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#2 Rendi Estremo il Banale

#2 Rendi Estremo il Banale

Boris è venuto a trovarci e quindi insieme a Bruna e Francesco siamo andati a Sormano a mangiare in pizzeria. «Forza, raccontatemi! Com’è allenarsi con Ivan Guerini?!» Il giorno prima abbiamo infatti incontrato Ivan alla Montagnetta di San Siro ed insieme abbiamo trascorso la giornata esercitandoci.

«E’ davvero un fuoriclasse!» inizia a raccontare Francesco «Io studio musica all’accademia e passo le mie giornate in mezzo a gente che sbanfa su quello che fa. Lui invece è come uno di quegli artisti che sono in grado di fare cose pazzesche, ma che riescono comunque ad entusiasmarsi anche per quelle quattro piccole cose che un principiante riesce a fare.» Infilandomi in bocca una fetta di pizza ascolto interessato il suo racconto. «Abbiamo parlato un po’ anche della scuola e mi ha stupito dicendomi che è importante imparare a relazionarsi con le persone, non con il loro ruolo».

Anche Bruna inizia a raccontare «E’ generoso, davvero tanto umile ed attento alle persone. lo vedi dalle piccole cose, dai dettagli. Ci aveva portato delle noci ed ha voluto regalarmi il suo storico zainetto. Piccoli gesti ma carichi di valore. Quando parla è un fiume in piena, ma riesce sempre a metterti a tuo agio dandoti un sacco di rinforzi positivi. Rende i tuoi limiti un’opportunità senza mai chiederti di spingerti oltre. Questo rende gratificante ogni piccola conquista».

Poi Bruna scoppia a ridere «Quando Davide ed Ivan parlano insieme si capisce al volo che sono due sociopatici immersi ognuno in un proprio universo. Non discutono tra loro: semplicemente intersecano il proprio pensiero. Da fuori a volte il loro discorso sembra assolutamente incomprensibile eppure, a quanto pare, loro si capisco benissimo, anzi, sembra che uno continui a stimolare l’altro».

Con una grossa sorsata cerco di nascondere il mezzo sorriso compiaciuto che mi è spuntato sulle labbra. Poi Boris fa l’unica domanda a cui non c’è risposta: «Ma vi racconta mai della Val di Mello?». Per un attimo tutti restano in silenzio, poi parte Bruna «Ivan parla di un sacco di cose ma quando parla della Valle parla di sua Nonna, dei suoi amici pastori e dei loro figli che arrampicavano scalzi con lui. Non parla quasi mai dell’arrampicata».

Per un istante una frase di un film scivola tra i miei pensieri “Noi samurai siamo come il vento che passa veloce sulla terra, ma la terra rimane e appartiene ai contadini.” Quando Ivan vuole farmi un complimento mi chiama “Divids”: mi ha infatti raccontato che quello era l’imperativo affettuoso con cui Nonno Giovanni Baraiolo reguardiva Davide, il più piccolo dei bambini della Val di Mello, quando insieme ai fratelli inseguivano scalzi le cordate di alpinisti atterriti alle soste.

Credo sia la nostra genuina ingenuità a renderci simpatici ad Ivan. Credo anche che sia il nostro essere estranei al mondo dell’arrampicata ciò che ci permette, come probabilmente è avvenuto per i “Melat”, di comprendere e gioire degli insegnamenti e delle sue idee.

Poi mi mio fratello dice qualcosa di assolutamente divertente ed azzeccato «E’ come suonare con Dave Grohl dei Foo Fighter, non puoi metterti a fargli domande sui Nirvana!!» Per un secondo mi sbilancio e lascio che i pensieri diventino parole: «Tempo fa hanno realizzato un film, Patabang, che vuole essere il manifesto della Val di Mello. Visto che il film ha vinto un sacco di premi ed è stato acclamato da tutti, Keko ed io siamo andati a vederlo in biblioteca. Quel film descrive la valle di Mello come il centro di una rivoluzione tanto culturale quanto alpinistica. Curiosamente tutto il racconto ruota attorno ad Ivan ed alle sue salite ma lui non compare mai, riesce ad essere il protagonista della storia senza mai essere presente. La cosa mi aveva piuttosto stupito ma dopo aver conosciuto Ivan di persona ho capito che quel film è una colossale vaccata, spaccia per autentica una filosofia che probabilmente è in assoluta antitesi con la visione di Ivan. Alle origini del mito della Val di Mello c’è una meravigliosa storia d’amore tra due persone immerse nella natura, qualcosa di troppo banale per competere con una sbanfata intrisa di falso eroismo, ribellione e magnesite.» Bruna e Keko non sono mai stati in Val di Mello ma mi guardano annuendo, Boris invece mi fissa stupito in silenzio. Sorrido: «Non ti preoccupare,Boris, ti farò conoscere Monica e comprenderai ogni cosa.»

In un’epoca in cui si è abituati a banalizzare l’estremo abbiamo “giocato” in un parco urbano con Ivan seguendo il secondo dei suoi consigli: «rendete estremo il banale». Appesi a testa in giù a qualche improbabile appiglio non abbiamo arrampicato, abbiamo esplorato le capacità del nostro corpo, la flessibilità dei nostri pensieri e la solidità delle nostre emozioni. In fondo cosa c’è di più estremo e banale di un istante trascorso in equilibrio con un buon amico, con una donna di cui sei innamorato, con uno dei tuoi fratelli?

Davide “Birillo” Valsecchi

Nella valle proibita

Nella valle proibita

DSCF4769«A detta degli apritori la via volle essere un invito a raggiungere, per tutti i frequentatori della valle, un felice equilibrio con la natura, libero da qualsiasi desiderio eroico, competitivo e di conquista». Questa nota è stata aggiunta dei Sass Baloss alla loro relazione della via “Alba del Nirvana”, aperta da Ivan Guerini e Patrizius Gossemberg nel 1976. Aprire una nuova via con Ivan significa soprattutto comprendere quanto quella frase rappresenti il suo modo di interpretare l’arrampicata e, onestamente, è davvero un grande privilegio!

Dove abbiamo aperto una nuova via? Questa è la parte più divertente: è un segreto! Già, seguendo Ivan e Paolo mi sono addentrato in una valle nuova, in cui non ero mai stato sebbene sia a due passi da Lecco. «Vedi, Davide, in quattro generazioni solo quattro cordate hanno aperto vie qui.» Ivan snocciola qualche nome e per un istante non mi pare vero essere entrato a far parte di quella piccola cerchia. «Per ora non dobbiamo raccontare dove sono queste pareti: non per gelosia ma per proteggerle fino a quando non sarà il momento giusto».

Mi guardo intorno osservando la roccia e quelle pareti che svettano più alte persino del Medale. «Ma non vorrai salire su quella bestia, spero?!» Chiedo un po’ preoccupato. Ivan e Paolo risalgono attraverso il bosco, si fermano, ridono e puntano il dito verso due grandi torrioni gemelli che si alzano sopra le piante: «Oggi saliamo quello di sinistra, magari la prossima volta facciamo la traversata dei due pilastri lungo la cresta».

Quando arriviamo alla base della parete i miei timori scompaiono. La roccia, sebbene a tratti fragile, è bellissima e tre grosse piante segnano la linea logica per il primo lungo tiro. «Che spettacolo!» Ivan parte da primo, si alza leggero ed elegante come sempre esplorando quella roccia vergine: protezioni lunghissime, friend e fettucce, mentre sale seguendo la sinuosità delle fessure.

Poi Ivan dice con leggerezza qualcosa di assolutamente esplosivo: «Che bella roccia! Sembra di essere tornati ai bei tempi dell’AntiMedale!». Forse nemmeno se rende conto dell’effetto di quella frase su di me. «Sto davvero aprendo una nuova via con Guerini su un’antimedale vergine? Davvero? Proprio io?».

