due perché la verità nasca: uno per dirla e l’altro per ascoltarla.” (Disobbedienza civile –  di Henry David Thoreau). Io non sono il tipo che se la prende con quattro pezzi inanimati di metallo: io non demolisco le cose, io demolisco le persone. Schiodare non è il mio modo di agire ed i Corni ne sono diretta ed esplicita testimonianza. Tuttavia comprendo l’insofferenza che ha portato all’opera di pulizia sulla parete: i veri vandali, per molti, non sono coloro che hanno tolto gli spit, quanto piuttosto coloro che, nonostante tutti gli avvertimenti, hanno continuato – e continuano – a piantarli.

Ora che ignoranza e arroganza tintinnano insieme sul fondo di un sacco, ci si straccia le vesti e, come sempre solo “dopo”, si fa appello al dialogo. Tuttavia la “schiodata”, per quanto sia ignota nella mano, non è un fulmine a ciel sereno, ma la diretta – e per certi versi forse inevitabile – conseguenza di un malcontento troppo a lungo presuntuosamente inascoltato (…e che si sta diffondendo su tutto l’arco alpino in modo sempre più rilevante).

In tal senso i giornali hanno riferimento ad una lettera di Ivan Guerini inviata al CAI di Calolzio. Non ero a conoscenza di questo suo scritto e così ho contattato il “vecchiaccio” per poterlo leggere: ritengo che, in modo inaspettatamente succinto per un autore spesso spaventosamente prolisso, racconti chiaramente l’altra medaglia della faccenda. Credo che questo scritto offra significativi spunti di riflessione sull’accaduto.

Davide “Birillo” Valsecchi


LE PARETI DEL COMPRENSORIO VERCURAGO-CARENNO: ZONE-NO SPIT. Documento Etico – Ivan Guerini – La Pala dello Spedone è la parete trapezoidale che sovrasta l’abitato di Calolziocorte, visibilissima da differenti punti della pianura lombarda e caratterizzata al centro da un’impressionante fiamma gialla di calcare ammonitico ossidato. Si tratta di una sagoma geologica rilevante per gli abitanti della zona, sia come riferimento visivo onnipresente, che da sempre “fa parte” della loro vita vegliando sulla vita e la morte delle generazioni d’individui che attorno ad essa si sono succeduti, sia per l’attività delle generazioni di scalatori che su quella parete si sono espressi al meglio delle loro capacità – eticamente corrette – nella loro epoca. Il termine arcaico tramandato che la denomina “Fracia”, tradotto, verosimilmente significa “fragile” a indicare una natura rocciosa internamente morbida ma rimasta indenne per il fatto di non essere soggetta a frane clamorose, quelle che forse l’hanno riguardata in epoche remote e pertanto a memoria d’uomo non sono a oggi ricordate.

L’eredità culturale dei Calolziesi. Nel 2008 conobbi lo scalatore calolziese Alfredo Papini, memoria storica di tutte le salite compiute sulle montagne della zona, che mi fornì numerose informazioni incoraggiandomi a riprenderne l’esplorazione, invitandomi a scrivere il libro che sto facendo. Quel suo entusiasmo mi incuriosì al punto da considerare la possibilità di salire su quelle pareti che viste da lontano non hanno proprio un bell’aspetto per la particolare tipologia di roccia calcarea che le costituisce. Preso atto del tipo di roccia con cui si aveva a che fare, mi riservai di descrivere pubblicamente gli itinerari a tempo debito per ben spiegare “in che modo” è opportuno recarsi su quelle pareti. Alfredo Papini riteneva che “su tutte” quelle pareti gli infissi non avrebbero MAI dovuto essere piazzati, non solo sugli itinerari Storici ma dovunque, proprio per lasciare intatte le capacità psicofisiche e le possibilità esplorative delle generazioni future degli arrampicatori.