Ivan, dopo 50 metri di corda, arriva in sosta appollaindosi tra i rami di un albero. Parto, ascolto i piedi, sento le dita ed inizio davvero a “vedere” la roccia. La corda piega a sinistra e per questo prendo una fessura parallela a quella di Ivan gustando tutta la libertà di arrampicare in quel modo. Rimonto un piccolo spalto e traverso di nuovo da sinistra a destra. Mi abbasso spacco con le gambe verso sinistra cercando solo prese solide. Leggero aggiro i tratti instabili e mi alzo. «Lo vedi che sei bravo!» Mi dice Ivan «Cerchi le prese più difficili ma solide» Rido divertito, la mano sinistra è ancorata con le falangi ad una piccola presa diagonale che mi riempie di soddisfazione mentre sposto il peso del bacino. «Le sole prese buone sono quelle che reggono» Sghignazzo di rimando.

DSCF4767Quando raggiungo Ivan è sdraiato su un ramo, sormione e divertito, come lo “stregatto”. Lo scavalco e mi siedo su un piccolo terrazzino. Anche Paolo inzia a salire mentre Ivan, sempre sdraiato a sbalzo nel vuoto, lo assicura con tranquillità ad un ramo.

Paolo ci raggiunge e tutti insieme restiamo sdraiati al sole godendoci il panorama. «La Valle Proibita? Sai che mi piace, Davide. Mi piace perchè, per contrasto, rende l’idea di come sia invece assolutamente libera»

Qualcosa da un po’ di tempo si agita nei pensieri di Ivan. Il momento storico è decisivo, anche più di quando scrisse “Dalla parte delle Pareti”. Sente l’obbligo di parlar chiaro, di raccontare a tutti come la “filosofia” originale dell’arrampicata libera rischi di essere soverchiata dall’invadenza dell’arrampicata sportiva, del trapano e del gesto atletico fino a se stesso. «Il futuro di questa valle deve essere diverso».

Ivan esplora le possibilità per il tiro successivo e poi attacca un diedro sulla destra:«Di qui è un po’ più difficile ma è davvero bello». Piano piano si alza mentre Paolo sorride «Scoprirai con il tempo che Ivan ha una sfrenata passione per i diedri». Osservarlo arrampicare è un piacere: si alza, si ferma, incrocia le braccia prendendo un friend dall’imbrago, lo piazza, rinvia e riparte. A guardarlo sembra una cosa semplice, un gesto squisitamente spontaneo.

Supera il diedro, riemerge alla sua sinistra e chiude il tiro di 20 metri su una pianta. Tocca a me, entro nel dietro ma la roccia al suo centro è “sconsigliabile”. Mi distendo, lavoro di opposizione ed in spaccata mi metto in equilibrio sui suoi bordi. Mi alzo, guadagno qualcosa ad ogni passaggio. Una piccola fiamma di roccia traballa instabile «Davide, toglila di mezzo». Provo a rimuoverla ma tutto intorno si muovono sassi «No, no. Paolo è sotto: io passo leggero via di qui e non tocco nulla». Poi un’altro passaggio stretto verso sinistra scavalcando roccia insidiosa e scivolando sotto un grosso masso. Un’altra presa buona e sono fuori. Scavalco nuovamente la pianta su cui è appollaiato Ivan e mi assicuro ad una più piccola appena sopra un cuscino di fiori.

Quando Paolo, risalendo, tocca la piccola fiamma di roccia scatta il finimondo: il rumore di un tripudio di sassi che crolla verso  il basso irrompe nella valle. Ivan ride, anche Paolo ride ma con un’evidente punta di tensione. Paolo si muove ancora verso sinistra e scatta un altro pandemonio mentre resta quasi appeso. «Paolo!» sghignazza Ivan «Smettila di buttar giù sassi che cambi tutta la via!»

Paolo arrampica con Ivan ormai da molti anni e nonostante quel passaggio lo abbia “intesito” arriva in sosta con il consueto sorriso. Compiaciuto prendo atto che per una volta non sono stato io a far crollare la via!

Ivan riparte e copre gli ultimi dieci metri che ci separano dalla cresta lungo la quale, sempre legati attraverso le roccette, guadagniamo l’uscita. Felici ci abbracciamo stringendoci le mani: è davvero una gran soddisfazione arrampicare così!

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Scendiamo nuovamente attraverso il bosco ripercorrendo tutta la valle fine alla macchina. Quando le birre arrivano sul nostro tavolo anche Bruna varca sorridente la porta del Pub: sì, ora possiamo davvero fare festa!

Davide “Birillo” Valsecchi

Via “Il Bastone e la Carota” (Valle Proibita)
28/03/2015 – 3 lunghezze: 50m, 20m, 10m + cresta d’uscita.
Ivan Guerini, Paolo, Birillo

#1 Ricordati di respirare

#1 Ricordati di respirare

DSCF8474«Ma tu arrampichi con Guerini?» «Sì, siamo diventati amici» «Ma Guerini quello che ha aperto le prime vie in Val di Mello?» «Sì, lui. Alle volte anche io sono stupido della cosa….» «Accidenti che figata! Chissà che vie incredibili farai!! Dove siete stati l’ultima volta?» «Bhe, l’ultima volta abbiamo arrampicato insieme alla montagnetta di San Siro…» Negli anni l’esperienza mi ha insegnato che un buon maestro, per essere tale, deve avere la simultanea capacità di stupirmi ed imbarazzarmi, sopratutto perchè sono queste le emozioni che mi rendono un buon allievo.

Diverito dall’idea di arrampicare a Milano ho dato retta ad Ivan e, accompagnato da Bruna, sono sceso in città. Il suo piano era però molto più articolato: la sua idea era di formalizzare alcuni esercizi d’allenamento sperimentandoli con qualcuno che avesse una limitata esperienza d’arrampicata. Questo ha fatto di Bruna il nostro soggetto sperimentale per una spassosa giornata di esercizi al parco.

Per quattro ore abbiamo girato in lungo ed in largo la “montagnetta” mischiandoci con i giovani ed i pensionati lungo le postazioni del “percorso vita”. Esercizi semplici, quasi elementari, che focalizzandosi sulla respirazione e sul ritmo sono diventati via via sempre più intensi. A volte, per imparare, devi estrapolare le idee dal loro ambiente per riversarle in uno spazio completamente fuori contesto. Inevitabilmente per imparare qualcosa di nuovo si deve essere aperti alle novità.

In modo assolutamente curioso Bruna si è dimostrata la più capace tenendo testa a tutte le prove ed agli esercizi proposti da Ivan. Il casinista dei Corni, invece, ha preso sonore batoste!

Il nostro allegro trio ha trascorso insieme una giornata divertentissima: abbiamo davvero riso un sacco!! Eccovi una piccola ed “artigianalissima” testimonianza: Regola numero uno, ricordati di respirare!

Davide “Birillo” Valsecchi

Birillo, Bruna, Ivan

Dalla parte delle Pareti

Dalla parte delle Pareti

Ivan GueriniIvan Guerini è un tipo strano, e probabilmente anche io devo esserlo perchè, nonostante le differenze, andiamo davvero d’accordo. Lui è quasi una leggenda dell’arrampicata, io poco più che un casinista: eppure, anche quando non arrampichiamo, sembriamo legati da pensieri comuni, vincolati da linee invisibili. Non la pensiamo sempre allo spesso modo, ma quasi mai siamo in dissonanza.

Giorni fa mi ha dato da leggere le fotocopie un suo vecchio articolo, pubblicato più o meno nel 1991, che ha per titolo “Dalla Parte delle Pareti”. In questo scritto ci sono due frasi che mi hanno davvero colpito. La prima “Eliminano dello spazio per riempirlo con la paura di rimanere indietro.” e la seconda “Trasformano l’arrampicata libera in mezzo alla natura in una libera prigionia delle loro realizzazioni.”

Mi hanno colpito perchè la mia generazione, una generazione alpinistica inequivocabilmente di sconfitti, è fisicamente e culturalmente stritolata da un terribile circolo vizioso. Soffocata da una cultura che porta ad arrampicare con la costante paura di cadere e con il conseguente e pressante bisogno di essere protetti. Una cultura distorta che incita a bruciare le tappe, a spingersi irragionevolmente oltre i propri limiti nascondendosi dietro la tecnica e l’illusione della sicurezza. Una cultura opprimente, invadente e prepotente che premia ignoranza e mediocrità, che mente a se stessa pur di rendersi accettabile ed adeguata alle proprie ambizioni. Una cultura che priva la mia generazione, e forse anche quelle che seguiranno, della libertà, della gioia e della serenità di arrampicare “liberi”.

Forse nello scritto di Ivan, profetico come spesso anche lui lo è stato, è racchiusa l’origine di questo male. Per questo, armato di santa pazienza, ho voluto trascriverlo a mano rendendolo nuovamente pubblico, sia alle persone che mi sono care quanto a tutti coloro che, come me, sono in cerca di risposte.

• Dalla parte delle Pareti – Ivan Guerini (1991)

Inconsueto per i tempi. E’ la prima impressione che un articolo di questo genere può suscitare. Quella di uno scritto tipico di una mentalità ormai superata, lontana cioè dal modo di pensare e agire che ora va per la maggiore. Ma bisogna che ci capiamo: essere fuori dalla mentalità attuale non vuol dire aver perso il contatto con la realtà, può invece significare guardare l’attualità dal di fuori.

La maggioranza di chi arrampica ora, spesso, non si accorge di quanto succede al di là del suo modo di fare, perchè è in costante adorazione di ciò che fa. Pensa di essere al centro del mondo, ma è semplicemente al centro dell’attenzione (che non è la stessa cosa…).

Qualche esempio? Se ne potrebbero fare molti, ma preferisco parlare di un gruppo di pareti che mi stanno particolarmente  a cuore; anche perchè questa volta ho deciso di sbilanciarmi in prima persona, altrimenti l’argomento sarebbe un discorso teorico.

Le pareti di cui parlo sorgono presso il Lago di Lecco, qualche chilometro dopo la città. Si tratta di un piccolo universo roccioso dove una certa mentalità, sbragata nel modo di fare, si è completamente disinteressata di tutto ciò che su quelle pareti è avvenuto o avviene, magari con meno frequenza di un tempo. Ebbene questo modo di fare non si è fermato ad una semplice prevaricazione del passato: ha pure tolto di mezzo quella natura che su quelle rocce viveva prima che arrivassero le vie a spit. E ha sovvertito l’equilibrio che invece era stato rispettato dalle vie precedenti.

Forse qualcuno si chiederà perchè mi sono deciso a parlarne solo ora. C’è un motivo preciso. Oggi, se tu non racconti ciò che fai, pubblicando immediatamente, pare che tu non faccia niente. E se poi decidi di startene in silenzio per qualche anno pare che tu non arrampichi più! Ma se uno non pubblica, magari una ragione c’è! Eppure c’è un momento per pubblicare e ce n’è un altro in cui è necessario avere il coraggio di non pubblicare. Perchè arriverebbe assai poco a destinazione.

Cancellare le testimonianze.

Con la scusa di praticare dell’arrampicata sportiva, e non dell’arrampicata tradizionale, qualcuno pensa di poter fare sulla roccia tutto quello che gli pare. Ad esempio, togliere i pochi chiodi normali e sostituirli con gli spit. Il motivo? Perché non sono sicuri, non si sa chi li ha messi, come mai sono lì… Se invece i chiodi vengono lasciati in posto, allora si sale, si attraversa, si tagliano con molte vie “nuove” i pochi metri di parete, isolando il valore di quei pochi chiodi normali. Al punto che i vecchi “ferri” paiono ormai solo dei pedoni circondati da un traffico caotico e luccicante. In questo modo, prima si confondono i tracciati, poi vengono dimenticate le vie originali dalla parete. Infine, sopra quelli che già esistevano vengono aperti altri itinerari!

Il risultato? Si elimina dello spazio (che naturalmente non sarebe scalabile) per riempirlo con la paura di rimanere indietro. Più o meno come se si andasse sulla Cima Grande di Lavaredo a togliere i chiodi di Comici, senza nemmeno chiedersi perché sono lì e si richiodasse la sua via chiamandola, che so, Pesche all’olio di Oliva. Magari salendo ad un metro di distanza dal percorso originale e intersecando quando conviene. Oppure se si spittasse la Cassin al Badile con la scusa che i chiodi sono vecchi e vanno sostituiti, e si ribattezzasse la via originale Gli idioti del 2000. Che bravura!

Cancellando le testimonianze del passato (tanto il passato remoto quanto gli avvenimenti più recenti, di ieri), si potranno finalmente cambiare anche i nomi delle vie che già erano state “battezzate”. E per “finalmente” intendo: “chi se ne frega se qualcuno le ha già fatte, adesso ci siamo qui noi”.

Il fatto che spesso si sia arrivati a spittare sopra e lungo vie già esistenti, non dimostra soltanto che la mentalità generale di chi arrampica secondo questi canoni non riesce a distinguere niente al di là di ciò che fa. Piuttosto, rende evidente come la specializzazione limiti il giro d’orizzonte. E non mi riferisco tanto alla capacità di “tirarsi su” sulla roccia, quanto piuttosto alla capacità di comprendere il valore complessivo della parete che si sta salendo.

In conflitto con il passato più recente

Ma non è tutto qui. Chi arriva a spittare dove qualcuno è già salito utilizzando chiodi normali, in fondo non ammette che nel passato più recente certe difficoltà sono state salire in arrampicata libera naturale. Sicuramente, sotto sotto è convinto che questo debba ancora avvenire… Vorrebbe che all’arrampicata libera naturale sulle alte difficoltà ci si arrivasse con l’arrampicata a spit, e che il merito di questa nuova evoluzione appartenesse solo allo spit.Invece, tale evoluzione è già avvenuta negli anni passati, e non è stato certo grazie allo spit.

Effettivamente, per chi ha una mentalità competitiva, sarà dura accettare il fatto che l’avanzamento delle difficoltà sulle pareti calcaree del Lago di Lecco non è avvenuto con quel tipo di arrampicata libera che si serve di mezzi di protezione innaturale.  Qui, infatti, l’evoluzione ha avuto luogo semplicemente grazie all’esplorazione di pareti sconosciute per mezzo di un arrampicata libera naturale, nel completo rispetto della natura rocciosa. In altre parole, la roccia inchiodabile è rimasta tale.

In effetti, sulle pareti di Predello, su quelle di Giazzima e sopratutto sulla lunga e scomoda Cornice dell’Avorio, sono state aperte numerose vie con passaggi dal VII+ al X-. Il tutto a partire dal 1979, ben prima che “la spit climbing” piombasse su quelle stesse pareti per andare a caccia di difficoltà. Da quel momento le pareti di cui parliamo sono state salite e frequentate, e per molto tempo nessuno ha cercato di “sistemarle” a misura d’uomo.

Da parte mia, da quando ho cominciato ad arrampicare, ho cercato di non intervenire mai sulla natura delle difficoltà esistenti in parete. Nè nei centri di fondovalle nè in montagna. Ho chiodato solo dove i chiodi entravano naturalmente, e sono salito solo dove ero in grado di farlo con i miei mezzi. Senza la presunzione di separare il grado della difficoltà dalla natura che lo forma. Perchè sentivo che un mio intervento in tal senso avrebbe alterato l’ordine naturale della parete. In altre parole, avrebbe inquinato il difficile.

E già che ci siamo, vorrei precisare che questa lunga premessa non costituisce una requisitoria contro gli spit. Mi interessa invece mettere in risalto come una certa mentalità diventa “a spit” anche nel modo di fare: maniacale, territoriale, aggressiva. Questo, almeno, a giudicare da quanto successo sulle pareti in questione.

E in definitiva il vero problema non è dato dal fatto che la “spit climbing” limiti i suoi praticanti ad un arrampicata incompleta rispetto ad una libera autentica. Il problema, ben più grave, è che lo spit separa l’uomo dalla natura della difficoltà. Nel senso che lascia la difficoltà, ma elimina le sue componenti naturali…

Sotto le pareti dell’Avorio

E che dire di quel sentierino che corre sotto le pareti dell’Avorio, costruito abbattendo piante, rimuovendo sassi e spuntoni per trasformarli in comodi gradini? Tanto più che per 12 anni la gente ci è sempre andata lo stesso, anche senza sentieriero, ma sopratutto lasciando le cose com’erano. Si tratta di un sentierino che, in un posto molto più piccolo di una “grande foresta”, ha in proporzione gli effetti di una grande arteria di traffico. Un sentiero fatto solo per arrivare comodi agli spit senza strapparsi i vestiti, quando il bello di quel posto era tornare a casa, la sera, con i segni di “forti” esperienze sulle mani; e quegli strappi sui vestiti erano i ricordi di giornate complete, vissute appieno..