Il caso dello Spedone (Fracia) increscioso accaduto. Purtroppo proprio su questa Storica parete, che rappresenta un vero e proprio emblema della “memoria Storica” delle gesta arrampicatorie dei Lecchesi e soprattutto Calolziesi, sono successi fatti particolarmente incresciosi. Nel 2015 sono comparsi gli spit, proprio su questa parete storica delle prealpi che ne era ancora priva, addirittura coloro che li hanno posizionati hanno creduto bene di togliere parte dei chiodi inseriti dagli scalatori che avevano aperto decenni prima vie Storiche! Questi primi attrezzatori pare abbiano giustificato il loro operato col fatto di essere saliti nell’unico punto saldo e quindi sicuro della parete, ridicolizzandone pubblicamente la “fama di instabilità” da sempre ad essa attribuita. Recentemente sono stati costruiti con trapano e spit altri due tracciati di arrampicata vincolata da infissi permanenti che costeggiano e addirittura intersecano varianti di un itinerario pre esistente, realizzato nei primi anni ’70 con un numero esiguo di chiodi. Questi antefatti portano a chiedersi come sia possibile considerare tali interventi “valorizzativi” dal momento che comportano ripercussioni negative nella Storia e nella natura delle pareti. Chi non concorda potrebbe dire: “Che danno potrebbe mai fare un banale tracciato a infissi permanenti su una parete che ha milioni di anni?”. Già, tutti sappiamo che un’era geologica ha un “tempo di esistenza” sconfinato rispetto alla vita dell’uomo, ma il punto cruciale della questione riguarda il punto di vista dell’ecosistema verticale da parte di chi lo trasforma sistematicamente da intatto a sistematicamente attrezzato, convinto che sia valorizzazione e non distruzione. Si tratta di un modo di agire indiscutibilmente negativo. Perché non chiedersi come questo modo di intervenire impedisca al “punto di vista” delle generazioni presenti e future di considerare obbiettivamente come sia meglio agire in modo eticamente corretto? Evidentemente sono in molti a non capire che un utilizzo invasivo deturpa: l’ambiente naturale, la memoria Storica degli itinerari preesistenti e le possibilità future in essi possibili.

Le insidie della Fracia. Chi ha arrampicato sulla Pala dello Spedone e dintorni sa che a parte le lastre sospese e i macigni in bilico presenti nei settori gialli e rossi ammonitici, anche arrampicando nei settori di roccia grigia si sale su selci affioranti grandi e piccole che si possono spezzare all’improvviso, a riprova della fama della Fracia! In relazione alla costituzione di questo tipo di roccia, c’è anche da considerare se le vibrazioni provocate da un attrezzare sistematico non possano comportare sollecitazioni alle formazioni franose che esteriormente “non si vedono” e non necessariamente si staccano al momento, ma possono staccarsi all’improvviso in un secondo tempo, in qualsiasi momento. Tutto questo, può mettere a repentaglio l’incolumità di tutti quelli che vi si recheranno dopo nonostante la sicurezza che gli infissi di qualsiasi tipo paiono rappresentare.

Le reazioni a quella procedura distruttiva. Sospettando che si tratti dell’avvisaglia di un “progetto invasivo sistematico” di vaste proporzioni, la comunità degli scalatori Calolziesi è rimasta inorridita. Ci sono state immediatamente reazioni di dissenso, sostanzialmente concordi che atti di quel tipo non possono in nessun modo essere ignorati o giustificati e i loro punti di vista differiscono solo sul rimedio da porvi. Taluni sostengono che i tracciati a infissi vadano immediatamente rimossi mentre altri che debbano essere resi inagibili ma lasciati, come monito della testimonianza di coloro che si arrogano il diritto di compiere realizzazioni eticamente discutibili e ambientalmente deplorevoli, magari anche per un proprio tornaconto, ignorando (volutamente o meno) la storia precedente del sito. Non soltanto si dissociano dall’antefatto, ma si oppongono fermamente a ogni tipologia di procedura atta ad approvare (con o senza finanziamenti) ogni intervento invasivo che in futuro potrebbe riguardare non solo la Fracia ma TUTTE le pareti del comprensorio calolziese.