Alle pareti di Pradello

E la sommità della torre del Garofano? Era costruita da un fiore calcareo, con schegge di petali e foglie di spuntoni… Oggi non è più com’era, in gran parte è stata distrutta. Petali e foglie sono stati buttati giù a forza da chi sa stare in mezzo alla natura solo piegandola alla sua ristrettezza di idee. Lassù ormai sono rimasti solo massi sconnessi e gettati nel vuoto da chi è assetato di posti nuovi. Non per riconoscerne il valore, ma piuttosto per renderli luoghi da divulgare in modo da sentirsi qualcuno!

La morte dello Spalto del Messia Verde a Giazzima

Mi sono sentito preso a calci nei sentimenti. Era come se le testimonianze della mia passione di un tempo fossero state violentate davanti a me… Gelosia dei posti? Balle! Pare che un certo modo di fare si diverta ad umiliare la natura solo per l’invidia di essere stato preceduto.

Hanno fatto a pezzi la natura che da sempre viveva su quelle pareti. Le avevo salite anni prima, quelle rocce, lasciandole esattamente come erano. Mi sarebbe piaciuto che fossero rimaste tali. E’ stata una violenza tremenda, quella di rovinarle, come se ti avessero sgozzato il gatto o avvelenato il cane per farti un dispetto.

Ci sono certi luoghi, nel mondo, dove qualcuno sa trovare la propria felicità. Al contrario di tanti altri che masticano continuamente posti, macinano decine di vie senza sosta perchè, per loro, in definitiva un posto vale l’altro. E così si rovina, si spacca, si distrugge.

Cosa si dovrebbe dire a chi ha segato un albero decennale per sostituirlo con una calata a soli 10 metri da terra? Quello era l’unico albero nato e cresciuto al centro di una parete che portava il suo nome: lo Spalto del Messia Verde.

Un albero che in primavera sprigionava una chioma verdissima e faceva indiscutibilmente parte dell’ambiente. Oltretutto era inutile tagliarlo perchè permetteva anche di sostare e di lì si scendeva pure in doppia, accarezzati dalle sue frasche quando c’era la brezza pomeridiana…

Una descrizione romantica? Niente affatto, sono parole vere, reali quanto la sua distruzione!

A qualcuno, discorsi di questo genere potranno sembrare disquisizioni idealistiche che non stanno con i piedi per terra. Per me, invece, è idealista e fuori dalla realtà chi tratta le pareti senza rispetto. Senza accorgersi, o facendo finta di non accorgersi, di come le rovina, nel tentativo limitato ed infantile di trasformare la roccia a sua misura. Intanto la parete cambierà nome, si chiamerà Spalto del Messia decapitato e la via Le Catene dell’uomo alla natura.

Mi immagino già la risposta: «Ma dai, in fondo una pianta è solo una pianta!» E’ vero, com’è altrettanto vero che, in casi come questi, la faccia di uno spit climber è qualcosa di talmente inutile da non servire nemmeno come concime per riportare in vita quella pianta, ridotta ad un oggetto rinsecchito. E adesso si dovrebbe usare quel ceppo avvizzito come legna da ardere? Oppure comportarsi con quel ceppo sporco ed umido come con una prostituta che viene tolta di mezzo e buttata in un fosso perchè intralciava gli interessi di…?

Già, in fondo quella era solo una pianta, ma quante piante in tanti posti hanno fatto la stessa fine? Avete mai provato a pensarci? Spezzare un ramo perchè sei costretto a passare di lì è comprensibile, può anche capitare. Ma perchè mai dovrebbero avere ragione quelli che segano le piante per sostituirle con una più comoda catena di calata? Perchè dovrebbero avere ragione quelli che strappano edere ed arbusti e non si accorgono dei nidi momentaneamente abbandonati e radono al suolo ogni forma di vita che ostacola ed intralcia le loro realizzazioni?

Avete mai osservato da vicino gli autori di così grandi gesta? Sono figuri tristi e meschine, dalle facce piatte e dallo sguardo inespressivo che si accende solo quando arriva qualcuno in grado di salire senza sbagliare un gesto. Persone che hanno bisogno di vestirsi in modo molto colorato proprio per nascondere lo sterminato grigiore del loro modo di vivere…

Che ne sanno loro cosa significhi arrampicare realmente in libera, se continuano a ridurre così ogni falesia su cui puntano lo sguardo? Trasformando l’arrampicata libera in mezzo alla natura in una libera prigionia delle loro realizzazioni. Al punto che si potrebbe quasi dire: finta libera per finta libertà.

Un merito, però, questo modo di fare ce l’ha senz’altro. Quello di essere riuscito a trasportare in montagna tutto ciò che in città invade il loro modo di pensare. Ha trasformato momenti unici, vissuti in mezzo alla natura, in una domenica di sole vista attraverso i vetri di casa.

In breve, la quiete che sempre è esistita su certe pareti ha preso le sembianze di un bar, con gente che fa il tifo e spegne le cicche nei buchi della roccia, che rumoreggia e sghignazza, anzichè gridare di gioia. Gente che ha “La Gazzetta dello Sport” e le cronache della “Libera” al posto del cervello.

Ed è un peccato, perchè si potrebbe lo stesso arrampicare sul difficile, anche sul X grado, senza imboccare necessariamente quella strada. La storia e l’esperienza, oltretutto, lo dimostrano. Su queste pareti, per anni, si è andati avanti lo stesso.

Ivan Guerini.

L’articolo di Ivan prosegue ancora esplorando, anche a livello personale,  ciò che può essere fatto per arginare questa tendenza. Per il momento, visto la quantità di spunti di riflessione, ho preferito fermarmi qui. Lasciare che il tempo aiuti. Per chi volesse leggere integramente tutto l’articolo può farlo qui: Dalla parte delle Pareti (Intergrale, pdf)

Davide “Birillo” Valsecchi

Compagnia e solitudine

Compagnia e solitudine

Bruna indossa solo una magliettina grigia ed un paio di stivaletti di stoffa. Piego la testa di lato per guardarle le gambe nude mentre si allunga sui fornelli con la caffettiera. Se fossi una persona assennata dovrei tornare tra le lenzuola: sono mai stato assennato in vita mia? Mia madre era convinta che mi lasciassi traviare dalle cattive compagnie, forse è per questo che ad attendermi ai piedi del Pizzo d’Erna ci sono due tipacci come Ivan Guerini e Giancarlo Bolis.

Il sole non splende come il giorno prima ed il cielo è coperto. Ivan mi vede, mi abbraccia e mi osserva un istante “Ma non sei stanco?” Venerdì ero con Mattia su Anniversario in Medale, sette ore per undici tiri, mentre Sabato ero con i ragazzi del BadgerTeam in ferrata. “Stanco? Avrò tempo domani per essere stanco: oggi si deve rispondere alla chiamata!” Scatto sull’attenti ed Ivan ride: quando faccio il serio sono particolarmente buffo.

Alla partenza della funivia Ivan e Giancarlo incontrano un uomo alto, magro e con due intensi occhi azzurri che brillano sotto una berrettaccia di lana blue: Michele Anghilleri, all’epoca uno dei giovanissimi allievi con cui il mitico Don Agostino Butturini tracciò la via “Solitudine” alla Rocca di Baiedo nel ‘78. Appoggiato ad un pilastro li osservo mentre chiacchierano, parlano del “Don”, delle vie e dei tempi che furono. In realtà sono piuttosto stanco ma basta ascoltarli per capire che vale la pena esserci.

Dalla cima del Pizzo D’erna ci abbassiamo fin sopra la Parete Stoppani superando il bellissimo e temibile camino della Panzeri. La terra è umida e le zolle sono piene d’acqua. Le possibilità di avventurarsi sulla bastionata alta sono scarse. Tuttavia questo non impensierisce i miei compagni. Stanno cercando una via mai ripetuta e per farlo sono pronti a “navigare a vista” sulla roccia finchè non ne troveranno una traccia. Tutto quello che hanno è il racconto dell’apritore, ormai ultra ottantenne, ed alcuni voci su una fantomatica foto affidata ai tempi al “Ciapin” su cui compariva la traccia.

“Andiamo su di qui e vediamo se da sopra si vede qualche vecchio chiodo” Ivan attacca una placca, si alza raggiunge delle piante. “Troppo sporco qui, faccio il giro” Si riabbassa in placca e risale a sinistra. Supera una serie di piante e scompare sulla placca successiva. Poi, dopo che la corda si è distesa per oltre cinquanta metri, chiama la sosta.

Attacco la placca iniziale. Mi alzo sulla destra e seguo una fessura sulla sinistra. Il primo friend si sfila da sè. Studio il passaggio ma ogni mossa mi sembra fuori scala: “Hey Giancarlo, mica sono sicuro di poter passar su di qui!” Giancarlo ride ma io sono serio!!

Allungo la mano sinistra stringendo con le dita in una fessura mentre con la destra cerco qualcosa da tirare o anche solo da spingere. Se non fossi legato con Ivan quel passaggio non lo proverei nemmeno, ma sono qui e questo è quello che devo fare.

Respiro ed appoggio i piedi raccogliendomi come un ragno quasi seduto sui talloni. Sono appoggiato su nulla, la sinistra stringe sulle dita, la destra è in opposizione sotto il bacino. La corda è distesa tra i rami degli alberi: se cado “lascherà” abbastanza da farmi arrivare fino a terra, e se rimango fermo troppo a lungo diverrà inevitabile finire a basso.

Sollevo con infinita lentezza la mano destra mentre tutto il mio corpo cerca di mantenere il morbido e magico equilibrio che inspiegabilmente supera la gravità. Il braccio si allunga attraversando come una cometa il cielo di quella strana sensazione che permea il momento. Le falangi trovano una tacca e tutto il corpo si rianima da una specie di torpore assecondando morbido il movimento successivo.

Con una certa sorpresa sono fuori dalla placca, attraverso le rocce rotte e supero la placca successiva. Quando arrivo alla pianta su cui Ivan ha fatto sosta attacchiamo a chiacchierare. “La placca iniziale mi ha messo in difficoltà, se non ti avessi visto passare non credo ci sarei riuscito” Ivan sorride, smette di prendere in giro Giancarlo che è incastrato tra le piante, e si limita dirmi quasi distratto “Sì, era duretta. Se fosse pulita e protetta a resinati sarebbe un bel 6b+. Speriamo nessuno la rovini.”

Nella mia mente emerge un ricordo. Qualcuno una volta mi ha detto che tirare un 7a o un 7b non è poi tanto più difficile che tirare un 6c, che è solo questione di allenamento. Mi disse che il vero difficile è passare dal 6a al 6c, perchè è quello il momento in cui si deve educare la mente a quei gradi. Quell’intensa sensazione che avevo provato sulla placca era probabilmente un’assaggio di quell’educazione che ancora mi manca, qualcosa di cui fare tesoro e su cui riflettere.

Quando arriva Giancarlo ci alziamo ancora ma di chiodi vecchi neppure l’ombra. Raggiungiamo una pianta ed organizziamo una doppia calandoci fino alla base. Due tiri nell’ignoto in cerca dell’incerto: non male, posso dirmi davvero fortunato!!

Al bar della funivia ci scoliamo una birra chiacchierando a ruota libera. “Avevi ragione Davide”– mi dice Ivan – ”l’altra volta ho visto Mattia arrampicare ed è davvero forte”. Mattia è il mio compagno di cordata ed è oltre un anno che gli sto dietro attraverso mille difficoltà. Lui tra i tanti è l’alpinista che vorrei raggiungere, che vorrei eguagliare.La cosa divertente è che, inevitabilmente, arrampicando insieme entrambi stiamo continuando a crescere e migliorare: sentire Ivan fargli i complimenti è per me un grandissimo piacere!

Davide “Birillo” Valsecchi

Fuori dagli Ingranaggi

Fuori dagli Ingranaggi

Bruna sta facendo colazione, ci siamo svegliati davvero tardi ed io sono al telefono con Ivan Guerini. Quando chiudo la telefonata la guardo con l’espressione più da duro che mi riesca e le chiedo «Bhe, com’ero?» Lei, con la bocca piena di cereali, risponde ridendo «Eri buffo! All’inizio quasi balbettavi!» Sigh…

Sabato mattina io e Mattia siamo al piazzale della funivia dei Piani d’Erna: ad attenderci Ivan, Giancarlo “Fantino” Bolis ed Giancarlo “Il Generale”. Anche “il Colonnello” è un valente arrampicatore ma oggi ha accompagnato in auto Ivan approfittandone per fare due passi sul Magnodeno.

Ivan, dopo la “Panzeri” della scorsa domenica con Joseph, vuole fare qualcosa di più tranquillo, di rilassante: «Dai, se asciugano le pareti vediamo di tracciare qualcosa di nuovo sul pilastro a destra della Parete Stoppani». Settimana scorsa inseguivamo la via mai ripetuta di una figura leggendaria, oggi invece, per rilassarci, andiamo a fare due tiri “là dove nessuno è mai stato prima”. Rieccomi ai confini della realtà…

Mentre risaliamo a piedi verso la Stoppani ci abbandoniamo alle chiacchiere. Giancarlo ci racconta aneddoti sui suoi amici o sugli alpinisti con cui ha arrampicato: è come sfogliare un album di figurine e la maggior parte dei nomi li conosco solo grazie ai libri!

Quando arriviamo sotto la parete Stoppani diamo un occhiata in giro, osserviamo le numerose vie a spit presenti cercando spazi vergini. Le parete sono state attrezzate da Delfix e, contrariamente a quanto mi aspettassi, Ivan e Gianka ci descrivono tanto i tiri quanto il mitico Delfino Formenti in modo davvero molto positivo. L’unico rammarico è che in molti non comprendano gli sforzi e l’impegno che richiede l’intensa attività di Delfino: chiedono senza dare e, soprattutto, credono che l’arrampicata si limiti ormai solo ai monotiri.

Scegliamo la nostra linea ed attacchiamo. Mentre Ivan “esplora” il primo tiro alcuni “climber” ci osservano dal sentiero che porta alle vie: corrono a “prendere il posto” agli attacchi ed è assolutamente evidente che ai loro occhi siamo un quartetto di mongoloidi che si sta infognando in mezzo alle piante. La cosa è tremendamente divertente: se sapessero chi è quel “vecchietto” in mezzo ai rovi la penserebbero in modo davvero diverso. Tuttavia, per cambiare idea, basterebbe che osservassero con quanta tranquillità e padronanza Ivan sta arrampicando nello sconosciuto, assicurato solo da lunghissime protezioni a friend e fettucce.

Ivan, dopo una ventina di metri, raggiunge un albero. «Non so… faccio sosta qui o mi alzo e la faccio più avanti a friend?» Una sosta a friend di Ivan vale due (forse anche tre) delle mie a chiodi ma, in fondo, io sono un coraggioso codardo e quindi tiro l’acqua al mio mulino. «Come vuoi Ivan, ma se prosegui poi non possiamo più nè vederti nè sentirti. L’albero sembra comodo…» Ivan mi guarda e ride: «Bravo Birillo! Facciamo sosta qui!»

Il primo tiro attraversa un cespuglio, schiva una pianta di rovi, rimonta una pila di sassi incastrati e si infila in uno stretto micro camino. La roccia è lavorata e buona, ripulito sarebbe un bel tiro godibile ma in queste condizioni tutto si fa più complicato. L’albero, però, è davvero comodo e la sosta una pacchia!

Il secondo tiro è più aperto e risale fino alla sommità del pilastro. Si affronta prima un coppia di belle pacche con una strepitosa fessura che da destra risale a sinistra permettendo di raggiungere una cengia. Da qui ci si sposta nuovamente a destra infilandosi sotto l’arco di un tetto curvo che si alza verso sinistra. Sotto la curva del tetto c’è una bella fessura in cui Ivan protegge a friend.

Il tiro è bello ma è vergine, con tutte le problematiche che comporta. Quando Mattia si avvicina alla base del tetto un muretto di sassi gli crolla sui piedi facendo un fracasso infernale (soprattutto per me che stavo una decina di metri sotto!). Senza danno Mattia rimpila i “bocci” del muretto e passa oltre il tetto.