LE PARETI DEL COMPRENSORIO VERCURAGO-CARENNO: ZONE-NO SPIT. Da quel lontano 2008 furono in tanti gli scalatori Calolziesi che contribuirono personalmente e di tasca loro a realizzare la ripresa esplorativa di queste zone fornendomi chiodi vecchissimi e nuovi da lasciare con parsimonia, solo dove strettamente necessario e come testimonianza Storica su quelle pareti. Sempre ringrazierò Mario Burini, Alfredo Papini, Carlo Longhi, Sergio Butti, Alberto Montanelli, Giancarlo Bolis, il varesino Giovanni Rossi e i milanesi Felice Boselli e Paolo Consoli. Al partire dal 2010, principalmente assieme al cisanese Giancarlo Bolis e altri amici ho iniziato a esplorare sistematicamente le pareti facenti parte della zona compresa tra: Vercurago – San Girolamo – Mudarga – Valle di Gallaveso – Saina – Erve – Pala dello Spedone – Oneta – Erola fino all’abitato di Carenno, percorrendo in arrampicata libera esplorativa 80 itinerari a friends e con pochissimi chiodi. Così quei chiodi difficilmente visibili scomparvero nella quantità dei numerosi itinerari compiuti su quelle pareti.


Aggiungo, per completare qui su Cima tutte le informazioni, anche i link agli articoli pubblicati su LeccoNotizie e LaProvincia:


Aggiornamento 7 Febbraio 2019: Paolo Consoli, fidato compagno di cordata di Ivan Guerini, dopo la pubblicazione di questo articolo mi ha inviato una sua testimonianza dell’attività svolta sulle pareti di CalolzioCorte. La riporto qui, estendendo l’invito anche a tutti coloro che vogliono raccontare le proprie esperienze “senza trapano” su queste pareti.

IL SOGNO A OCCHI APERTI DELLA SCALATA ESPLORATIVA – Paolo Consoli – 3 febbraio 2019 A Natale, complice un periodo prolungato di bel tempo e di temperature accettabili, abbiamo passato diversi giorni – Ivan Guerini ed io – ad arrampicare sulle rocce poste giusto sotto la Cappelletta del Corno, in vista della vicinissima Pala dello Spedone, la storica parete di Calolziocorte. Sono piccole, affascinanti pareti protette da una vegetazione tenace e da partenze strapiombanti, dove abbiamo tracciato – Ivan da primo di cordata – poco più di una quindicina di vie, lunghe da 10 a 60 mt. e di difficoltà molto varie, dal III all’VIII. Tutte, al solito e rigorosamente, con protezioni tradizionali – da cordini a chiodi – seguendo fessure strapiombanti, vincendo difficili muri grazie a selci a volte amichevoli, altre volte traditrici, e raggiungendo infine gli alberi di calata e, in un caso, la staccionata della Cappelletta. Tutto questo in cinque giorni, quasi consecutivi, durante i quali la stretta strada che sale da Calolziocorte a Erve mi era diventata tanto familiare, da farmi riconoscere – visto che l’ora era quasi sempre la stessa – il punto in cui sarebbe arrivato il sole che avrebbe illuminato il paesaggio all’improvviso, mentre Ivan mi spiegava con dovizia di particolari le tantissime vie aperte in zona e i progetti che mi avrebbero immancabilmente coinvolto. Una promessa e, forse, una minaccia! Mi è capitato spesso, in trent’anni di salite con Ivan, di esplorare, in modo continuativo zone – nelle Alpi e nelle Prealpi – che finivano per rilevare segreti, come un dono a tanta perseveranza (che noi, scherzando, definivamo piuttosto come pura ottusità): e, insieme, rivelavano nuove prospettive, nuove visuali di paesaggi conosciutissimi, che variavano con la luce, con i profumi delle stagioni. Così come, le rare volte in cui siamo tornati dopo anni in quelle zone, era con emozione che riconoscevo luoghi, rammentavo particolari che credevo dimenticati, risvegliati con un brivido e, spesso, con un filo di malinconia. La stessa malinconia che accompagnava la conclusione dell’esplorazione di una zona, quando le vie logiche più naturali erano state salite, e si tornava per l’ultima volta con la convinzione che non saremmo più tornati e, che se ciò fosse accaduto, non sarebbe stata più la stessa cosa. Ne abbiamo parlato anche quando, uno degli ultimi giorni dell’anno, stavamo percorrendo per l’ultima (?) volta il sentierino che, dalla Cappelletta riporta ad Erve: ero rilassato, stanco, mentre davanti a me il sole illuminava il Resegone – con quella visuale nascosta a chi lo vede abitualmente dai Piani d’Erna, o dalla pianura. Contrastava, quell’immagine infuocata dell’ultimo sole, con il freddo umido che saliva dai boschi ripidissimi, sopra e sotto di noi, verso la strada che porta a Calolziocorte. Nella mia mente, ora, si confondevano gli itinerari di quei giorni, le vie che tentavo di mettere in ordine: dalle più brevi e difficili, boulder che portavano a pilastri verticali che si esaurivano in boschi non meno ripidi, a pochi passi dal sentiero, alle più lunghe: placche articolate, in parte sepolte da una vegetazione arrabbiata, muri bianchi solcati da selci, fessure e diedrini interrotti da alberelli fortissimi, oppure morti. Così, pian piano, prendeva forma la struttura di quelle pareti così piccole e complesse, illusorie nella lunghezza degli itinerari, come della loro reale pendenza. Rimanevano, indelebili, i flash dei passaggi più azzardati, delle partenze difficili, dei traversi delicati su vene di selci, tanto belle a vedersi quanto ingannevoli; e quel senso di incertezza che derivava dalla costante attenzione al singolo appiglio che caratterizza l’apertura di una via, anche per un secondo di cordata. Una particolare sensibilità che – avevo capito negli anni – si consolida nel tempo, si sviluppa e si affina al massimo grado nell’apertura di itinerari, alla ricerca delle linee di salita naturali. Così, mentre da solo risalivo il sentierino che porta alla Cappelletta, riflettevo, per l’ennesima volta, sull’”onestà” di quel modo di salire, verso la montagna e verso se stessi, perché rispettava i limiti di entrambi. E mentre risalivo il sentiero che portava alla Cappella, passavo accanto alle vie percorse, ai pochissimi cordini che rammentavano i passaggi più duri, o semplicemente più belli, finché il mio sguardo cadde sulla Pala dello Spedone, che in quel momento mi pareva mutare di colore, all’imbrunire.