Arrivo sotto il tetto bello carico ed ho voglia di godermelo. Osservo i sassi smossi da Mattia e cerco di capire se ci sia altra roba da evitare. Appoggio senza peso (giuro appoggio!!) la mano su una grossa scaglia e questa, senza alcun preavviso, si distacca dalla parete abbassandosi di un paio di centimetri. La mia mente “zoomma” sui quei due centimetri che per un istante riempiono tutto il mio universo.

Si è mossa ma è ancora magicamente sospesa sulla parete: larga il doppio di un asse da stiro è alta dalla mia caviglia fino a metà del mio costato (lo so perchè ci sono esattamente affianco!). Se si lascia andare prende in pieno la corda che mi lega a Giancarlo e, oltre a tirarmi a basso, c’è la possibilità che prenda anche lui.

“Okay Birillo” mi dico ”facciamo le cose per bene!” Alzo la corda di Giancarlo al friend successivo in modo che sia fuori traiettoria. Poi, scalvalcando in spaccata la scaglia, mangio il tetto con tutta la velocità e la delicatezza che possiedo. Raggiungo Ivan in sosta e gli racconto il fatto. Lui mi assicura e mi lascia abbastanza lasco di corda perchè riesca a sporgermi oltre il tetto.

Da quel punto posso vedere e parlare con Gianka raccontandogli della scaglia. «La corda ci sbatte contro?» Mi chiede Giancarlo da sotto «No, l’ho sistemata. Puo’ toccarla solo quando ci sei vicino. Fai attenzione!» Giancarlo non sembra affatto preoccupato. «Okay Birillo, l’ho vista». La supera, resiste alla tentazione di farla andare a basso, e ci raggiunge.

Quella dannata “asse da stiro” ha incrinato il mio equilibrio «Scusa Gianka, mi dispiace per quella scaglia». Lui ride e mi dice di non preoccuparmi, anzi, inizia a raccontarmi l’infinita serie di monoliti, tetti e scaglie che ha visto crollare in vita sua: il veterano e la matricola.

Ivan ci ascolta e sorride come sempre. «Volete tirarlo voi il prossimo tiro?» Io e Mattia sembriamo due scolaretti: per favore maestra non ci interroghi!! Ivan riparte, si alza di una decina di metri obliquando sopra un canale e poi, finalmente, piazza un cordino su un sasso che si muove. «Credo che gli inglesi lo chiamino “chock-rock”: il sasso si muove ma se lo trazioni con il cordino nel modo giusto tiene». Forse, per via del modo dubbioso in cui lo abbiamo guardato, Ivan piazza anche un chiodino, supera lo spigolo della placca e scompare alla nostra vista nel successivo diedro.

La corda scorre e la voce di Ivan si fa sempre più lontana. Non ho idea di dove sia Ivan e che cosa abbia trovato davanti a sè, la “sindrome del secondo” inizia a farsi strada tra i miei dubbi. «Gianka, ma tu come fai a fargli sicura così tranquillo?» Giancarlo, intento nei suoi racconti, mi guarda «Non devi farti carico delle difficoltà del primo di cordata. Non serve che tu cerchi di stressarti al posto suo. Se riesce a passare va avanti, se non ce la fa torna indietro. Mica è un bambo!» Il suo discorso non fa una piega, vorrei dirgli che non sempre è possibile tornare indietro, ma il fantasma di Preuss poggia la sua mano sulla mia spalla e mi sussurra all’orecchio: “Se hai inconsapevolmente superato il tuo punto di non ritorno allora sì che sei un bambo!”

Finalmente dall’alto arriva la voce di Ivan. Giancarlo riparte e, fin dove può, ci racconta le difficoltà elogiando la bellezza del tiro. Io e Mattia restiamo soli alla sosta: «Hey, Mattia, dici che gliela facevamo a chiudere da soli questo tiro?» «Bhe, ora che sappiamo che si passa forse sì, ma di sicuro ci sarebbero serviti un bel po’ di chiodi per proteggere!»

Poi tocca a me e Mattia. Io, dopo l’asse da stiro, mi piazzo per ultimo e lascio che la roccia lenisca le ansie del tiro precedente. Si risale fino allo spigolo e si scavalca infilandosi in una serie di bei diedri. C’è materiale mobile da non toccare ma procediamo leggeri e decisi. Alla fine dei diedri Ivan aveva piegato verso destra in modo da proteggere la sottostante sosta dalla caduta di eventuali sassi. Sulla destra aveva trovato un canale/camino attraverso cui aveva raggiunto il bosco e la “fine delle ostilità”.

Quando siamo tutti fuori dalla via sono solo le due e mezza, il sole è ancora alto e possiamo comodamente scendere verso la funivia per una birretta. Allegramente ci abbandoniamo alle chiacchiere e ai pensieri.

[ La colonna sonora del video è tratta da  “Focus”, il nuovo album di Stefano Galli, fratello di Bruna!]

Ho sempre creduto che una “via” fosse una linea tracciata dagli uomini per gli uomini. Una specie di gesto di solidarietà attraverso il tempo così come lo è costruire un’ometto di sassi o lasciare una scatoletta di carne in un bivacco. Oggi invece avevamo tracciato una via che è esistita solo mentre noi la percorravamo e lungo la quale niente è rimasto del nostro passaggio. Un gesto assolutamente estemporaneo destinato a perdersi nella polvere del tempo. Non avevo mai fatto niente di simile, o quanto meno sulla roccia.

Spesso in passato mi è capitato di avventurarmi da solo nei boschi, al di fuori dei sentieri, con la chiara volontà di perdermi, di scoprire qualcosa di nuovo o di sorprendere qualche animale. Qualcuno, per via degli innegabili pericoli, lo riteneva un azzardo ma ero consapevole di quello che stavo facendo e nonostante le difficoltà non mi sono mai sentito a rischio. Ivan e Giancarlo si muovono sulla roccia con la stessa disinvoltura con cui io mi muovo nel bosco. Non è una questione fisica, ma di testa.

«Ivan, non credo di aver mai fatto nulla di simile sulla roccia. Come fai a trovare la strada, a non lasciarti bloccare dall’ignoto? Nessuno era passato prima di noi, non potevi sapere se era possibile passare.» Gli butto lì una domanda da niente mentre camminiamo sul sentiero «Devi pensare a salire, salire trovando il passaggio per uscire dall’alto. Certo, devi fare le cose per bene, ma non devi distrarti cercando di fuggire dalle difficoltà, o lasciare che queste ti schiaccino: è qualcosa che senza improvvisare piano piano si impara».

Al bar della funivia ci raggiunge anche il “generale”. Le birre si ammonticchiano sul tavolo: dicono servano a riequilibrare i sali minerali. Leggeri ci perdiamo in mille chiacchiere ed in mille racconti. Giancarlo, senza volerlo, cita il “Nuovo Mattino” di Motti ed aggiunge «Al di là delle filosofie in quegli anni per un operaio arrampicare era un modo di affermarsi. Lavoravano tutta settimana e nel week-end avevano la possibilità di dimostrare a sè stessi di essere ancora delle persone libere, non degli ingranaggi. Questo è quello che conta: non farsi male ed essere felici»

Per un istante penso al nostro povero paese, al modo in cui la cultura, o la non-cultura, riesce ad invadere ogni cosa. Una contaminazione che spesso minaccia anche l’arrampicata logorando un mondo, che dovrebbe essere di pura passione e libertà, con invidie, polemiche, rivalità, protagonismi e dogmi.

Tiro un sorso alla mia birra e sorrido. Se uno come me è riuscito ad aprire una via con Guerini la speranza è ben lunga dall’essere perduta: un cane sciolto può ancora essere fuori dagli ingranaggi!

Davide “Birillo” Valsecchi

All’improvviso Ivan Guerini!

All’improvviso Ivan Guerini!

DSCF9709Stavo salendo verso i Corni quando, all’altezza del bivio per la cresta dell’avvocato, suona il cellulare: “Ciao Davide, sono Ivan”. La voce non mi è familiare, mi sforzo di capire se sia qualcuno legato al lavoro quando, all’improvviso, mi blocco e quasi balbettando chiedo “Guerini?” La voce, assolutamente serena, risponde “Sì, sono io. Ti va di arrampicare insieme domenica?” Per un istante rimango incredulo con la bocca spalancata: “Certo!”