Granito e Dignità

Granito e Dignità

“Dopo una cosa così come si fa a farsi bastare la falesia!?” Appeso alle roccette, in equilibrio sul paglione, le parole cariche di entusiasmo di Ruggero mi strappano un sorriso. “Andando sempre e solo in falesia si rischia di dimenticare che tutto è cominciato per questo!” Il mio compagno d’avventura guarda rapito i salti di roccia che ancora ci separano dalla cresta: sono ormai quattro ore che arrampichiamo e giochiamo andando a zonzo per la valle Due Pile. Stamattina, dopo aver bevuto un caffè in cucina, abbiamo semplicemente attraversato la strada ed iniziato ad arrampicare a due passi da casa. La Valle Due Pile Inferiore, il tratto al di sotto del traverso che collega Sambrosera al Forcellina, è un tripudio di “aliene rocce dure” giunte qui dalle montagne lontane, trasportate con infinita pazienza dal ghiacciaio in un tempo remoto. La valle, oltre alle cascate ed ai salti rocciosi di calcare, offre graniti di ogni tipo e dimensione su cui sbizzarrirsi sboulderando.

Nonostante mi senta decisamente meglio è ancora presto perché io possa tornare “a giocare da solo”, così il buon Ruggero – nuovo membro della ciurma dei Tassi – mi fa da balia nelle mie scorribande. La cosa divertente, ed allo stesso tempo curiosa, è che con lui sono riuscito a chiudere tutti quei passaggi che da solo, anche quando ero in piena forma, non ero riuscito a superare. Sembra incredibile ma, quando si arrampica da soli e slegati, è la testa il vero motore e la semplice compagnia di un amico alleggerisce ogni difficoltà, rendendo un gioco anche i passaggi più impegnativi o quelli potenzialmente più traumatici.

Risalti fino alla cascata del grande sasso, guadagnato il sentiero con una nuova variante sulla sinistra, ci siamo infilati nella Due Pile Alta, raggiungendo il Pilastro Charlie Patton e le altre strutture iniziali. In quel punto la Due Pile si biforca in due rami, quello occidentale che sale fino alla Bocchetta di Sambrosera, quello orientale che, ostruito a metà da un grosso masso, risale fino all’uscita in cresta del sentiero Paolo ed Eliana. Sui lati di entrambi i rami della valle si innalzano creste, guglie e quinte che contengono gli “spazi alti” sotto l’Anticima del Moregallo. La geografia di questa zona è un dedalo di roccia e paglione, spesso di difficile lettura e comprensione.

Il lato occidentale, per quanto molto poco frequentato, è quasi completamente visibile anche dal sentiero che da Sambrosera porta all’omonima bocchetta. Il lato orientale è invece nascosto e per questo denso di segreti. Risalendo dalla forcellina avevo percorso tutta la cresta sommitale – una piccola avventura di qualche anno fa – ma non avevo mai risalito il fondo della valle: dal basso non sono state poche le interessanti scoperte fatte.

“Ha ragione Josef, tu hai uno strano fiuto per questi posti”. Finalmente sul sentiero ci siamo riposati al sole riflettendo su quanto avevamo avuto modo di osservare. “Beh, a furia di infilarmi nei guai da solo ho imparato a leggere i segni, la forma delle rocce o le tracce dei mufloni: sono quest’ultimi i veri custodi dei segreti più nascosti. Ma non credere: anche loro sbagliano e le ossa nella valle non fanno che ricordacelo”. In effetti sono il figlio di un cacciatore ed è grazie al mio addestramento giovanile sulle Alpi Carniche, insieme a cani e cagnari, che ho imparato a cogliere – così come fanno gli animali selvatici – i passaggi nascosti che sinuosamente creano linee “possibili” tra rocce, guglie e pareti.

Ognuno ha il suo, e per ora il mio compito è trovare quelle gemme nascoste, gemme che gli arrampicatori più forti di me sapranno cogliere con sincerità ed onestà. Questo è il mio dono, il mio talento e, lo confesso, anche il mio divertimento preferito.

Davide Birillo Valsecchi

Pilastro Charlie Patton

Pilastro Charlie Patton

La valle due Pile è ben visibile e riconoscibile nel versante sud del Moregallo, è costellata di guglie e pilastri, un dedalo di rocce e paglione che offre alti torrioni così come modeste strutture. In questa valle, da alcuni anni, i Tassi del Moregallo conducono i propri “esercizi d’alpinismo”. La valle, dal punto di vista dell’arrampicata, è stata per lo più trascurata in passato. Nella parte alta, sull’anticima Nord Est del Moregallo, sono state tracciate due vie alpinistiche importanti, la GF OSA e la Giulietto Soccol. Lungo la valle, che offre invece solo strutture di altezza più ridotte, sono stati riscoperti solo tentativi e vie dimenticate, tra queste la più rappresentativa è “Biba e PoniPoni”. Negli ultimi anni, come si è detto, la valle è stata riscoperta diventando un vero e proprio “laboratorio”, uno spazio incontaminato dove poter sperimentare l’arrampicata senza l’uso del trapano. Dopo i primi – a volte imbarazzanti – esperimenti, tra cui va ricordato lo “Scoglio d’Arianna”, si sono susseguite un buon numero di vie e monotiri via via sempre più estetici ed impegnativi. “Birillo’s Crack”, “Indietro non si torna”, “La via del Teo”, “Mozzo Fantasma”, “Movimento Yogico” sono solo alcune delle vie più note e significative. Tutte aperte dal basso, senza l’uso del trapano e lasciando in parete quasi nessun chiodo. Francamente sono ormai tre anni che studio la valle e credo sia un’inesauribile fonte di ispirazione: la semplice esplorazione di quegli spazi verticali, spesso complessi e labirintici, è per me appagante ed avvincente.