La sera racconto il tutto a mio fratello. Giusto qualche giorno prima avevo visto con lui un documentario sulla Val di Mello e, visto che studia chitarra per entrare in conservatorio, si è limitato a dirmi: “Bhe, se mi avesse chiamato Eric Clapton per suonare qualcosa insieme sarei rimasto a bocca aperta anche io!!” Aveva colto il senso degli eventi!

Sabato sera Ivan mi richiama:“Ti va se andiamo con paio di miei amici a cercare una vecchia via di Panzeri al Pizzo d’Erna? Sai, non è mai stata ripetuta e vorremmo ritrovarla”. Vi siete mai ritrovati in bilico tra l’inferno ed il paradiso? Ecco esattamente dove mi trovavo io. Ho preparato lo zaino, sistemato il mio equipaggiamento e sono andato a letto quanto prima potevo. Alle quattro del mattino ho cominciato a rigirarmi nella branda. Mi attendeva un appuntamento con una bellissima ragazza ed un giro sul ring con MikeTison: non c’era modo di riuscire a dormire!

Arrivo al piazzale delle Funivie dei Piani D’Erna con tre quarti d’ora d’anticipo e mi piazzo immobile come un palo esattamente davanti alla biglietteria, così come mi era stato indicato. Con attenzione osservo tutti quelli che passano quando finalmente vedo un trio avanzare. La prima cosa che noto di Ivan è il suo sorriso, il suo viso allegro spazza in un sol colpo tutti i miei reverenziali timori. Mi avvicino per stringergli la mano e lui, di slancio, mi abbraccia: “Ciao Davide! Forza, le presentazioni le facciamo in funiva: ci attende una gran giornata!”

Con Ivan Guerrini c’è Giuseppe “Joseph” Prina e Giancarlo “Fantino” Bolis. Joseph è il più giovane, sulla cinquantina. Ivan ne ha sessanta e Gianka è il veterano del gruppo. L’età non deve trarre in inganno: sono fuoriclasse eccezionali. Tutti e tre sembrano caricati a dinamite: scherzano, ridono e sprigionano energia come una centrale atomica. Non è possibile resistere al loro vortice!

Dall’arrivo della funivia scendiamo verso ovest abbassandoci fino a raggiungere la grande muraglia rocciosa che sovrasta la parete Stoppani e che porta alla cima. Non conosco il nome di quella parete e non ho assolutamente idea di dove stiamo andando.

Ivan mi racconta di come da giovane abbia conosciuto personalmente Panzeri e di come sia sempre stato affascinato dalle capacità di questo straordinario alpinista degli anni 30. Giancarlo aveva trovato negli archivi del CAI di Calolzio una vecchissima e stringata relazione che parlava appunto di questa “Panzeri” al “Castello d’Erna”. Ivan, Joseph e Gianka avevano già tentato una prima esplorazione ma la nebbia e la cattiva visibilità li aveva ostacolati nella ricerca.

Sotto la grande parete, illuminata dal sole, i tre indicano un evidente diedro/camino che risale per tutta la lunghezza. Ci alziamo fino alla base e ci prepariamo ad attaccare. Davvero non so cosa aspettarmi e cerco di soffocare l’inquietudine. Joseph ed Ivan sono due fenomeni, non so se sono in grado di tenere il loro passo, se sono in grado di passare dove passano loro. Si capisce che è da tempo che inseguono questo progetto e sarebbe terribile se fossi loro d’intralcio. Una parte di me è incerta mentre un’altra non vede l’ora di “toccare” la roccia, di “sentirla”, di capire se sono in giornata e se posso “starci dentro” ad arrampicare con un mito come Ivan: è incredibile trovarsi in sosta e vederselo davanti che ride e scherza facendo i dispetti al buon Gianka.

Joseph parte da primo, si alza in mezzo agli alberi e risale silenzioso, totalmente rilassato e concentrato al tempo stesso. Piazza una prima sosta ed Ivan lo raggiunge. Io e Gianka, legati ad Ivan con due mezze corde, aspettiamo che Joseph risalga anche il secondo tiro. Poi attacchiamo.

Le mani tengono, i piedi reggono, la roccia pare amica. Mi alzo tirando lo spigolo interno di un diedro fino alla prima sosta, mangio chili terra mentre mentre aggiro l’albero a sbalzo su cui è appollaiato Ivan. Una sosta a fettucce e friend, la mia prima sosta con Guerini su una via sconosciuta di Panzeri: incredibile!

Nel tiro successivo il diedro si fa via via sempre più verticale fino a culminare in un grosso tetto strapiombante. Osservo Ivan salire cercando di rubarne i movimenti. Lungo il tiro ci sono due grossi fittoni ad anello, le sole testimonianze del passaggio di Panzeri. Ivan raggiunge il tetto e con pazienza infinita si alza, si incastra, si sfila e rimonta uscendone verso destra. Quello è il tratto che nella relazione è riportato come A2. Joseph, oltre all’anello di Panzeri, ha piazzato due friend: non c’è nulla su cui azzerare, nulla da tirare, lassù si decide la mia storia.

Mi alzo seguendo lo spigolo e facendo attenzione a non far cadere nulla su Gianka che mi segue. Ciò che è solido regge, il resto non va toccato! Raggiungo il vecchio anello sotto il tetto ed ammiro il grosso e vecchio fittone che, nonostante il tempo, è ancora una solida ancora in un mare in tempesta. Mi alzo una prima volta e studio il passaggio. Il movimento con cui Ivan aveva incastrato il braccio sinistro è incredibile, non c’è modo che mi riesca. I grossi massi instabili oltre il tetto mi “spiegano” anche il perchè abbia compiuto un simile movimento. Respiro ma la bocca sembra impastata di cemento. Mi alzo abbastanza per riuscire a vedere oltre il tetto, sulla destra, fin quasi alla sosta.

Sto arrampicando con Guerini e senza usare le staffe quello è il passaggio più difficile che abbia mai tentato. Lascio l’anello di Panzeri, mollo gli ormeggi e vado. Chiedo ai miei 84 chili di fornirmi tutta la loro forza senza che il loro peso “inquieti” la roccia instabile. Poi sono oltre, su un terrazzino pieno terra. Sono quasi stordito da quel passaggio mentre Joseph allegro dall’alto mi incita prendendomi in giro “Dai Birillo, alza il ritmo! Qui è tutta erba!”

Li raggiungo in sosta mentre i due continuano a ridere e a prendere in giro il buon Gianka che si lamenta sotto il tetto. Io mi sento come un naufrago approdato ad una spiaggia. In sosta Joseph mi chiede se ho qualcosa da mangiare. Gli passo i miei “ringo-boys” e la bottiglia d’acqua. I due chiacchierano e ridono, parlano di ottavo grado su roccia instabile ma io sono troppo impegnato a “contarmi i pezzi” per capire se parlano sul serio o scherzano. Sembrano due bambini, sono felici e raggianti, anche io inizio a ridere senza freno alle loro battute.

Sono ancora quasi senza fiato e continuo a ridere. Mi chiedo se sia un momento isterico ma la realtà è che sono genuinamente felice. “Ivan, non capisco. Non ho mai fatto niente di così difficile eppure continuo a ridere. Come è possibile?” Lui mi guarda con un grande sorriso: “Nelle situazioni come questa, in cui si affrontano grandi pericoli e grandi difficoltà, se non trovi il modo di essere allegro, di scherzare, di essere felice, non potrai mai sostenere la pressione di un simile ambiente”. Nel buio un raggio di sole illumina una verità che era sempre stata davanti al mio naso e quando finalmente riesco a vederla non posso fare altro che sorridere.

Gianka esce sbuffando dal tetto, passa il materiale a Joseph che attacca il grande camino a doppia esse che contraddistingue il tiro successivo. Joseph risale con infinita calma e serenità, protezioni a friend lunghissime, quasi infinite per i miei standard. Il livello di Joseph sembra irraggiungibile ma in alcuni movimenti e nell’atteggiamento mi ricorda Mattia, il mio compagno di cordata. E’ la prima volta che affronto una salita impegnativa senza di lui. Non è riuscito a venire con noi e così, sia per scaramanzia che per affetto, ho portato con me il “canapone giallo” che usiamo insieme ai Corni.