Purtroppo un furioso incendio nella valle, nel gennaio del 2017, aveva spazzato la vegetazione rendendo il terreno friabile e franoso. Lo scenario dopo le fiamme era assolutamente sconsolante ed anche questo aspetto, oltre alle pericolosità degli zoccoli d’accesso alle pareti, ha decisamente rallentato tanto l’esplorazione quanto l’arrampicata. Fortunatamente la natura ha una forza inesauribile ed i segni delle fiamme sono ormai vinti dalla vegetazione. Il temibile paglione, che tanto rende difficoltoso l’avvicinamento, contiene e trattiene la friabilità del terreno. Le piante, da sempre ancoraggio prediletto, sono nuovamente solide nelle proprie radici. La valle è nuovamente viva, rinata come una fenice della distesa di cenere che l’avevano avvolta.

Nel centro della Valle Due Pile, poco a monte del sentiero che collega Sambrosera alla Forcellina, è chiaramente visibile un monolite dalla forma di rombo. Con Gaetano, un mesetto fa, ero salito – senza equipaggiamento – fino alla base per un ultimo sopralluogo. Il lato occidentale del monolite offriva una possibilità di salita, ma la difficoltà era chiaramente ben oltre le nostre capacità. Così, nonostante le distanze, abbiamo inviato le fotografie ad uno dei protagonisti della valle: Josef. Al suo rientro in Italia ci siamo ritrovati tutti insieme per tentare la salita. Giunti alla base Josef, guardando la parete, ha sgnignazzato divertito: “Birillo, mi hai fregato un’altra volta: la linea è bellissima, tremendamente estetica… ma è assolutamente più difficile di quanto apparisse nelle tue foto!!”. Una delle peculiarità del Moregallo è che “non regala nulla”, spesso infatti la percezione appare distorta, quello che si percepisce come verticale si dimostra in realtà strapiombante. Quello che sembrava fattibile, assolutamente terrificante. Tuttavia questo è parte del fascino del Moregallo, il vero motivo per cui tutte queste strutture, all’apparenza così simili ai torrioni della Grignetta, sono spesso temuti ed ingiustamente sminuiti. Purtroppo, o per fortuna, senza l’uso del trapano ogni salita diventa così significativa e complessa.

Come sempre Josef ha dato prova di grande maestria superando, non senza sforzo, l’aggettante diedro a strapiombo. Io, che sono in buona misura ancora malato, gli ho fatto sicura ma la prima risalita da secondo, per noi condizione fondamentale perchè una via diventi tali, è stata compiuta da Ruggero, un ragazzo talentuoso ma alla sua prima esperienza con questo tipo di arrampicata. Ruggero subito alla partenza ha fatto saltare prima una presa e poi un chiodo ma, dopo due balte, ha subito compreso cosa significhi non arrampicare in falesia: benvenuto al Moregallo, benvenuto nei Tassi!

Il monolite, gendarme silenzioso a guardia della valle, è stato battezzato “Pilastro Charlie Patton”. Un omaggio al Generale di Ferro, George “Old Blood and Guts” Patton, che guidando con straordinario carisma la Terza Armata ha sbaragliato i nazisti tanto in Africa quanto in Europa. Ma anche un omaggio ed un ricordo a Giovanni  “Charlie” Giarletta, vice capo stazione della Stazione Grigne del Soccorso Alpino di Lecco, un alpinista degno di conquistare la vetta del Cerro Torre lungo la Via dei Ragni e sfortunatamente travolto da una slavina sulla sua amata Grignetta. Si spera che il Pilastro, con l’aiuto di due simili padrini, custodisca la valle e vegli su coloro che vi si avventureranno in cerca di un alpinismo forse minore ma profondo ed autentico.

La via, tutt’altro che docile, è stata chiamata “Il carattere del Generale”. Un monotiro di 25 metri con un passaggio centrale ed obbligato di VII+. In parete, in via del tutto eccezionale, sono stati lasciati due chiodi. La sosta va attrezzata.

Davide “Birillo” Valsecchi

2018 Discorso alla Nazione

2018 Discorso alla Nazione

Il 2018 è stato un’anno decisamente “peculiare”. Innanzitutto è nata la piccola Andrea, che ha rivoluzionato ogni cosa, ed in secondo luogo, mai come quest’anno, mi sono sentito “debole”. Tuttavia, tirando le somme, pare invece sia stato adeguatamente “forte” da raggiungere, nonostante le difficoltà, ogni obbiettivo prefisso. Un piccolo paradosso: troppo debole per vincere, troppo forte per perdere. Più o meno da Giugno sono stato particolarmente malato: mi hanno fatto prelievi del sangue, ecografie ed analisi per comprendere come mai la mia carcassa, ed in particolare il mio fegato, non volesse più funzionare come si deve. Ritrovarsi con il fiatone e le vertigini semplicemente risalendo una scala era piuttosto inquietante per uno come me, specie con tutta la nuova serie di responsabilità da sostenere.

Le cose ora si stanno risolvendo, anzi, sto tornando in forma con una consapevolezza nuova. Tuttavia ritrovarsi “fragili” ha favorito lo sviluppo di nuove “solidità”. Come disse qualcuno: “non c’è limite all’efficienza di una volontà determinata”. Non importa se conquisti la collina strisciando, l’importante è conquistare la collina.

In tutto questo marasma sono stato decisamente assente nel mio ruolo di Nostromo: i Tassi, al contrario, non solo hanno saputo gestirsi in autonomia ma hanno saputo essermi vicino senza essere invadenti. Il tasso, a quanto pare, gode davvero di un’innata indole sociale e di uno straordinario spirito di gruppo.

Finalmente, con la dovuta cautela, ho ripreso anche ad arrampicare: a stimolarmi è stato soprattutto l’arrivo di nuovi e promettenti membri nel nostro piccolo gruppo. Così, dopo qualche giro di “Elvis” sulla nostalgica paretina di Scarenna, è stato il momento di tornare finalmente sul Moregallo.

“Nessuno ha mai difeso qualcosa con successo: si può solo attaccare, attaccare ed attaccare ancora.” Questa celebre massima del Generale George William Patton, che ha saputo spronarmi nei momenti difficili, mi ha spinto a dedicargli un Pilastro nella valle Due Pile. Volevo però ricordare anche un amico caduto in Grigna a cui, senza rendermene conto, ho fatto una promessa importante. Una promessa che il destino mi ha risbattuto in faccia nel modo più inaspettato. Ecco perchè un monolito del Moregallo, gendarme di una valle di guglie e pinnacoli, porta ora il nome di Pilastro Charlie Patton.

Bisognava però apporvi un sigillo, tracciarvi una via, una linea elegante, classica e senza trapano. Per riuscirci ho dovuto fare appello alla maestria di Josef che, rientrando dalla Germania, si è lanciato sulla roccia affidandosi solo alle mille fotografie che gli avevo inviato in questi mesi.

“Probabilmente la linea più tecnica che abbiamo fino ad ora aperto al Moregallo. Il passaggio sotto lo strapiombo assomiglia a quello della Taveggia …solo che qui è ancora a friend e chiodi”. Josef è stato allievo di Nardella e questo piccolo paragone è stato per me il coronamento di una via su un pilastro forse piccolo ma carico di significati, non solo alpinistici: Via “Il Carattere del Generale” – Josef Prina, Ruggero Riva – VII+ obbligato, 25 metri – quattro chiodi in parete.

Dopo aver tracciato una nuova via, il giorno seguente, abbiamo potuto dedicarci alle cose più leggere e la nostra ciurmaglia, alpinisticamente imbarazzante in certe manifestazioni, si è la lanciata sulla Crestina G.G. OSA in una giornata di vento invernale. C’erano Tassi sparsi un po’ ovunque, sulla cresta, nei canali. Qualcuno in libera, qualcuno ingarbugliato nelle corde o appeso alle piante. Il nostromo, con una ritrovata esuberanza, si è lanciato sul paglione al grido di “Variante Verde” trascinandosi dietro il povero Luca tra sassi e sfasciumi. Alla fine, tutti in cima, abbiamo potuto finalmente brindare al cospetto delle nostre montagne.

I Tassi del Moregallo sono troppo deboli per vincere, troppo forti per perdere.
Mi piace la ciurmaglia di cui faccio parte! Buon anno!!

Davide “Birillo” Valsecchi

(Allarga video)

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