Osservo Ivan affrontare il camino. Come ha fatto una mezza-sega come me a finire quassù con certi mostri? Alpinisticamente sono poco più che una barzelletta, un dilettante allo sbaraglio. Come è stato possibile? Poi inzio a capire. C’è una sola ed unica ragione: i Corni di Canzo.

Le mie montagne, le nostre bistrattate e screditate montagne, quella roccia infida e difficile su cui ho sofferto e tremato sono l’unica ragione per cui un “signor nessuno” come me ha una tale opportunità. In modo del tutto inatteso i Corni stanno ripagandoci della lealtà e della dedizione che io e Mattia abbiamo offerto loro. Mattia è il più forte tra noi due, lui è quello che maggiormente ha contribuito a conquistare questo “biglietto dorato”. In cuor mio so che dovrebbe essere lui qui in questo momento, che il mio è un privilegio ma anche una responsabilità a cui far fronte. Arriva il mio turno di attaccare la roccia, guardo il camino e sorrido: “Grazie a dio è un camino e non una placca. Coraggio: mostriamo a queste leggende di cosa sono capaci i ragazzi dei Corni!”

Il camino è strepitoso. Risalgo strisciando ed avvolgendomi seguendo la stretta sinuosità della doppia esse. Faccio appello a tutto quello imparato in grotta e mi alzo “respirando”. Attorno ad un sasso un cordino in canapa: Panzeri è passato di qui!

Riemergo dal camino e raggiungo la sosta. Un paio di fettucce su dei sassi incastrati ed un chiodo formano un’elaborato ed elegante intrigo di corde. Ivan mi chiede di fare sicura a Gianka mentre lui e Joseph si scambiano di ruolo. Gli occhi ed il sorriso di Joseph sono diversi, è apparsa un ombra che prima non c’era. Qualcosa in quello che ci aspetta sembra averlo turbato.

Ivan parte da primo, questo è di sicuro l’ultimo tiro prima di raggiungere i prati sulla cima. Probabilmente Panzeri è uscito attraversando sulla sinistra verso una pianta da cui è possibile risalire per prati e roccette. Ivan e Joseph stanno “raddrizzandogli” la via attraverso l’instabile tratto finale del diedro camino.

La questione si fa dura, dura abbastanza da ingaggiare completamente tanto Ivan quanto Joseph. Ivan supera il primo tratto alzandosi tra le due strette lame parallele del camino. “Attenzione Davide, non toccare i massi sul fondo del camino: sono grossi ed instabili. Joseph seguimi bene.” Ivan arrampica sempre con il sorriso ma il suo motore ora gira a pieno regime. Oltre il camino inizia muoversi con estrema cautela. “Qui è una merda, negli ultimi tre metri siamo su una frana”. Forse dovrei essere preoccupato, ma in fondo lui è Ivan Guerini e quella stessa frase l’ho sentita dire fin troppe volte anche a Mattia. Sono davvero poche le vie ai Corni in cui l’ultimo tiro non sia una merda dall’istinto omicida, alla fine ci si abitua….

Ivan passa, il mito interpreta se stesso. Anche Joseph passa. Gianka parte prima di me, si infila nel camino e comincia a salire. La frana deve essere davvero brutta, Gianka è preoccupato per me ed esita il passaggio. Io oltre la nicchia trovo una piccola ma comoda grotta, asciutta e con il fondo in morbido muschio. Mi ci infilo puntellandomi: ”Giaka vai tranquillo. Sono al coperto. Posso quasi bivaccare qui”. Gianka riparte “Stai attento qui! Mi raccomando” Io e lui ci siamo fatti compagnia tutto il tempo e si è preso cura di me per tutta la salita.

Anche lui passa. Attacco io. Il camino è stretto e pieno di “coccodrilli” dall’aspetto incazzoso. Passo puntellandomi con le ginocchia nel vuoto come una rana. Raggiungo la frana ed il mio concetto di “merda” si evolve ad una nuova e totalmente imprevista dimensione. “Come accidenti ha fatto a passare Ivan?” Sono solo tre metri ma è un universo verticale di roba grossa ed instabile il cui equilibrio precario è frutto di una specie di sortilegio applicato alla teoria del caos. Sono felice di essere l’ultimo e che all’altro lato del mio “canapone giallo” ci sia Ivan: probabilmente ora la mia vita è davvero appesa ad un filo.

Questa roba non può reggere, ma deve farlo. Per dio se deve farlo! Mi alzo quanto più leggermente mi riesca cercando distribuire peso e forze in armonia con quella follia. Poi, all’improvviso, è come se un castello di carte iniziasse crollare sotto di me. Grido “Recupera!” ed inizio ad aggrapparmi a ciuffi d’erba e rocce marce alzandomi verso le successive man mano che tutto si sgretola. Mi muovo con una rapidità che non mi appartiene, quasi comica.

Non ho nè il coraggio nè il tempo di guardare ciò che accade dietro di me, mi muovo e continuo a muovermi fino a che il mondo non riacquista una solidità accettabile. Ho il fiatone ma sono fuori. Sono ancora in mezzo alle roccette ma pare che ce l’abbia fatta. Sono vivo, ho arrampicato con Guerini nella prima ripetizione di una via di Panzeri: inizio a ridere ma questa volta c’è davvero una punta isterica.

Qualche metro più in sù, in sosta su un solido albero, Joseph mi urla allegro “Dai Birillo! Datti una mossa che se perdiamo la seggiovia è tutta a piedi!” Rido, mi spiccio ma da come infilo alla rinfusa il materiale nello zaino leggo tutto il mio “stranimento”. Ivan ride, Joseph scherza, Gianka arranca correndo verso la funivia. Io sono andato, sono probabilmente in un viaggio tutto mio iniziato quando la via è conclusa. Una parte di me lo sà, ne è consapevole ma per una volta approva: “Fanculo Birillo, goditela! Guerini, Panzeri, prima ripetizione! Goditela!!”.

Quando di corsa entriamo sull’ultima funivia è come se tutti mi guardassero. Devo avere un sorriso idiota stampato in faccia e probabilmente mi muovo e parlo come uno sballato. Ivan è felice, scherza come sempre ed è soddisfatto della salita “Vedi” mi dice “per noi quella di oggi è una salita molto importante, la conclusione di una ricerca lunga ed impegnativa”. Io mi sento fuori come un balcone ma se per lui è stata una salita importante non credo abbia idea di cosa possa essere stata per me. Ride, mi indica altre vie che vorrebbe fare, io continuo ad annuire ma è sicuro, e forse evidente, che sto capendo la metà delle cose che mi sta dicendo. Poi un pensiero si fa strada nella mia testa: “Sai Ivan, credo che questa sia la mia prima volta su una via di Panzeri” Lui mi guarda un istante e poi scoppia a ridere assestandomi una pacca sulla spalla: “Beh Davide, pare proprio che tu abbia cominciato dalla più difficile!” Eccomi qui: Birillo ai confini della realtà!

Davide “Birillo” Valsecchi

Non credo di essere in grado di stilare una relazione tecnica della salita, per quello dovrete aspettare, come è giusto accada, che siano Ivan e Joseph a farlo. Quello che posso dirvi è che la via è un viaggio ed una battaglia. Il fatto che una mezza-sega come me ce l’abbia fatta non deve portarvi a sottovalutarla: in questa magnifica avventura io ero circondato da pezzi da novanta. Dal basso della mia esperienza posso solo dirvi che questa è una via da vivere nella passione che rappresenta, nei tempi e nei modi che ognuno trova adatti per sè. Anche solo nella fantasia se necessario. Spogliarla di questo suo valore significa solo affrontare qualcosa di inutilmente pericoloso. Mi raccomando.

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Può sembrare sciocco ma vorrei innanzitutto ringraziare ancora una volta Mattia e tutti coloro che ci hanno sostenuto ai Corni. Poi vabbè, per me è ancora strano pensare di essere stato in sosta con Guerini e di avergli dato “del tu”. Quindi non posso che essere grato ad Ivan, Joseph e Giancarlo per aver condiviso con me questa loro magnifica avventura: grazie!

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